venerdì 8 novembre 2024

Lo stupore della neve


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È sempre suggestiva la neve in natura, ma senza dubbio lo è anche in parecchi paesaggi degli Impressionisti che sono stati veri maestri nel rappresentarla cogliendone tutto il fascino.
Mi riferisco certamente a Monet a comiciare dal celebre dipinto intitolato "La gazza",
per proseguire con le numerose vedute di Argenteuil innevata; ma insieme a lui ho in mente anche Pissarro, Caillebotte, Courbet e Sisley, solo per ricordare i più rappresentativi.
Proprio di Alfred Sisley (1839 - 1899) avevo pubblicato tanti anni fa un post che
potete trovare qui nel quale commentavo "La neve a Louvenciennes", e torno oggi col dipinto che vedete, intitolato "Place du Chénil à Marly, effet de neige", conservato al Musée de Beaux-Arts di Rouen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E perchè questa composizione mi attrae in modo particolare?
Perchè è un'immagine fiabesca che,
a somiglianza di una preziosa perla che da un fondale marino riaffiora di tanto in tanto offrendoci la sua trasparenza, mi evoca i dettagli di un tempo infantile trascorso ma mai dimenticato.

Quel paesetto con le case addossate le une alle altre quasi avessero freddo mi ricorda infatti le illustrazioni di un'enciclopedia che avevo da bambina, insieme ad altre figure dei libri delle scuole elementari: piccoli universi di serenità dove iniziavo a familiarizzarmi con la vita e ai quali talora vorrei riandare come si desidera tornare a una felicità di sogno ancora intatta.

Ma nel dipinto di Sisley, oltre al paese, il tocco suggestivo è dato certamente dalla neve: un manto diverso da quelli pur bellissimi di altri pittori, che qui si arricchisce di densa corposità. Una neve della quale sentiamo lo spessore e il peso sui tetti, sui rami e sul terreno; un manto forse già molle nel quale i passi affondano lasciando orme scure, fatte di pennellate dense e materiche.

Quelli dell'artista sono infatti tratti semplici eppure molto efficaci nel ricostruire un ambiente, nel realizzare gli alberi - ricchi di ramificazioni che sarebbero piaciute a Mondrian - e insieme le figure umane: i due uomini vestiti di scuro e alcune donne davanti alle case, piccolissime ma non tanto che non ne possiamo intuire gesti, parole e forse anche pensieri. Un minuscolo universo che il genio pittorico di Sisley ci restituisce in un quadro di 50 per 61,5 cm.

Ma ad affascinarmi al di sopra di tutto sono i colori: è la suggestione del bianco, dell'azzurro, del grigio, del verde chiaro con qualche tocco di rosa sia nella rappresentazione della neve che del cielo. Tinte fredde, ma non gelide, e sfumature che si fondono in una delicata visione d'insieme, consentendoci di percepire l'atmosfera silenziosa e raccolta di certe giornate invernali.

E per prolungare tale sensazione di intimità data - nonostante sembri una contraddizione - proprio da queste tinte, ho pensato di associare al dipinto una musica lenta e assorta.
Come spesso accade, mi è venuto in soccorso Johann Sebastian
Bach, certo ben lontano da Sisley per contesto e cronologia, ma capace di oltrepassare i secoli con le sue melodie senza tempo. 

Così ho scelto il secondo movimento, "Adagio" del "Concerto Brandeburghese n.1 in Fa Maggiore BWV 1046", primo dei sei celebri concerti, considerati sintesi e culmine dello stile barocco ed esempi grandiosi del multiforme genio bachiano.
L' Adagio è un brano dall'atmosfera intensamente meditativa, nella struggente dolcezza di un re
minore che qui non mi pare induca tanto alla malinconia, quanto all'introspezione. Delicatissimo il dialogo che si configura tra oboe e violino, arricchito da numerose dissonanze che conferiscono profondità a una melodia non priva di suggestioni vivaldiane. Sembra condurci infatti fuori e insieme dentro di noi, attraversando paesaggi semplici e antichi dove la musica, come la neve del dipinto, fa fiorire lo stupore.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

giovedì 31 ottobre 2024

La scala mobile

Sto invecchiando.
"E te ne accorgi solo ora?" dirà qualcuno.
No, se è per que
sto lo so da tempo! Ma di tanto in tanto compaiono piccoli segnali che me lo ricordano: cose da poco in sè, ma una oggi, l'altra domani... insomma fanno pensare.

L'ultima avvisaglia mi è arrivata giorni fa mentre ero in un grande magazzino. Cercavo i tovagliolini di carta a fiori e dovevo andare nel reparto casalinghi che era nel seminterrato, ma avviandomi verso la scala - quella fissa - ho trovato solo la rampa in salita: possibile?... Ho girellato qua e là, ma niente. Così ho dovuto prendere quella mobile. "E dove sta il problema?..." direte. Tranquilli, c'è. 

Il fatto è che non ho mai avuto simpatia per le scale mobili in discesa. A me che uso tranquillamente funivie e seggiovie sulle alte vette, quel vuoto - chissà perchè - ha sempre dato fastidio.
L' ho provato per la prima volta da bambina quando mia mamma mi portava a Milano
. Erano pomeriggi di svago: dalla nostra città prendevamo la celere - che era l'autobus veloce dell'ATM, non il reparto di Polizia! - e in una mezzoretta arrivavamo a destinazione. Poi ci sguinzagliavamo di buon passo per le vie del centro facendo tappa anche alla Rinascente.
Qui mia mamma, giustamente attenta a che
imparassi a sveltirmi, mi aveva insegnato come salire e scendere dalle scale mobili. Per la salita nessun problema, ma in discesa avevo sempre paura a fare il primo passo e dovevo aggrapparmi a lei. Poi certo, col tempo ho imparato a usarle senza difficoltà a cominciare da quelle della metropolitana milanese, ma se capita che siano più ripide e veloci del solito, l'antico disagio ricompare.

Mi è successo anni fa nel metrò di San Pietroburgo dove mi ero abbarbicata a mio marito per non cadere, ed è accaduto anche nel grande magazzino di cui parlavo dove ero sola. Sola significa che la pietosa scena non ha avuto testimoni. Davanti ai gradini che scorrevano ripidi e veloci, avrei avuto tutto il tempo di fare con calma il primo passo, ma è scattata in me un'esitazione viscerale, insieme a una voce che ha sentenziato "No, non ce la puoi fare!".
E per la prima volta sono tornata indietro.

Tuttavia, memore dei tovagliolini, mi sono intestardita a cercare
una rampa fissa che ho poi trovato seminascosta dal reparto profumeria e sono finalmente approdata ai casalinghi.

È stato al momento di risalire - stavolta sì, sulla scala mobile - che ho preso coscienza del problema e mi sono detta: "Ragazza mia, come ti sei ridotta! Stai proprio perdendo colpi!" e altre simili stupidate.
Ma, invece di precipitarmi nella depressione, tale consapevolezza mi ha fatto sorridere perchè -
in un flash improvviso - mi sono venuti in mente quei cani che hanno paura delle scale mobili e devono essere portati in braccio dal padrone. Il pensiero di essere diventata così - giusto come il golden retriever della foto - mi ha suscitato un moto di affetto per me stessa tanto che, quando sono riemersa al piano terra, ridevo da sola e ho dovuto infilarmi gli occhiali scuri per darmi un contegno!

Ora chiedo scusa a chi legge per la divagazione, ma l'argomento mi ha preso la mano. Devo dire che, al momento di associare una musica a questo piccolo episodio, la scelta non è stata facile. Mi serviva un brano leggero e ho pensato prima a Rossini, poi a Mozart, poi Scarlatti, Chopin, Beethoven, Ponchielli, Saint-Saëns, poi alla "Fantasia" di Walt Disney e su su fino alla colonna sonora della Pantera Rosa che qualche volta - lo giuro! - pubblicherò.
Però...Certi brani non sono adatti, altri sono già nel blog;
nel "Carnevale degli animali" non ci sono cani; nella "Fantasia" di Walt Disney a scendere le scale c'è Topolino ma, appunto, non è un cane e, se è per questo, non lo è neanche la Pantera Rosa.
In verità, avrei potuto cavarmela con i famosi "4,33" minuti di silenzio di John Cage, che
avrebbero opportunamente interpretato la mia esitazione davanti alla scala. Ma ho esitato anche qui!

Infine, ho trovato il "Pizzicato" dal terzo atto del balletto "Sylvia" di Léo Delibes (1836 - 1891) e mi ha convinto. Il brano - diciamola tutta - non c'entra proprio niente con cani e scale mobili, ma è un pezzo leggero e giocoso, ammiccante al punto giusto, che mi restituisce quel che di timoroso e un po' furtivo della mia avventura nel grande magazzino.
Mi ci rivedo mentre mi blocco davanti alla scala, poi mentre mi aggiro alla ricerca di una
rampa fissa dove scendere con l'incedere di una miss, e infine quando mi scappa da ridere e devo nascondermi dietro due occhialoni da diva.
A parte gli scherzi, il pezzo mi affascina per i suoi pizzicati così nettamente scanditi e il ritmo di danza
che mi riconcilia con me stessa, sull'onda di quel sorriso sorto spontaneo al pensiero di avere le stesse paure di un cane.
E per di più simpatico come un golden retriever!

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

mercoledì 23 ottobre 2024

Specchi d'acqua - 10


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarà stata la pioggia di questo periodo insieme al cupo grigiore di certe mattine ad indurmi a cercare immagini che restituiscano luminosità e trasparenza al cielo e gaiezza al cuore. Così, per lo specchio d'acqua di questo mese ho scelto alcune delle foto che avevo scattato qualche anno fa sull'Arno a Pisa.
Era dicembre e l'azzurro che vedete non è frutto di un ritocco, ma
era davvero così, col nitido splendore di certe belle giornate invernali. Sono immagini riprese in orari diversi e ce ne accorgiamo dal cielo decisamente terso nel corso della mattinata, mentre nel pomeriggio si va coprendo di una cortina di nuvole che dalle colline dell'entroterra avanzano verso la costa. 

Ma l'aspetto che ogni volta mi prende sempre di più è l'apertura luminosa di questo panorama che mi restituisce un profondo respiro.
Non per niente, dovendo a suo tempo inaugurare un calendario nuovo per l'anno seguente - e chi legge questo blog sa che, per quanto non ci sia nata nè ci viva, lo voglio sempre con immagini della Toscana - invece di comprarlo, me l'ero fatto con le mie foto.

Era bello al mattino, in cucina, alzare lo sguardo sul muro e vedere il buio invernale illuminato da questi panorami che ancora, quando li osservo, mi allargano il cuore.
Questione di proporzioni, probabilmente, che spesso mi hanno fatto apprezzare i Lungarni pisani ancor più di quelli fiorentini. Grazie infatti alle dimensioni non eccessive degli edifici in rapporto all'ampiezza del fiume, qui essa risalta meglio facendosi specchio al cielo e alla bellissima fila di palazzi.
Ne vediamo in particolare, nella foto soprastante, uno
dei più antichi: Palazzo Agostini, detto anche Palazzo Rosso per il colore della pietra, edificio medioevale in stile gotico e dal cornicione molto aggettante com'è tipico di tanta architettura toscana.

Tuttavia è il fiume ad offririci le suggestioni più vive.
Sono certo i riflessi ondeggianti della case e il
tremolare dell'acqua che confonde i loro profili regolari facendone una sorta di dipinto impressionista. Ma è anche - nel dettaglio qui a lato - il gabbiano in volo che si scorge in basso e che ci ricorda il mare lontano solo una decina di chilometri dove l'Arno va a sfociare, a Marina di Pisa.

Così pure sull'altra sponda, nella grande curva del fiume e davanti ai vari edifici, risalta la chiesetta di Santa Maria della Spina, nel suo marmo chiaro e nei suoi pinnacoli gotici che si riflettono nell'acqua come un piccolo, luminoso gioiello.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche da questa parte, il panorama ci regala una profondità spaziale che illumina gli occhi e al tempo stesso il cuore colmandolo di bellezza.
Bellezza e storia intrecciate, perchè l'Arno è parte integrante delle molteplici vicende
che, dal Medioevo in poi, hanno segnato non solo Pisa e Firenze, ma tutta la Toscana. Un fiume ricordato spesso da Dante a cominciare dal Canto XIV del Purgatorio ("Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia") e che dalla sorgente nel cuore del Casentino sfocia in mare proprio a poca distanza da Pisa. Un fiume che attraversa città dal passato glorioso, ma spesso tormentato da lotte, guerre e - venendo più vicini a noi - rovinose alluvioni.

Per questo, nella scelta della musica da associare alle immagini, non ho voluto un pezzo che si risolvesse imitando il movimento delle onde come nei vari giochi d'acqua pubblicati talora in passato.
M'interessava invece un brano sinfonico di portata più ampia, che
riproducesse la mia percezione di apertura davanti a queste immagini e insieme la maestosa solennità del fiume che, ormai ricco di acque, con tutta la rilevanza della sua storia si dirige finalmente verso il mare.

Così ho scelto il "Preludio sinfonico in La maggiore" di Giacomo Puccini (1858 - 1924): una fantasia scritta in epoca giovanile che a suo tempo non aveva riscosso particolare successo, ma che è stata riscoperta e ripresa da una cinquantina d'anni a questa parte. Un brano da ascoltare e riascoltare a lungo per scoprirne tutto l'incanto.
Si tratta di una composizione di grande respiro orchestrale che inizia dolcemente,
con accenti di delicata intimità, proprio come un fiume alla sua sorgente, tra passaggi assorti in minore e altri, più gioiosi, in maggiore. Il suo andamento prosegue senza ignorare momenti forti, ma illuminandosi sempre più, simile a un corso d'acqua che nel suo procedere si allarga maestoso verso la foce a raggiungere il proprio compimento. Lo si avverte da certe frasi musicali ripetute in tonalità sempre più alte e solenni che poi sfumano di nuovo in dolcezza nella conclusione.
Un Puccini di soli 24 anni, ma già capace di una passione che, se da un lato si esprime in
grandiosità orchestrale, dall'altro si effonde in melodie di tono più intimo che anticipano lo stile di alcune future romanze.

E a proposito di melodie, mi permetto un'ultima osservazione.
Ce n'è una che esordisce a 4.12 dall'inizio - fateci caso, per favore! -
un breve, dolcissimo tema cantabile che immagino anche a voi ricordi qualcosa di più recente.
A me pare di sentirlo riecheggiare nella celebre colonna sonora del film "La vita è bella", scritta da Nicola Piovani e che nel 1999 gli ha meritato l'Oscar.
Certo il ritmo è diverso: mentre il frammento di Puccini è animato da intensa e romantica passione, la
 musica del film ha un tono più leggero e quasi giocoso, anche perchè l'argomento della pellicola - in sè tragico - è trattato però da un'ottica particolare. Ma la somiglianza a mio avviso c'è.

Una coincidenza casuale o davvero il Maestro Piovani ha preso spunto dal Preludio sinfonico rielaborando con la propria inventiva quel piccolo frammento? Sarebbe comunque un bel rimando culturale, ma insieme a lui meriterebbe l'Oscar anche Puccini!

Buon ascolto!


martedì 15 ottobre 2024

Incanto di un sol minore

In tanti anni di blog - e fra qualche giorno saranno la bellezza di quattordici! - mi accorgo di non aver mai pubblicato alcune musiche più che mai famose, divenute nel tempo patrimonio di tutti e in qualche modo simbolo dei loro autori.
Mi riferisco, per esempio, alla "Toccata e fuga
in re minore" di Bach, al "Largo" di Haendel, alla "Quinta" e alla "Nona" di Beethoven, alla "Polacca in La bemolle maggiore op.53" di Chopin e non solo.
Il fatto è che di tali opere si sono dette tante e tali cose che, se mi ci mettessi
anch'io che non sono nessuno, mi parrebbe di aggiungere solo banalità.
E siccome qui non ho mai avuto intenzione di fare la storia della musica, ma semplicemente di
condividere considerazioni più piccole e insieme più personali, su certe celebri composizioni ho sempre glissato. 

Oggi tuttavia, tirata per la giacca dal mio blog che, giunto ormai alle soglie dell'adolescenza, comincia a scalpitare avanzando qualche pretesa, mi sono decisa a pubblicare il brano forse più popolare di Wolfgang Amadeus Mozart: la "Sinfonia in sol minore n.40 K.550" nel suo incantevole primo movimento. Ma non è tanto sul fascino di quest'opera che vorrei soffermarmi e neppure sulla sua costruzione armonica, ma su di un aspetto che mi ha sempre colpito: la tonalità.

Sappiamo tutti quanto ogni tonalità abbia un proprio carattere che la rende particolare e unica, tanto che cambiare quella originaria di un pezzo significa compromettere parte del suo fascino, perchè certi tratti di bellezza sono legati a precise frequenze sonore e a una coerenza interna al brano che non andrebbe modificata.
Ma mi riferisco anche alla grande differenza tra i toni maggiori, luminosi, sereni,
esuberanti, assertivi, e quelli minori che inclinano verso la malinconia, l'incertezza o l'ombra. Ragion per cui, in un complesso di 41 sinfonie di cui 39 scritte da Mozart in tonalità maggiore, davanti alla K.550 in sol minore - insieme alla K.183 - mi sono chiesta il motivo di tale scelta.

Dopo composizioni dal clima brillante ispirate ora alle ouvertures italiane, ora alla dialettica tra stile dotto e stile galante, qui l'atmosfera cambia.
È l'inizio a catturarci subito - come vedete dalla foto - con quella mezza battuta di accompagnamento affidata alle viole simile quasi a un sospiro che precede l'esposizione del tema. Non è l'incipit solare o salottiero di tanti pezzi del passato e, se anche l'indicazione agogica recita "Allegro molto", le note ci immergono subito in un'atmosfera di malinconia tesa e nostalgica, come sgorgassero da un movimento d'anima angoscioso.
Allegro molto ? Forse, se si vogliono rispettare i canoni che assegnavano al primo
tempo di una sinfonia un carattere di vivacità. Tuttavia, proseguendo nell'ascolto, le note si fanno sì concitate, ma drammatiche. Non è olimpica serenità, non è più certezza di una felicità esistenziale, ma un senso di affanno, un gorgo di inquietudini segnato da qualche sprazzo di luce insieme a parecchie ombre. 

Siamo nel 1788 e sono in parte le cupe vicende esistenziali di un Mozart trentaduenne che morirà solo tre anni dopo, a influenzare il tono di questa composizione. Ma al tempo stesso è il clima culturale dell'epoca che dalle certezze illuministiche sta piegando verso altre concezioni della vita dove il prevalere del sentimento sulla ragione, la percezione del mistero che avvolge l'esistenza umana e il bisogno dell'individuo di contrastare il proprio destino si fanno sempre più consistenti. È l'affermarsi del movimento preromantico, con le sue ombre e insieme il suo impeto - lo Sturm und Drang - a segnare anche la musica cominciando da Haydn e poi Mozart soprattutto in questa fase della sua vita.
Se infatti la tonalità minore della K.183 - scritta a soli diciassette anni - può essere
attribuita all'influsso della musica di Haydn che il compositore salisburghese conosceva e stimava, la K.550 è frutto di una sensibilità preromantica ormai più matura e consapevole. E l'incipit della sinfonia lo spiega meglio di tante parole.

Sulla particolare scelta del sol posso dire solo che è una tonalità soffusa di tristezza, ma non tragica come il re minore al quale Mozart affiderà il suo Requiem. Una tonalità malinconica ma, a mio avviso, qui ancora morbida.
Del resto, il sol minore è stato usato spesso sia nel periodo barocco che in quello classico
ma anche in seguito con esiti ora pervasi di tristezza, ora invece più energici.
Qualche esempio? Si va dal famoso Adagio di Albinoni al Magnificat RV 611 di Vivald
i e ai tre tempi della sua celebre Estate. Lo troviamo in Bach col Concerto BWV 1058 e la piccola Fuga BWV 578. Poi ricordiamo le Sinfonie n.39 e n.83 di Haydn, per passare al periodo romantico con la Ballata n.1 op.23 di Chopin, il Concerto per violino di Bruch fino a Brahms e a Rachmaninov con svariate altre opere.
Solo pochi esempi, dicevo. Lascio a chi lo desidera il compito di divertirsi proseguendo nella ricerca.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

lunedì 7 ottobre 2024

Sera d'autunno

È proprio vero che chi cerca trova...ma non è detto sia sempre quello che sta cercando. A volte ci s'imbatte in qualcosa di inaspettato - vecchio o nuovo, conosciuto o meno non importa - ma tale da suscitare e soddisfare il nostro interesse ancor meglio di ciò che volevamo.

Sfogliavo giorni fa le foto nel pc in cerca di un dipinto che credevo di aver salvato e invece...Invece al suo posto ho scoperto l'immagine che vedete presa chissà quando da un sito di sfondi paesaggistici. E il suo cielo autunnale, la solitudine della campagna brulla attraversata da quel sentiero che conduce chi sa dove mi hanno affascinato al punto da fondersi col presente. Tempo grigio anche qui infatti, a tratti piovoso, e mentre la luce andava digradando avevo la sensazione di percorrere davvero quella stradetta sterrata, camminando assorta e lasciando vagare i pensieri.

Allo stesso modo, giorni fa stavo cercando un pezzo di Gounod e invece youtube mi ha riportato improvvisamente a una composizione di Bach impossibile da dimenticare, uno di quei movimenti lenti che ti restano nel cuore e che, riascoltati a distanza di tempo, ti regalano ancora più intensa tutta la loro suggestione.
Si tratta del "Larghetto" dal "Concerto in Re maggiore BWV 972" che avevo
pubblicato più di otto anni fa proprio quiÈ una trascrizione bachiana da Vivaldi come spiegavo nel vecchio post, nel quale avevo condiviso la bellezza di tre clip audio: l'originale vivaldiano e due versioni bachiane, una eseguita al clavicembalo e l'altra al pianoforte. 

Proprio quest'ultima è quella ricomparsa all'improvviso su youtube, sempre nell'incantevole interpretazione di Boris Bloch, pianista ucraino classe 1951. Proprio quest'ultima ho riascoltato l'altra sera mentre fuori imbruniva e iniziava a piovere piano. Lo sentivo dal ticchettìo sulle finestre della mansarda mentre lo schermo del computer era un'oasi di luce azzurrina nella penombra della stanza.
Niente come quel brano aveva risvegliato in me un silenzio assorto,
un respiro privo di affanno quasi il ritmo del cuore somigliasse a un passo tranquillo sul viottolo di campagna della foto, ed esistesse una segreta, riposante sintonia tra la sua atmosfera autunnale e le note di Bach. 

Allora ho pensato che dovevo ripubblicare quella musica perchè il mio cuore era lì, ad ascoltare la morbida eleganza con cui il pianista affrontava la tastiera, arricchendo il brano di abbellimenti e - come altri celebri interpreti - scandendone a fior di labbra le note ora con piglio severo, ora con un'ombra di sorriso.
Il pezzo non presenta grandi difficoltà tecniche, ma il suo splendore è tutto affidato alle capacità interpretative di chi lo esegue. Ed è qui che emerge la classe di Boris Bloch che da un lato trasforma gli accordi iniziali e finali del "Larghetto" in delicatissimi arpeggi, e dall'altro dona alla melodìa un ritmo e una luce che ne sottolineano l'intimità e l'incanto.
Un'interpretazione decisamente fiorita se confrontata con altre più rigorose. Penso
per esempio a quella di Andrea Bacchetti che potete trovare qui: un Bach più essenziale, pulito, quasi spoglio, ma non privo di una sua timida dolcezza.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

lunedì 30 settembre 2024

La pioggia di settembre

Succede a tanti che un brano di musica, qualunque esso sia, resti impresso nella mente e nel cuore insieme alle particolari circostanze in cui lo si è sentito per la prima volta. Anzi, forse proprio per quelle circostanze, tanto che da esse poi non può più essere disgiunto.
Per me almeno è così e potrei portare svariati
esempi.
Dal Larghetto della Sinfonia classica di
Prokofiev che mi riconduce agli anni di università, alle note introduttive del Messiah di Haendel che mi ricordano una sera d'inverno a Venezia, ogni volta i vari brani mi restituiscono tempo, luogo e atmosfera del primo momento in cui li ho sentiti. E l'elenco potrebbe continuare.
Ma c'è un pezzo su cui non mi sono mai soffermata prima d'ora e che mi è entrato
irrimediabilmente nel cuore in un pomeriggio di pioggia, mentre ero in casa di amici, una bella manciata di anni fa. E mi piace rievocarlo adesso.

Era settembre anche allora e il mese si era annuziato piovoso, con quel grigiore che spazza via d'un tratto l'atmosfera delle vacanze proiettandoti nel clima autunnale. La scuola era iniziata da poco e tornavo a metà pomeriggio da una riunione finita più presto del solito. Mancava ancora tempo al mio treno ed ero passata a trovare un'amica per concerdermi un'oretta di gioiosa distensione. Lei però non c'era e i suoi mi avevano invitato in casa ad aspettarla. Così, ero rimasta lì in un'atmosfera di famiglia e in un calore invitante, facendo la spola tra la cucina dove la nonna stava infornando una torta e il soggiorno dove il bimbo della mia amica giocava.

Ma in sottofondo, dal bellissimo impianto stereo della stanza veniva una musica, una melodia che non mi pareva di conoscere e che ben presto mi aveva catturato al punto da assorbire tutta la mia attenzione.
Le persone mi parlavano, il piccolo continuava a giocherellare sul divano,
fuori pioveva a dirotto, ma io non avevo orecchi che per quelle note che mi stavano letteralmente portando via.
Una ridda di sensazioni mi aveva investito con tale intensità quasi la mia anima
avesse trovato lì un universo nuovo cui aderire. E la musica mi era rimasta impressa insieme alla pioggia torrenziale che vedevo dalla grande finestra del soggiorno, come se esistesse un legame segreto tra quelle note e l'acqua che veniva giù fitta annunciando una stagione nuova.

Avevo ventisei anni ed ero vissuta fino a quel momento a pane e Swingle Singers, fughe di Bach e arie di Haendel. Poi certo anche Mozart, poi Beethoven, Chopin e altri romantici, ma la mia passione restava ancorata alla musica barocca. Vi trovavo infatti altezze vertiginose che mi proiettavano nell'infinito di cattedrali gotiche, tra vetrate multicolori e volte ogivali.

Ora invece, all'improvviso, mi si spalancava davanti un infinito diverso, vasto e sconfinato come un mare, come un oceano percorso da onde inquiete, profondità misteriose insieme a scintillante, maestoso splendore.
Un universo nuovo, almeno per me, che mi stava catturando con la dirompente
immediatezza di un colpo di fulmine e la forza di quelle realtà che, aprendoci a dimensioni sconosciute, svelano anche noi a noi stessi.
Del resto, proprio questo è il potere dell'arte in ogni sua forma.

Quella musica era la stupenda "Ouverture" del "Tannhäuser" di Richard Wagner (1813 - 1883) che forse in passato avevo anche distrattamente sentito, ma che in quel pomeriggio di pioggia, per la prima volta, stavo scoprendo e ascoltando davvero.
Il brano presenta subito i due filoni portanti dell'opera che oppongono amor sacro e
amor profano, la dimensione spirituale e quella sensuale dell'amore nel segno di un'esigenza sempre più forte di redenzione dal peccato. E vi si possono individuare due temi ben distinti.
Il primo si apre subito anticipando l'aria del celebre Coro dei
pellegrini dell'inizio del terzo atto. È un esordio fatto di pacati e misuratissimi accordi che mi hanno sempre lasciato una percezione di profonda quiete. La melodia, annunciata piano dai fiati, va poi facendosi gradatamente più intensa in un movimento ascensionale segnato dai salti di ottava prima dei violoncelli e poi dei violini e intervallato da ombrosi e struggenti passaggi in minore.
Infine, va a coinvolgere tutte le sezioni dell'orchestra culminando in sonorità
maestose e solenni.

Il secondo tema, che ci presenta invece l'irrefrenabile impulso con cui il menestrello Tannhäuser si abbandonerà alle seduzioni della dea Venere, è molto più acceso sia sul piano della melodia che del ritmo. Ancor più del precedente, vede il trionfo dell'orchestra in un crescendo ora di tono marziale, ora in una vivacità scomposta che va poi a spegnersi lasciando di nuovo spazio al motivo ricorrente del Coro dei pellegrini.
Qui - a partire da 9.52 dall'inizio - mi colpiscono i passaggi in cui la musica, come una tempesta che
raggiunge il suo acme e poi diminuisce d'intensità, in una successione di note discendenti sembra imitare il soffio del vento che cade, un soffio che ritroviamo poi alla base del tema iniziale e quasi intrecciato ad esso.

È dunque un procedere dalla calma alla vivacità, per giungere al limite del parossismo e poi tornare a sonorità più pacate attraverso una ricchezza di sviluppi melodici e timbri orchestrali per certi versi debitrice del passato, ma per altri nuova.
Da un lato infatti, ascoltando il brano proprio in questo passaggio discendente, mi
viene spontaneo pensare che qui Wagner abbia fatto riferimento a Beethoven per il quale aveva sempre nutrito profonda ammirazione, riprendendo il soffio del vento nel temporale della Sinfonia Pastorale e rielaborandolo alla luce della propria sensibilità.
Così pure, mi sembra di leggere un'eredità beethoveniana anche nei punti più acces
i del brano, che possono ricordare alcuni passaggi del movimento finale della Settima Sinfonia che Wagner conosceva e apprezzava. 

Dall'altro tuttavia, se consideriamo che la prima versione del Tannhäuser è stata terminata nel 1845 - quindi solo diciotto anni dopo la morte del rivoluzionario musicista di Bonn - ciò significa che nel giro di poco tempo ci troviamo già di fronte a ulteriori passi avanti e a un linguaggio innovativo. L'orchestra wagneriana infatti non è più soltanto sostegno dello strumento solista, ma pilastro portante dell'intera composizione, capace di esprimerne tutta la potenza attraverso l'ampliamento dell'organico con particolare riguardo agli ottoni, l'adozione di uno stile polifonico e l'uso di motivi conduttori.
Elementi che possiamo apprezzare in questo brano che qui trovate eseguito sotto la sapiente
direzione di Claudio Abbado.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

lunedì 23 settembre 2024

Specchi d'acqua - 9










 

 

Ho indugiato a lungo prima di dedicare lo specchio d'acqua di questo mese al dipinto che vedete. Non perchè non sia bello, ma perchè mi pareva che quel mare, se confrontato con altre immagini magari tempestose o più ricche di vibranti sfumature - da Turner fino a Monet e a Van Gogh per intenderci - non potesse esprimere più di quanto la pittura aveva già detto.
Invece mi sbagliavo.

L'ho scoperto osservando altre rappresentazioni: ruscelletti tranquilli dall'atmosfera
rassicurante in mezzo a giardini verdeggianti dall'aria antica e un po' fiabesca, bellissimi. Eppure lì ho colto la differenza e il motivo per cui quello specchio d'acqua tra l'azzurro e il blu, solcato da una vela, davanti a un faro e a un cottage, mi aveva attirato con il suo fascino.
Tutti avrete riconosciuto lo stile di Edward Hopper (1882 - 1967), pittore statunitense del quale ho già parlato altre volte su queste pagine. Tuttavia, non mi ero mai soffermata su quest'opera intitolata "The long leg" e conservata presso la Huntington Library di San Marino in California.

Già in passato, parlando di alcune creazioni dell'artista, avevo fatto riferimento al suo realismo, ai paesaggi rappresentati, ma insieme alla profonda solitudine dei personaggi che Hopper vi colloca, caratterizzati spesso da un senso di attesa. Raffigurazioni dal taglio fotografico che sembrano cercare completezza e compimento altrove, in uno spazio che sta oltre, fuori dal quadro. 

Tema ricorrente di svariate opere - oltre a numerosi interni e ambienti metropolitani - è la raffigurazione del mare e di una costa dove spesso un faro si erge a dominare lo spazio circostante. Così è anche in questo dipinto in cui l'immagine attira per la sua semplicità unita a nitida bellezza, per i colori luminosi di cielo ed acque e per quelle incantevoli vele chiare, oblique, dalla splendida volumetria che può ricordare delle figure coniche.

 

 

 

 

 

 

Commentatori e critici parlano di un clima di pace e serenità quasi vacanziero, tuttavia, nel mio piccolo, non sono dello stesso avviso. Certo, il quadro ha una luminosità fatta di tinte giocate soprattutto tra l'azzurro e il bianco in una tessitura coloristica compatta anche nelle lievi increspature dello specchio d'acqua e nelle differenti sfumature di blu. Ma, nonostante questo, ne ho una percezione diversa.

È l'assenza di figure umane, è l'immobilità di quelle vele che potrebbero animare la scena e invece sono ferme, è il paesaggio ridotto all'essenziale nella costa brulla e vuota a lasciarmi una sensazione di profonda solitudine.
Una sorta di solitudine primordiale, straniante, quella
delle cose quando nessuno le vede, in cui natura e oggetti non hanno ancora un nome con cui l'essere umano possa riconoscerli e farli suoi intrecciando con essi una vicinanza che li renda familiari.

Il dipinto di Hopper mi comunica infatti una percezione di sottile inquietudine, un senso di sgomento che fa di quel cielo infinito uno spazio vuoto e la spiaggia simile alla soglia di un universo sconosciuto in cui scoprirci soli e spaesati. E senza sconfinare in paragoni con la fantascienza o con certo teatro dell'assurdo, mi sembra che proprio qui stia il genio dell'artista, in questo suo condurci oltre, in un realismo che supera la rappresentazione puramente mimetica delle cose per scandagliarne l'aspetto metafisico, la profondità inafferrabile e senza tempo.
E se in passato, a proposito di alcune sue opere, avevo fatto riferimento a De Chirico, torno qui a
ribadirlo. 

Così, a queste immagini mi piace associare un brano del compositore statunitense Philip Glass. Si tratta del mirabile "Etude n.2" per pianoforte solo, pezzo molto conosciuto ed eseguito spesso per la sua relativa semplicità sul piano tecnico, ma insieme per il suo fascino.
Com' è tipico dello stile del musicista, il tema - una melodia arpeggiata in un ritmo
dolcemente sincopato che alterna battute sul tempo di 7/8 e 4/4 - si ripete più volte prima in modo delicato, poi sempre più martellante ed energico per diminuire infine di intensità e andare a spegnersi piano.
Gli arpeggi si alternano all'inizio sulla mano destra, poi sulla sinistra, mentre gli accordi
, giocati ora sulle ottave più alte, ora sulle più basse, ci regalano note acute ma soprattutto sonorità profondissime dal forte impatto emotivo. 

Sprazzi di luce dunque, e insieme suggestioni a volte stranianti che possono restituirci una percezione di ignoto a mio avviso simile a quella del dipinto di Hopper. 

Buon ascolto!

(Le foto sono prese dal web)

 

lunedì 16 settembre 2024

Jouer du piano

Tutti sappiamo quanto è impegnativo suonare uno strumento musicale, sia che ci abbiamo provato o meno, sia che lo si faccia da veri professionisti o da semplici dilettanti.
Suonare, in realtà, non è solo impegnativo, ma
spesso anche faticoso perchè - nel caso per esempio degli strumenti a tastiera - coinvolge il corpo da cima a fondo: dalle mani ai piedi, dalle dita alla postura della schiena. Ma è insieme attività che mobilita gli occhi e la mente nella comprensione del linguaggio musicale, tiene desta la memoria e sollecita quella sensibilità che, nascendo dal profondo, regala poi alle note ritmo, colore, fascino e suggestione.

Imparare una tecnica può certo essere difficile perchè necessita di costante esercizio, ma chi ormai ne ha una buona padronanza, può andare oltre conferendo al proprio tocco non la monotonia di un'esecuzione perfetta ma magari meccanica, bensì la meraviglia di un'interpretazione che nasce dall'anima e la svela. Chi suona infatti, nel modo in cui lo fa non dimostra solo la propria abilità nel riprodurre un testo musicale, ma mette in gioco anche se stesso in quella sorta di empatia che si crea col testo stesso e dalla quale nasce l'interpretazione.

Basta osservare lo stile di alcuni grandi pianisti - sia pure con le rispettive differenze - per cogliere anche il loro carattere e il loro gusto per la musica. Si va dalla precisione maniacale di Glenn Gould alla passione ispirata di Arthur Rubinstein; dalla sicurezza talora quasi sprezzante della Argerich all'atteggiamento di noncurante eleganza di Andras Schiff. Ma si potrebbe continuare.
E come accade in tante altre attività, raggiunto un certo livello di padronanza
, quando la tecnica non è più un problema arriva il divertimento, che non contrasta affatto con la serietà di ciò che si sta facendo, anzi, ne è forse il punto di arrivo. A questo proposito, mi è sempre piaciuta l'espressione francese che significa suonare il pianoforte: "jouer du piano". Interessante l'uso di un verbo che come primo significato ha giocare, in una definizione che non sottolinea la fatica di affrontare la tastiera, ma ne coglie l'aspetto ludico e divertente.

Proprio questa espressione mi è tornata in mente ascoltando giorni fa l'arrangiamento di un brano di Carl Philipp Emanuel Bach (1714 - 1788), il più famoso tra i figli del grande Johann Sebastian.
Il pezzo - spesso interpretato da pianisti grandi e piccoli - è il
celebre "Solfeggietto in do minore H 220", vivace andirivieni di note in sedicesimi che, al contrario di altri brani del musicista che si aprono a suggestioni nuove, rispecchia lo stile di Bach padre. Il titolo stesso, col riferimento al solfeggio, fa subito pensare a una composizione rigorosa e ben scandita.
L'indicazione agogica è Prestissimo e, in effetti, di solito il pezzo è eseguito
molto velocemente. Tuttavia, ha una versatilità e una bellezza che lo rendono affascinante anche se interpretato con tempi e ritmi differenti da quello originale. Motivo per cui, negli anni, non è stato solo arrangiato per strumenti diversi da quelli a tastiera a cominciare dal flauto e dalla chitarra, ma talora preso come base per bizzarre e funamboliche rivisitazioni.
Volete un esempio?

Dopo aver ascoltato l'originale, aprite anche la seconda clip audio. Qui il Solfeggietto è eseguito da Pierre-Ives Plat, pianista francese classe 1980, che lo rende assolutamente scatenato secondo ritmi che vanno dal jazz al ragtime, aggiungendo a piacere suggestioni che sembrano fiorire allegramente dalla sua fantasia man mano che suona. Una sorta - mi si perdoni il termine - di farcitura musicale in cui si ritrova un po' di tutto. Ascoltandolo - insieme a uno stile che talora può ricordare le colonne sonore dei film muti - riconoscerete il tema della canzone "Io cerco la Titina" reso celebre da un film di Chaplin, ma anche l'andamento sempre più vorticoso di certe danze russe, fuso qua e là ad un ritmo che può ricordare Scott Joplin!

Ma che c'entrano questi riferimenti col brano originale?
A mio avviso niente, se non la gioia di Plat di fondere arrangiamento e improvvisazione
con giocosa libertà, andando là dove lo portano la musica e la sua inventiva. 
Dite che qua e là pasticcia un po' ?...Forse, ma a mio avviso, dato il tipo di rielaborazione, la cosa ci può stare.
Infatti, se pure qui è lontano dalle raffinatezze di un pianista classico, Plat affronta la tastiera con strepitosa disinvoltura per "jouer du piano" con irrefrenabile, scanzonato divertimento.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)


 

lunedì 9 settembre 2024

Nello scintillìo della danza

Lo avevo già sentito varie volte in tv e in radio come sigla di alcune trasmissioni a tema musicale, e certo sarà capitato anche a tanti di voi di essere rapiti dal suo ritmo scintillante. Ma nonostante questo, il brano non era mai stato tra i miei preferiti risultandomi un po' troppo chiassoso. E invece...

Invece l'altra sera, navigando su youtube alla ricerca di un pezzo con cui riprendere dopo la pausa estiva, il suo ascolto a distanza di tempo mi ha colpito con un impatto diverso! Esistono proprio momenti e circostanze che ci fanno più o meno ricettivi, per cui ciò che una volta non ci attirava inizia d'un tratto ad affascinarci.

Sto parlando del brano di un compositore nuovo per questo blog al quale do gioiosamente il benvenuto. Si tratta del francese Léo Delibes (1836 - 1891), autore di musiche per opera lirica e operetta oltre a qualche pezzo sacro.
La sua fama però è legata soprattutto al balletto per il quale ha scritto melodie di
grande eleganza che apriranno la strada alle creazioni di altri musicisti, a iniziare da Tchaikovsky che del compositore francese era grande ammiratore.
Da questo punto di vista, il lavoro più famoso di Delibes - oggetto
tra l'altro di un grande successo sia ieri che oggi - è il balletto intitolato "Coppelia" : una vicenda  incentrata sull'infatuazione di un uomo per una bambola meccanica e ispirata ai racconti di E.T.A. Hoffmann, come farà anche Jacques Offenbach una decina di anni più tardi.

Il pezzo a cui mi riferivo è quello che apre il primo atto dell'opera, composto da due sezioni: "Preludio e Mazurka". Si tratta quindi di una musica prima sommessa, poi ricca di brio, dall'orchestrazione fragorosa e scintillante che, se a tratti può risultare tumultuosa per l'intervento delle percussioni e degli ottoni, altrove offre passaggi più lievi che inducono a immaginare passi di danza ritmati con leggerezza.
Se più conosciuta è senza dubbio la Mazurka, non è affatto trascurabile il Preludio
che la precede sia per il suo splendore che per la sua funzione.
Da un lato infatti, ha un esordio lento che sfocia gradatamente in un'intensa melodia
a 0.45 dall'inizio. Ma dall'altro costituisce un ineliminabile tempo di preparazione alla movimentatissima danza che segue.

Su youtube alcune clip audio riportano solo la Mazurka aprendosi subito in piena vivacità...ma ascoltarla senza il Preludio, a mio modesto avviso, non ha la stessa efficacia! Esso ci regala infatti una concentrazione e un'assorta dimensione di attesa che fanno scaturire ancor più viva in noi la gioia entusiasmante della successiva esplosione orchestrale.
Ne deriva una musica esuberante, decisa, direi quasi assertiva se alle note
applichiamo i caratteri del linguaggio parlato. Una musica che ci porta via con sè nell'energia dei suoi accordi e del suo ritmo fortemente scandito.

Ci lanciamo nel vortice della danza, allora?...
Sì e no, perchè - come ho già fatto altre volte - preferisco non pubblicare il
 video del balletto per lasciare alle sole note il compito di sollecitare la nostra fantasia, consentendoci di immaginare passi e movenze.
Vi resta il sorriso radioso di Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko che vedete nella foto in alto.

Buon ascolto!

(La foto è presa dal web)

 

mercoledì 14 agosto 2024

Buon Ferragosto!









Francesco Botticini (1446 - 1498): "Assunzione della Vergine" (part.) - Londra, National Gallery.

Sulle note di un canone di Mozart e con questo dettaglio della tavola di Botticini dove, nella tomba di Maria, al posto del suo corpo c'è una fioritura di gigli, auguro a tutti voi buona Festa dell'Assunzione, buon ascolto e buone ferie! Anche questo blog va in vacanza per qualche settimana.
A presto!

 

 Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791) : "Ave Maria K.554"

lunedì 5 agosto 2024

Specchi d'acqua - 8


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono svariati i modi in cui, nel tempo, i pittori hanno rappresentato l'acqua, sia che si trattasse di un mare sconfinato che di un piccolo specchio lacustre. Così pure, sono diversi i tratti con cui hanno riprodotto una tranquilla distesa di onde o dei marosi in tempesta. Dagli artisti medioevali al Botticelli, da Turner ad Hokusai, molto diversi sono stati gli stili e le tecniche usate, ora più fantasiose, ora più attente ad un'accurata imitazione della realtà, ma sempre interessanti.
Tuttavia, nella serie di dipinti su questo tema, non si può negare un posto a parte
agli Impressionisti che, nella rappresentazione della natura - insieme a cieli e nuvole, prati fioriti, alberi che stormiscono al vento, neve e tramonti - hanno riprodotto i corsi d'acqua con straordinaria efficacia. Trasparenze, luminosità, riflessi, vibrazioni, rifrazioni, riverberi: è un mondo intero di meraviglia e di stupore che tali artisti ci hanno regalato.

È Claude Monet (1840 - 1926), per quanto non l'unico, l'artefice più rappresentativo a questo riguardo, nel realizzare specchi d'acqua con un tocco pittorico che rende la liquidità in modo mirabile. Per questo, ho scelto qui quattro sue opere su alcune delle quali tanto è già stato detto con ampiezza di dettagli e più sicura competenza della sottoscritta, motivo per cui mi limiterò a qualche breve osservazione su ciò che in esse mi affascina in particolare.
È la loro sostanziale semplicità ad incantarmi. Se infatti accurati sono stati gli studi sulla percezione visiva compiuti dall'artista e realizzati poi nella riproduzione en plein air, la semplicità sta nel carattere del suo tratto sintetico e al tempo stesso efficacissimo nel rendere ciò che raffigura. 

A creare il fascino di queste opere è la mobilità dello specchio d'acqua, la lieve ondulazione della superficie insieme a quei riflessi che ce ne fanno intuire la profondità, a cominciare dal primo dipinto che vedete: "Regate ad Argenteuil", conservato a Parigi al Museo d'Orsay. Qui mi colpisce a tutta prima la sua luminosità nell'acqua che riflette l'azzurro del cielo insieme alle barche a vela e alla natura circostante. Sono quei tratti di colore orizzontali, spesso giustapposti e non mescolati, a riprodurre il dondolìo della superficie liquida dove, nel riflesso, le vele sembrano moltiplicarsi rendendo l'idea di un'immagine - come avrebbe detto, sia pure in un differente contesto, il poeta Ungaretti - cullata e piano franta. Tratti veloci e spessi, tesi a cogliere la sensazione di un attimo e la rifrazione della luce nel movimento delle onde.


 

Più cupo e vago nella sua atmosfera, ma non meno affascinante nel gioco di riverberi, è il celebre "Impression soleil levant", dipinto conservato a Parigi al Museo Marmottan e famoso anche per aver dato il nome al movimento impressionista.
È l'accostamento di tinte fredde con l'arancio del sole uno dei suoi tratti salienti, e insieme è l'efficacia con cui, in poche pennellate, Monet ha delineato le due figure sulla barca in primo piano e le altre imbarcazioni che sfumano dietro, lungo una sorta di linea prospettica obliqua. Suggestivo anche l'emergere dalla nebbia mattutina delle fabbriche e delle attrezzature del porto di Le Havre, simili ad ombre indistinte, quasi una poetica del vago e dell'indefinito tradotta in pittura che sarebbe piaciuta al Leopardi.
Ma ancor più mirabile l'acqua che riflette il sole e ne frantuma i raggi nella profondità e sulla superficie dell'estuario della Senna, arrivando fino a noi che guardiamo e non smetteremmo mai di contemplarne l'effetto, addentrandoci progressivamente nell'impressione colta dall'artista.

Differente, a mio avviso, è il fascino creato da altre due opere che ho scelto tra le tante: "Palazzo Contarini" e "Il ponte ad Argenteuil": la prima conservata al Museo Barberini di Potsdam e la seconda al Museo d'Orsay a Parigi. In entrambe è la vibrazione della superficie dell'acqua a colpirmi, una vibrazione leggera nella quale vediamo riflesse le architetture soprastanti.
 
 
 Nel primo caso, è il Palazzo Contarini a specchiarsi nel Canal Grande a Venezia, nell'andamento di vuoti e di pieni della facciata che creano nell'acqua una lieve e ondeggiante alternanza di luci e di ombre. 

 Nel secondo caso, sono i piloni del ponte, le barche e la casa sullo sfondo a riflettersi nella Senna con effetti di maggiore luminosità rispetto al quadro precedente, anche per la raffigurazione del cielo che nell'altro dipinto non c'è quasi Monet avesse voluto soffermarsi sui riflessi dell'edificio nell'acqua. In entrambi tuttavia, mi pare di ravvisare una vibrazione più sottile, come fosse una brezza leggera a percorrere la superficie ora della laguna, ora del fiume.

E per associare un brano di musica a questi dipinti, mi pare quasi d'obbligo pubblicare Claude Debussy (1862 - 1918) in uno dei suoi pezzi più ricchi di suggestione: "Reflets dans l'eau", primo di sei composizioni per pianoforte raccolte in due libri col titolo di "Images". Ho scelto appositamente una clip video con lo spartito del pezzo perchè chi è esperto di musica possa apprezzarne la bellezza non solo nell'ascolto, ma insieme nella costruzione tecnica. 
Difficile individuare qui una melodia o un tema preciso, dato che le note vanno registrando un movimento che muta e varia in continuazione, proprio come quello di un corso d'acqua e della mobilità di ciò che in esso di riflette.
Dalla tonalità di Re bemolle maggiore agli accordi più lenti della prima parte e agli arpeggi più veloci del prosieguo, il brano riesce davvero a riprodurre la fluidità delle onde ora più tranquille, ora più agitate. 
Interessanti i numerosi pianissimo iniziali e le varie indicazioni agogiche tra le quali quella molto evocativa che compare verso la fine: Lento (in una sonorità armoniosa e lontana). E l'uso frequente delle dissonanze, col loro timbro particolare, mi pare possa accordarsi con la tecnica del giustapporre i colori usata da Monet nei suoi dipinti. 
Non per niente Debussy è considerato uno dei più significativi esponenti dell'Impressionismo in musica.
 
Buon ascolto!
 
(Le foto sono prese dl web)