(foto presa dal web) |
Chissà perchè, talora, alcuni credono che parlare di passione significhi far riferimento a sentimenti espressi sempre con grande irruenza, o ad una sfera di comportamenti perennemente agitati, nel bene come nel male.
Lo dimostra il fatto che, anche nel linguaggio comune, la parola stessa è spesso associata all'idea di febbre o di violenza.
Che sia amorosa, politica, artistica o sportiva, della passione infatti si sottolinea di solito la forza, la suggestione, il dominio assoluto che essa può esercitare su di una persona, prendendo possesso del suo cuore e di tutte le sue facoltà.
Il vocabolario, a proposito dei vari campi a cui il termine può essere applicato, parla di delirio, furore, sofferenza, tormento, impeto, slancio, e l'impulso di un'anima appassionata è definito come amore ardente o paragonato proprio a un fuoco che divampa con veemenza.
E non si pensa invece che l'intensità di un sentimento - se certo si può osservare anche attraverso le sue espressioni e manifestazioni esterne - non è meno profonda quando esso è vissuto nel silenzio, in una dimensione tutta interiore. Anzi, il silenzio e la solitudine talora ne affinano il tocco, ne accrescono la carica alimentandone a volte il fuoco segreto, forse per questo ancor più bruciante.
Lo si può constatare a più livelli. Senza divagare troppo, basta considerare il mondo della poesia, per vedere che non sempre la forza di una passione coincide col romantico "Sturm und Drang", e per scoprire quali sentimenti traboccanti possano abitare invece il cuore di personalità schive dall'esistenza magari apparentemente sbiadita.
Un nome su tutti: Emily Dickinson, a proposito della quale non è un caso che il film uscito di recente sulla sua vita s' intitoli proprio "A Quiet Passion".
Un titolo ossimorico che, nella sua contraddizione, ci restituisce il senso di una fecondità artistica nata da un silenzioso, progressivo sottrarsi alle convenzioni e ai contatti esterni. Un isolamento che non ha impedito alla poetessa americana di affermare se stessa, rendendo ancor più acuto il suo sguardo sulle cose e più vibrante il mondo di emozioni espresso dai suoi versi.
Sto divagando, lo so, ma a suggerirmi questi pensieri non è stata una lettura poetica, bensì un brano di musica che - seppur lontano da tali riferimenti nel tempo e nello stile - in realtà mi pare tanto intriso di struggente passione proprio quanto la melodia è misurata e lieve.
Si tratta di una composizione famosissima, dalla quale non ero mai stata particolarmente affascinata come ascoltando questa interpretazione che per me ha avuto la freschezza della scoperta.
È il violinista Gidon Kremer a suonare qui "Oblivion", il pezzo forse più conosciuto di Astor Piazzolla (1921 - 1992) tratto dall'omonimo cd del 1998, in una lettura che, insieme ad un ritmo pacato, ci restituisce tutto il fascino e la sensualità del brano.
Qui la musica è un filo che si dipana sottile, un'aria sofferta cui ben si adatta il titolo "Oblivion" - oblio, dimenticanza - che, a maggior ragione, fa risaltare invece una passione sottesa, ora languida e malinconica, ora carezzevole e delicata anche dove il tema si fa più vivo.
A questo contribuisce l'interpretazione di Kremer che di ogni nota ci offre un suono misuratissimo, un tocco che nasce dal profondo, dalle prime battute fino alla conclusione in cui la melodia - così come all'inizio - si assottiglia tremante, simile quasi a una linea tratteggiata che via via si perde, a un ricordo che va a svanire nella memoria...
Un Piazzolla ricco di seduzione che ci porta via con sè nel suo ritmo sognante, sottolineato dai pianissimo e - qui in particolare - dalla morbidezza del violino.
Una musica appassionata che non si esprime in un gesto aggressivo, ma in un silenzioso, intensissimo moto dell'anima, simile a uno sguardo lieve eppur carico di sottintesi.
Buon ascolto!