"Gioire in Musica" è un piccolo spazio per condividere lo splendore della musica classica e le emozioni che essa suscita in noi; ma anche un luogo in cui raccontare quanto ogni musica nata dal profondo si intrecci alla nostra esistenza nutrendo il cuore e infondendoci vita, sorriso e limpidezza di sguardi.
Agosto: ancora uno scorcio di vacanza, uno spazio da dedicare a una passeggiata sui monti o in riva al mare, alla contemplazione di un quadro, a ripercorrere una collezione d'arte. Ancora l'occasione di darsi un tempo di tranquillità per rivedere quel dipinto o quell'affresco ammirato solo una volta, magari di fretta, e che ci è rimasto nel cuore.
Potessi tornare in questo momento dove desidero, andrei al Castello di Chantilly, poche decine di chilometri sopra Parigi, sede del prestigioso Museo Condé che fra le sue collezioni - ricche tra l'altro di parecchi dipinti italiani - conserva le miniature dei fratelli Limbourg col famosissimo Ciclo dei Mesi, vero fiore all'occhiello della raccolta d'arte, di cui ho già parlato qui due anni fa. Ma in mancanza d'altro....è sempre possibile sognare! Allora, oggi, con la fantasia desidero portarmi a Firenze, alla Galleria degli Uffizi, dove - tra le tante opere di più grande fama - si trova una tavola che mi ha affascinato fin dalla prima volta, una di quelle creazioni per le quali si può parlare di amore a prima vista.
Si tratta della "Tebaide", dipinto di controversa paternità, per diverso tempo attribuito a Gherardo Starnina (1354 ca. - 1413) e successivamente al Beato Angelico (1395 ca. - 1455), artisti - come si vede - vicini cronologicamente e accomunati da alcune caratteristiche della pittura tardogotica. La
tavola ci parla del monachesimo dei primi secoli diffusosi tra l'altro anche in Egitto - il titolo "Tebaide" si riferisce appunto alla regione intorno alla città di Tebe - e, sulla base dei testi dei Padri del deserto e
di alcune leggende medioevali, raffigura i vari aspetti della vita dei monaci, talora anche eremiti, nelle zone in cui si erano stabiliti. La descrizione si sviluppa in una miriade di particolari che catturano lo sguardo dello spettatore guidandolo da un angolo all'altro dell'opera che - ricca di tanti episodi diversi - non ci riconduce però a un centro. A parte la bianca insenatura in mezzo al quadro, non esiste infatti un elemento che, per importanza e impostazione narrativa o prospettica, s'imponga sugli altri. Le diverse scene sono riunite in un'unica cornice che sembra quasi fondere quelli che - soltanto un secolo prima - erano gli scomparti raffiguranti le varie fasi di una storia attorno al personaggio principale. Ricordiamo, per esempio, i tanti polittici dove la figura centrale del Santo è attorniata da numerosi quadretti che ne illustrano gli episodi della vita.
Qui al contrario, tra le varie scene è scomparso ogni tipo di separazione e il contesto unificante è costituito solo dalla natura, dall'abbraccio di quelle montagne scure nelle quali sono ricavate le celle e le grotte in cui gli anacoreti vivono, pregano e accolgono i fedeli.
Una miriade di particolari - dicevo - che tratteggiano un ambiente e i ritmi di un'esistenza di ascesi e di carità, una meravigliosa Bibbia dei poveri volta ad esaltare i caratteri della vita monastica. E nel contempo ci offrono un paesaggio ricco di scorci e definito con un gusto miniaturistico che molto avrà da insegnare ai futuri artisti del pieno Rinascimento, anche se qui ancora manca quella prospettiva unificante che sarà poi tipica del periodo successivo. Se infatti negli edifici ben delineati nelle loro architetture gotiche le proporzioni sono perfette, non si può dire la stessa cosa per il più ampio rapporto tra montagne, alberi e
figure umane.
Una cornice quindi che unisce elementi squisitamente realistici ad altri più vicini alla favola, come del resto in tanta pittura del Gotico internazionale. Ed è stato proprio questo aspetto fiabesco a prendermi immediatamente, con quelle casette disseminate qua e là in un brulicare di vita quasi fosse un presepio o una sorta di pittura "naif" antelitteram, sotto montagne fantasiose, simili a immagini che si perdono nei sogni dell'infanzia. Per non parlare poi della suggestione dei colori, con quella gamma di sfumature di verdi e di grigi che segnano insenature e anfratti, vette dense di ombre e radure nascoste: una rappresentazione che ci riporta nel cuore di un mondo lontano, misterioso, di una natura selvaggia e tuttavia affascinante proprio come una favola dal sapore antico.
E a commento di queste immagini, un brano che ci restituisce la calma contemplativa con la quale possiamo addentrarci nel dipinto e respirarne l'atmosfera. Si tratta del secondo movimento, Adagio, dal "Concerto n.1 in Do maggiore per violino e orchestra d'archi" diFranz Joseph Haydn (1732 - 1809), pagina mirabile e luminosa dove il violino ci accompagna con una melodia di dolce cantabilità che mi piace pensare abbia affascinato anche il giovane Mozart. Ma è il ritmo sommesso dei pizzicati a segnare il nostro passo mentre entriamo nelle varie scene del quadro e ne percorriamo i sentieri, respirando ad un tempo la pace delle immagini e la serenità contemplativa di queste note.
Buon ascolto! (Dell'intero dipinto non ho potuto postare una riproduzione più chiara, ma cliccandoci sopra s'ingrandisce)
Dal mio angolo di montagna dove ormai da anni trascorro l'estate, assisto al dipanarsi dei giorni di questo mese di agosto che, insieme a un po' di caldo, ci ha portato anche pioggia intensa e grandine. Sere fa, si è abbattuto un forte temporale - per fortuna senza provocare alcun danno - e devo confessare che.....è stato bellissimo! Perchè la sera, qui da me, il silenzio è assoluto, rotto soltanto dal
suono del torrente che scorre giù in mezzo ai prati, dal vento e
dall'incedere furtivo delle volpi, ormai divenute quasi domestiche. Ascoltare la pioggia battente e il temporale in questo silenzio è un'esperienza straordinaria perchè, se pure il fragore dei tuoni lo infrange all'improvviso, dall'altro in realtà lo esalta, facendone emergere tutto il misterioso incanto.
Poi, la mattina, dopo la pioggia e la rugiada della notte sono spuntati i crochi. Sono fiori bellissimi i crochi, teneri e delicati, e tuttavia resistenti, pronti a rinascere dopo ogni tempesta o dopo lo sfalcio. Allora è facile, percorrendo i sentieri nel verde, avvistarli qua e là, ancora chiusi in mezzo all'erba tagliata di fresco. Pur nella loro piccolezza, parlano di vita che rinasce tenace, che si rinnova con vigore, parlano di bellezza che non si lascia sopraffare, ma continua ad offrire un segno di umiltà e di splendore anche dopo un temporale o una nevicata. E mi fanno pensare a quanto la natura sia in certo qual modo specchio della nostra esistenza, nella sua varietà di eventi e di circostanze, nella sua alternanza di giorni di tempesta e di sole pieno, di ansia e di allegria, nel suo offrirci piccole gioie che punteggiano di luce e colorano di speranza anche i momenti di grigiore. Una danza, in fondo, che ci coinvolge ora turbinosa, ora più dolce e pacata.
Per questo, oggi mi piace postare un brano che trae ispirazione proprio dalla vita e dalla sua varietà e che, attraverso una molteplicità di temi e di ritmi, sembra celebrare l'esistenza nelle sue differenti manifestazioni. Si tratta di "Symphony of life", pezzo per pianoforte e orchestradal cd "Sunrise" di Giovanni Allevi. Qui, è come se la musica ci restituisse i tanti aspetti in cui la vita si snoda, le tante esperienze quotidiane di perseveranza o di fatica, di sofferenza o di ricerca, per sfociare poi in una limpida serenità, simile a un ritmo di danza o al gioioso abbandono di un bimbo che salta spensierato. Il brano alterna infatti momenti
più concitati e martellanti dove protagonista è l'orchestra, ad altri in
cui il pianoforte entra in primo piano a riportare una vena più intima e
sostanzialmente luminosa.
Devo confessare che è stata questa seconda parte di "Symphony of life" ad intrigarmi per prima più di tutto il resto. Capita spesso infatti, nell'ascoltare musica, che non sia sempre e necessariamente il tema iniziale ad affascinarci, ma magari un passaggio orchestrale, una variazione, un'aria successiva, a partire dalla quale poi però recuperiamo il gusto e lo splendore dell'insieme. Così, mi sono lasciata prendere subito da quel ritmo che prima ricorda quasi una danza sudamericana e dal pianoforte che lo scandisce in modo, a mio avviso, leggero ma insieme marcato e accattivante, mentre poi ci regala un'eco lontana di Ravel. Non è cosa nuova, del resto, che un movimento di danza percorra la musica di Allevi. Lo troviamo a volte in brani dove è frutto di una precisa intenzione - come nel Concerto per violino e orchestra intitolato appunto "La danza della Strega" - o in altri dove sembra scaturire spontaneo simile a una vena d'acqua che affiora irresistibile dal profondo.
E trovo nella struttura del brano anche una sorta di circolarità che, alla fine, ci riporta al tema iniziale e ai suoi sviluppi, come a simboleggiare il ciclo delle stagioni dell'esistenza che rinasce e si rinnova continuamente. Celebrazione, quindi, di una vita senza fine, come ci suggerisce l'ultimo accordo orchestrale che sembra restare in sospeso, quasi in attesa di un prosieguo. Buon ascolto!
Prendo spunto per il post di oggi dall'ultimo numero di "Sette" - allegato del "Corriere della Sera" - doveun articolo di Roberto Cotroneo ci parla delle "app". Come tutti sappiamo, si tratta di quelle applicazioni che, scaricate negli smartphone e nei tablet, ci consentono di trovare immediatamente ciò che cerchiamo senza timore di smarrirci o di sviarci nel mare di informazioni e di siti che internet ci presenta. Dagli orari dei treni al meteo, dai programmi tv alla musica o alla mappa di una metropoli e via dicendo, le app sono al nostro servizio con lo scopo di renderci il compito facile e veloce. Tutto è sempre più rigorosamente programmato perchè si vada a colpo sicuro, senza perdite di tempo o incertezze, ma senza neppure dover attivare quel minimo di iniziativa che talora può regalarci qualche sorpresa o novità, consentendoci di scoprire universi inaspettati. E' come se l'oceano sconosciuto e sconfinato in cui si viaggiava fino a poco tempo fa da internauti, ora fosse solcato da corsie preferenziali, indicazioni, cartelli seguendo i quali non è più possibile sbagliare. Ormai perdersi è un rischio d'altri tempi, quando una scarsa dimestichezza col web ci faceva magari girare letteralmente mezzo mondo prima che trovassimo l'informazione o la foto che volevamo.
Eppure, mi pare che tutta questa rigorosa programmazione, se da un lato costituisce un'indubbia comodità, dall'altro finisca per spegnere il fuoco dell'imprevisto e della sorpresa. Si tratta di strumenti utili certo, che tuttavia, facilitandoci la ricerca, ne limitano fortemente il raggio. Lo afferma anche Roberto Cotroneo all'interno dell'articolo, aggiungendo poi una breve osservazione sull'importanza del perdersi come modo per potersi ritrovare, parole che possono assumere anche un più profondo spessore, ma che di primo acchito mi fanno pensare a quanto sia bella, ad ogni livello, l'esperienza della ricerca. A ben guardare, infatti, cercare è un' avventura dai risultati quasi sempre positivi. "Chi cerca trova" dice il proverbio e - come tutti forse abbiamo sperimentato - spesso a lasciarsi trovare è qualcosa che in realtà non stavamo cercando. Sta proprio qui il bello! Vogliamo una cosa ma ne troviamo un'altra e il nostro perderci ci proietta in un mondo nuovo e sconosciuto che talora ci arricchisce di sè consentendoci insieme di scoprire tanto di noi stessi.
Ricordo una sera di parecchi
anni fa in Borgogna, senza smartphone, nè mappa, nè navigatore. Ci
eravamo smarriti nella campagna alla ricerca di un improbabile albergo e
già era buio. Quando l'ultima speranza di trovare un alloggio decente
per la notte stava per spegnersi, esattamente come nelle fiabe si era
aperta la classica radura con una casetta al limitare del bosco: era un
hotel ricavato da un'antica casa di campagna col mulino, la facciata a
graticcio, un arredamento pieno di calore, un ambiente delizioso. Ci
avevano ospitato nella graziosissima mansarda, ed era stato bello
addormentarsi nel silenzio rotto soltanto dal suono dell'acqua giù nella
gora. Insomma, davvero una favola! Poi,
la mattina dopo, ci eravamo resi conto di essere in cima a scale così
ripide che - più che di un albergo - erano degne di una torre
campanaria. Scendere con i bagagli appresso senza rotolare giù a
precipizio era stata un'impresa. Ma in compenso, avevamo riso come
matti! Bellissimo e indimenticabile!
Per questo, anche quando navigo in internet, nei limiti del possibile mi lascio un po' condurre dall'onda della curiosità e dal caso anche a costo di allontanarmi parecchio dal punto di partenza. Sarà perchè tante idee sono nate così, magari scavalcando i paletti che delimitavano rigidamente un percorso. Sarà perchè nelle mie notti insonni di adolescente, invece di contare le pecore, sognavo di perdermi a Venezia e quel sogno ad occhi aperti si riempiva sempre di impagabile fascino. Chissà!
Allo stesso modo, quando cerco un brano di musica su youtube, nonostante parta spesso con intenzioni precise, mi piace poi ampliare gli orizzonti e soffermarmi ad ascoltare anche ciò che il web mi propone nei pezzi correlati, cosa che mi ha fruttato spesso sorprendenti scoperte. Proprio una di queste è il brano di oggi, l' "Andante festivo" di Jean Sibelius (1865 - 1957), pezzo pacatissimo che nel tema iniziale ci riporta un'eco della Sinfonia "Dal nuovo mondo" di Dvorak. Una musica che ha la pacificante delicatezza di un'alba, e ci conduce poi in un crescendo di luminosità che culmina nella grandiosa e solenne intensità del finale. Buon ascolto!
Del bravissimo regista Giuseppe Tornatore, recentemente premiato con numerosi riconoscimenti per il film "La migliore offerta", ho rivisto sere fa "Nuovo Cinema Paradiso", forse la più famosa tra le sue pellicole o quella che comunque gli ha fruttato, a suo tempo, la maggiore notorietà. Conosciamo tutti la vicenda, una storia sul valore e il ruolo del cinema ambientata nel contesto di un immaginario paesetto siciliano nel secondo dopoguerra. La narrazione è imperniata sul rapporto tra Alfredo, anziano operatore cinematografico, e il piccolo Salvatore che progressivamente gli si affeziona quasi fosse il padre non più tornato dalla guerra. Nasce così tra i due un'amicizia e una complicità di affetti che si trasforma in aiuto reciproco e che crescerà negli anni fino a quando Salvatore sarà quasi adulto. E' un lungo flash-back quello attraverso il quale il film si dipana. All'inizio della narrazione infatti, il protagonista, ormai regista affermato, venuto a sapere della morte di Alfredo, ripercorre la propria infanzia e la propria adolescenza attraverso una sequenza di ricordi incentrati sul legame con quell'uomo che era stato per lui un sostanziale punto di riferimento. Alfredo aveva infatti intuito nel giovanissimo amico passioni e capacità, e lo aveva esortato a realizzarle andandosene dal paese anche a costo che s'interrompesse la contrastata relazione con Elena. Così la vicenda, oltre che un vivace contesto di vita paesana, ci restituisce la
storia di due intensissimi amori: quello per il cinema che si trasformerà per Salvatore in una scelta di vita, e quello per Elena, mai dimenticata e ormai
perduta, a proposito della quale non era stato secondario il ruolo di Alfredo nel
dare agli eventi una svolta decisiva.
Tornato in paese per il funerale, Salvatore rivede gli antichi compaesani ed entra in possesso di una pellicola conservata per lui dal vecchio amico. Meravigliosa e toccante la sequenza finale in cui la proietta, scoprendo che si tratta di tutti gli spezzoni di film che avevano suscitato la sua curiosità di bambino e all'epoca censurati perchè rappresentavano scene di baci considerate sconvenienti. E lo sguardo di Jacques Perrin che interpreta Salvatore ormai adulto, passa dalla curiosità alla sorpresa, dal ricordo all'emozione e infine alla gioia, mentre sfilano davanti ai suoi occhi progressivamente più attenti e partecipi i baci
più famosi e appassionati della storia del cinema che Alfredo aveva conservato e montato proprio per lui. Ed è come se, insieme a quelle immagini, ritornasse in possesso anche della propria storia, riannodandone fili e ritrovandovi comunque un senso. Ma parte della commozione che la vicenda suscita è data anche dalla mirabile colonna sonora affidata al grande Ennio Morricone e al figlio Andrea che ha realizzato in particolare il famosissimo "Tema d'amore" qui riportato. Come sempre in un film, le note completano ed esprimono ciò che parole e immagini, sia pure nella loro bellezza, non arrivano a dire. Così, il brano - oltre che nel finale - ricorre più volte nel corso della narrazione a sottolineare le sequenze più salienti della vicenda, accentuando il senso di struggente nostalgia da cui è pervasa. Una melodia che si anima di progressiva intensità e sembra entrare dolcemente in ogni piega dell'anima a suscitarne emozioni con una delicatezza che mette i brividi. Buona visione e buon ascolto!