"Gioire in Musica" è un piccolo spazio per condividere lo splendore della musica classica e le emozioni che essa suscita in noi; ma anche un luogo in cui raccontare quanto ogni musica nata dal profondo si intrecci alla nostra esistenza nutrendo il cuore e infondendoci vita, sorriso e limpidezza di sguardi.
Mi accade d'estate - quasi tutte le estati da un po' di tempo - e non c'entra questo caldo eccezionale. Ma più fuori il sole e la luce abbagliano, più ho bisogno di rifugiarmi a contemplare la penombra riposante di certi interni, la frescura di dipinti o nature morte che conciliano la quiete.
È senza dubbio fisiologico, per tanti aspetti, che si vada in cerca di un'alternanza tra sole e ombra e che, dopo essersi saziati di luce, si desideri il chiuso di un ambiente fresco e riposante. Ma non è un luogo qualsiasi quello che cerco. Più che monti, praterie e distese fiorite che pure amo, a volte ho bisogno di sostare nella penombra pomeridiana di certi ambienti dal fascino senza pari come quelli che ci regala la pittura del Seicento olandese. Penso alla frescura del blu lapislazzuli della cucina raffigurata da Vermeer nel dipinto "La lattaia", o alla tranquillità delle stanze di De Witte nel quadro intitolato "Interno con donna alla spinetta" che ho postato qui in passato. Ma ho in mente anche tante nature morte, nella varietà dei materiali e degli oggetti rappresentati.
Non so da dove nasca in me il fascino per un certo mondo pittorico. Forse ha radici lontane che risalgono a quando, da bambina, sfogliavo vecchi libri o enciclopedie di casa per guardarne le figure. Da piccoli, si è come spugne nell'assorbire tutto, e talora certe immagini sanno imprimersi nella mente e nel cuore segnando con la loro suggestione le passioni e i gusti futuri.
Così, oggi desidero condividere qui un dipinto dell'olandese Pieter De Hooch (1629 - 1684) intitolato "Cure materne" o - più prosaicamente - "Madre che spidocchia i capelli della sua bambina" e conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. E' all'interno della sua penombra riposante ma anche dei suoi angoli di luce serena che mi piace rifugiarmi, in cerca di un ambiente che mi comunichi un senso di quiete. La luce, appunto: De Hooch, contemporaneo di Vermeer e Rembrandt, conosce bene la loro lezione e ne fa tesoro in maniera del tutto originale con particolare sensibilità coloristica, modulando penombra e luminosità in modo realistico e dolce, soffuso e - a mio avviso - affascinante. E' la quiete del dipinto ad attrarmi: una stanza nella quale possiamo individuare due parti, l'una più chiusa e ombrosa dove s'intravvede il vano del letto, l'altra più spaziosa e aperta verso il resto della casa, illuminata da un bellissimo scorcio prospettico dove una fresca luce piove da una finestrella retrostante. Assoluto il silenzio che vi regna, sottolineato dalla compostezza della donna e della bambina, ma anche dal cagnetto fermo davanti alla porta aperta, in muta, tranquilla attesa. Una scena domestica come altre raffigurate dal pittore che ama ritrarre interni piccolo borghesi e, tuttavia, incentrata qui su di un tema decisamente popolaresco come tanta pittura del Seicento. Interessante la cura dei particolari che nulla lasciano alla genericità della rappresentazione. Una casa modesta, ma non
priva di arredi: dal quadro sopra la porta - dettaglio che ricorre anche
in altri dipinti dell'autore - ai cesti di vimini, dal velluto dei
tendaggi che chiudono il vano del letto ai cuscini bianchi in secondo
piano. Bellissimi i particolari del profilo e delle mani della
donna, come pure il rosso del corpetto insieme alle calde tonalità di
colore che caratterizzano tutto il quadro, a cominciare dal pavimento in
cotto. Delicatezza
e semplicità anche nei particolari come l'ampolla che si scorge dietro
il disegno di una vetrata, insieme alla tenda scura sopra un pezzo di
parete a piastrelle: piccole nature morte, vivissime in realtà
nell'atmosfera e nello splendore che accendono.
Ma straordinario, a mio avviso, è lo scorcio prospettico che ci apre la vista su di una stanza retrostante e - di lì - fuori da una finestrella: un angolo di serenità che ci conduce all'aria aperta, in un'atmosfera che ha la freschezza del mattino e al tempo stesso la luce dorata del pomeriggio. Alcuni alberelli di cui intravvediamo anche il fogliame sembrano sfumare sul piano di fondo, mentre la luce che si disegna pacata sul pavimento - e un po' più soffusa sulla porta - costruisce uno spazio di magica bellezza, di semplicità e di pace davanti al quale sostare in silenzio, proprio come il cagnetto.
Allora, mi piace commentare queste immagini con un dolcissimo brano di Ludwig van Beethoven. Si tratta del VI movimento " Adagio, quasi un poco andante" dal "Quartetto per archi in do diesis minore n.14 op.131", creazione famosa che appartiene all'ultima produzione del compositore e che, insieme ad altri brani, segna un'ulteriore evoluzione del suo genio musicale. Il pezzo che vi propongo, pur nella sua estrema brevità, è una pausa di pace tra due altri movimenti molto accesi e funge da introduzione al finale. Ci conduce infatti in una clima di pacata malinconia che si dissolve poi in un'apertura più serena nell'alternanza tra tonalità minore e maggiore. Una melodia struggente, ricca di luci ed ombre quasi come l'atmosfera del dipinto nella sua pacata bellezza.
Piove, finalmente: un temporale ha alleggerito l'afa che, in questa stagione rovente, mi ha raggiunto persino qui ad alta quota.
La prima sera di pioggia, dopo tanta calura, è una benedizione. Dalla cucina dove sto preparando la cena, guardo fuori le ultime case del paese fino alla fitta abetaia che si vela di grigio: un paesaggio improvvisamente autunnale che mi avvolge con la sua penombra piena di fascino. Nuvole chiare salgono dalla vallata, presto copriranno ogni pendio e, se apro la finestra, sento solo il suono dell'acqua e il silenzio.
Mi piace quest'atmosfera ovattata dove sembra che tutto si fermi: dopo giorni di sole caldissimo e luce abbacinante, questa sera di pioggia è lieve come una carezza e va riconciliandomi col presente. Mi muovo per casa piano, pacatamente, evitando rumori inutili, attenta a non spezzare l'incanto che mi coglie e mi pervade, mentre mi accorgo che poter vivere questo silenzio fino in fondo, senza essere portata altrove dai pensieri, è un dono. Ad assaporarlo infatti non basta la mente e talora neppure la forza delle emozioni: occorre che vi si aggiungano i sensi, quasi l'attimo presente fosse una linfa che scorre nelle nostre vene come il sangue. Ed immergersi in esso è rara magìa.
Così, mi piace prolungare questo incanto con una musica che della ricerca del presente mi pare faccia il proprio centro, il nucleo attorno a cui le note si avvolgono, la meta a cui tendono. Si tratta di "Yuzen", brano di Giovanni Allevi per pianoforte solo, tratto dal cd "Love" uscito all'inizio di quest'anno. Il titolo del pezzo ci conduce in Giappone, luogo cui il compositore ascolano è particolarmente legato non solo per esservisi recato più volte in tournée, ma anche perchè, proprio qui, ha preso spunto per diverse altre creazioni. In particolare, Allevi ha dichiarato di aver avuto ispirazione per questo pezzo mentre si trovava a Kanazawa, una delle città giapponesi famose per l'antica arte di pittura su seta chiamata appunto yuzen.
Il brano è un preludio totalmente arpeggiato, animato da forte tensione e al tempo stesso da una varietà di suoni che sembrano esprimere tutte le sfaccettature della passione. E a buon diritto è posto proprio in apertura di un cd dedicato all'amore. Si va dai toni più energici e animati a quelli più lievi, da passaggi che talora si accendono in ritmi decisamente rock, ad altri delicatissimi, ripetuti sulle ottave più alte - cosa peraltro non nuova nello stile del compositore - come se le note si facessero parole sussurrate all'orecchio. Gli arpeggi - dai suoni più bassi a quelli più acuti del Bosendorfer Imperial su cui è stato registrato il brano - sembrano declinare il tema in una ricerca incessante e tormentosa del nucleo caldo dell'ispirazione musicale, quasi essa fosse un'amante da possedere. Attorno a tale nucleo s'inanellano infatti le note, tese ad afferrare la magìa dell'attimo presente: ora rigorose ed energiche, ora tenere e fluide come acqua che scorre, a volte sferzanti, altrove nostalgiche, ricche di passaggi di più maestosa apertura ed altri che sfumano in pacata morbidezza. Luminosità e malinconia, impeto e delicatezza si avvicendano in questo brano, nel suo respiro ora ansioso, ora più calmo, ma sempre teso ad un abbraccio pieno con la musica. Un pezzo inconfondibilmente alleviano che - se nella sua struttura ricorda la matrice classica del compositore, in particolare il Bach del "Clavicembalo ben temperato" e non solo - nella sua anima profonda, tuttavia, risolve la forma tradizionale del preludio in chiave contemporanea, con inventiva e sensibilità legate all'oggi. Rigore e passionalità dunque, nell'incessante ricerca del cuore vivo della musica, fino a giungere al finale dove l'arcano si scioglie in dolcezza. E come sempre, sotto le dita di Allevi il Bosendorfer si fa orchestra. Buon ascolto!
Leggo sul "Corriere della Sera" di giovedì scorso che - nell'ambito della rassegna "Milano Arte Musica" - nella basilica di Santa Maria della Passione si è tenuto un concerto del famosissimo e prestigioso "Westminster Abbey Choir", coro di voci bianche dell'Abbazia di Westminster, antica istituzione musicale come del resto molte altre, a cominciare dal "King's College Choir" di Cambridgee dal "Thomanerchor" di Lipsia.
Non è la prima volta che il coro londinese - trenta ragazzi dai sei ai sedici anni circa, più dodici adulti - si esibisce nel capoluogo lombardo e penso che la possibilità di ascoltare una formazione musicale di tale eccellenza artistica sia stata per i milanesi una boccata di aria fresca in questa torrida estate. Mi hanno colpito
infatti - riportate nel breve articolo di presentazione di Enrico Parola
- le parole del direttore Martin Baker che afferma tra
l'altro:
"L'eccellenza di questo coro è data dal lavoro che svolge: ogni giorno, a parte il mercoledì, i coristi provano alle 8,10 e alle 16,30, prima e dopo la scuola, cantano la messa e i vespri. Per questo i tanti concerti e le tournée internazionali sono solamente la punta dell'iceberg della loro attività; la dimensione non è quella dello spettacolo, ma dell'educazione al bello e al servizio. Per questo, il sentimento che prevale nei ragazzi che lo compongono, non è di esaltazione, ma di familiarità e umiltà."
M'illumina un itinerario educativo che persegue valori come la bellezza, il servizio e l'umiltà, soprattutto in considerazione del fatto che, data la concretezza dell'impegno quotidiano richiesto ai giovanissimi coristi, non si tratta solo di parole. Penso a come debbano crescere interiormente robusti questi piccoli e al tempo stesso grandi artigiani del canto, in un'esperienza comune - del resto - a quanti in ogni parte del mondo si trovano a vivere, fin dalla giovane età, l'impegno e la straordinaria avventura di far parte di un coro. Ha infatti una portata educativa immensa la disciplina del canto corale perchè, consentendo ai piccoli di rivestire un ruolo preciso all'interno di un grande organismo al servizio degli altri, regala loro la consapevolezza luminosa di essere portatori di Bellezza, insieme a uno sguardo positivo su se stessi e sull'infinito mondo delle note. Certamente, ciò accade anche nell'ambito di un complesso o di un'orchestra giovanile, ma forse l'esperienza del canto si può rivelare ancora più coinvolgente in quanto mette in gioco il più semplice gesto vitale di ciascuno di noi: il fiato, il respiro, la voce.
Ascoltiamo allora i giovanissimi del "Westminster Abbey Choir" nell'esecuzione di un famoso brano di Georg Friedrich Haendel (1685 - 1759): "Zadok the Priest - Coronation Anthem n.1 HWV 258". Si tratta del primo dei quattro inni composti dall'autore per l'incoronazione di Giorgio II di Gran Bretagna nel 1727 e ancora oggi eseguito ad ogni incoronazione di sovrano britannico. Il testo, che rimaneggia alcuni versetti
biblici tratti dal I Libro dei Re, fa riferimento all'unzione di Salomone da parte del sacerdote Zadok. Dopo la parte introduttiva, un esplosivo crescendo corale ci apre alla grandiosità del pezzo: solenne e sontuoso nelle sue parti, perfettamente adatto ad una cerimonia come un'incoronazione che somma in sè aspetti religiosi, celebrativi e insieme teatrali. Brano conosciutissimo non solo per il suo splendore, ma anche perchè il suo tema - e guarda un po' dove troviamo la musica di Haendel! - è divenuto l'inno della UEFA Champions League.
Luglio: cerco rifugio dal caldo di questi giorni nel cuore della frescura montana, tra il verde di prati e abetaie che mitigano il tocco ardente del sole. Ma la temperatura, alta anche qui nelle ore centrali della giornata, non m'incoraggia alunghe passeggiate. La stanchezza che di tanto in tanto avverto m'induce infatti a camminare seguendo il ritmo calmo del respiro, soffermandomi senza fretta a osservare l'erba alta, i tornanti del sentiero in mezzo ai prati, scorci di panorama che ho visto tante volte, ma che vorrei mi apparissero nuovi perchè, in effetti, di volta in volta lo sono. In realtà - come spesso mi capita all'inizio di una vacanza - faccio un po' fatica a sentirmi dentro a questo panorama che pure amo. Mi occorrono alcuni giorni non solo per abituare il fisico all'altitudine, ma per acclimatare anche lo spirito, allontanando ogni tensione dell'anno trascorso e lasciando che il silenzio del paesaggio in cui mi muovo si faccia spazio anche in me, riesca a sorprendermi ancora.
Non seguo un itinerario prestabilito, ma lascio che la mia attenzione sia catturata di volta in volta da ciò che vedo, senza fretta: ho bisogno di recuperare calma, di affinare i sensi senza che i pensieri mi portino via dal presente, come spesso accade. Così, ogni tanto mi piace sostare in qualche angolo particolarmente attraente. Talora, a catturarmi è la rustica semplicità di una baita piena di fiori, altre volte il profumo di sfalcio così diffuso in questo periodo in cui qui è ancora tempo di fienagione. Ma sempre, ad attirare il mio sguardo è l'incanto dei ghiacciai nel loro diverso riflettere la luce col passare delle ore, mentre il suono del torrente mi accompagna ora più vicino e impetuoso, ora più lontano e sommesso. Ho bisogno di lentezza, di permettere che i ritmi del corpo e dello spirito tornino a coincidere e ad armonizzarsi. Del resto, penso che una vacanza debba servire proprio a questo. E, come sempre, a creare le condizioni di tale armonia contribuisce anche la musica che - mi è già capitato di osservarlo - non spezza il silenzio, ma lo favorisce e lo prepara. Allora, oggi desidero condividere con voi un brano che ha proprio il carattere di questa pacificante lentezza e che ho trovato durante una delle mie non infrequenti scorribande su youtube. E' qui che mi sono imbattuta in un compositore che - lo confesso - non avevo mai sentito nominare: Reynaldo Hahn (1874 - 1947). Si tratta di un musicista di origine venezuelana ma naturalizzato francese, famoso per aver composto l'aria di svariate canzoni talora su testi di poeti impressionisti ma non solo, e poi opere, operette, balletti, musica da camera e alcune colonne sonore. Quello che lo ha reso più famoso però è il repertorio delle canzoni - da "Chanson d'automne" sui versi di Paul Verlaine a "La biondina in gondoleta" in precedenza arrangiata, tra l'altro, anche da Beethoven - e, tra queste, il brano in assoluto più eseguito è "A Chloris".
Si tratta di un'intensa romanza nella quale Hahn ha musicato un testo del Seicento, ma la data di composizione del brano - 1913 - mi aveva indotto ad immaginare un'atmosfera segnata dalle suggestioni musicali del primo Novecento. E' stata quindi per me una sorpresa scoprire invece una melodia dal fascino antico e talora un po' malinconico, quasi un adagio barocco. Infatti, ho poi constatato che del pezzo, oltre a quelle vocali, esistono svariate versioni solo strumentali - per pianoforte e violino solista, per quintetto di fiati e via dicendo - che esaltano proprio quest'aura riecheggiando il passato. Così, tra le altre, ho scelto l'arrangiamento per corno inglese che mi è parso particolarmente efficace nel sottolineare l'attitudine contemplativa, il carattere di cantabilità del pezzo e il ritmo, elementi che donano alla composizione un sapore quasi bachiano. Del resto, proprio il ritmo, lento e pacatamente scandito sia nella ripetizione delle frasi musicali introduttive, sia nell'esposizione del tema della melodia, mi pare possa ricordare la famosissima "Aria" di Bach dalla "Suite orchestrale n.3 in Re maggiore BWV 1068" e accompagnarci sui sentieri di un riposante paesaggio interiore. Buon ascolto!