Succede a tanti che un brano di musica, qualunque esso sia, resti impresso nella mente e nel cuore insieme alle particolari circostanze in cui lo si è sentito per la prima volta. Anzi, forse proprio per quelle circostanze, tanto che da esse poi non può più essere disgiunto.
Per me almeno è così e potrei portare svariati esempi.
Dal Larghetto della Sinfonia classica di Prokofiev che mi riconduce agli anni di università, alle note introduttive del Messiah di Haendel che mi ricordano una sera d'inverno a Venezia, ogni volta i vari brani mi restituiscono tempo, luogo e atmosfera del primo momento in cui li ho sentiti. E l'elenco potrebbe continuare.
Ma c'è un pezzo su cui non mi sono mai soffermata prima d'ora e che mi è entrato irrimediabilmente nel cuore in un pomeriggio di pioggia, mentre ero in casa di amici, una bella manciata di anni fa. E mi piace rievocarlo adesso.
Era settembre anche allora e il mese si era annuziato piovoso, con quel grigiore che spazza via d'un tratto l'atmosfera delle vacanze proiettandoti nel clima autunnale. La scuola era iniziata da poco e tornavo a metà pomeriggio da una riunione finita più presto del solito. Mancava ancora tempo al mio treno ed ero passata a trovare un'amica per concerdermi un'oretta di gioiosa distensione. Lei però non c'era e i suoi mi avevano invitato in casa ad aspettarla. Così, ero rimasta lì in un'atmosfera di famiglia e in un calore invitante, facendo la spola tra la cucina dove la nonna stava infornando una torta e il soggiorno dove il bimbo della mia amica giocava.
Ma in sottofondo, dal bellissimo impianto stereo della stanza veniva una musica, una melodia che non mi pareva di conoscere e che ben presto mi aveva catturato al punto da assorbire tutta la mia attenzione.
Le persone mi parlavano, il piccolo continuava a giocherellare sul divano, fuori pioveva a dirotto, ma io non avevo orecchi che per quelle note che mi stavano letteralmente portando via.
Una ridda di sensazioni mi aveva investito con tale intensità quasi la mia anima avesse trovato lì un universo nuovo cui aderire. E la musica mi era rimasta impressa insieme alla pioggia torrenziale che vedevo
dalla grande finestra del soggiorno, come se esistesse un legame segreto tra quelle note e l'acqua che veniva giù fitta annunciando una stagione nuova.
Avevo ventisei anni ed ero vissuta fino a quel momento a pane e Swingle Singers, fughe di Bach e arie di Haendel. Poi certo anche Mozart, poi Beethoven, Chopin e altri romantici, ma la mia passione restava ancorata alla musica barocca. Vi trovavo infatti altezze vertiginose che mi proiettavano nell'infinito di cattedrali gotiche, tra vetrate multicolori e volte ogivali.
Ora invece, all'improvviso, mi si spalancava davanti un infinito diverso, vasto e sconfinato come un mare, come un oceano percorso da onde inquiete, profondità misteriose insieme a scintillante, maestoso splendore.
Un universo nuovo, almeno per me, che mi stava catturando con la dirompente immediatezza di un colpo di fulmine e la forza di quelle realtà che, aprendoci a dimensioni sconosciute, svelano anche noi a noi stessi.
Del resto, proprio questo è il potere dell'arte in ogni sua forma.
Quella musica era la stupenda "Ouverture" del "Tannhäuser" di Richard Wagner (1813 - 1883) che forse in passato avevo anche distrattamente sentito, ma che in quel pomeriggio di pioggia, per la prima volta, stavo scoprendo e ascoltando davvero.
Il brano presenta subito i due filoni portanti dell'opera che oppongono amor sacro e amor profano, la dimensione spirituale e quella sensuale dell'amore nel segno di un'esigenza sempre più forte di redenzione dal peccato. E vi si possono individuare due temi ben distinti.
Il primo si apre subito anticipando l'aria del celebre Coro dei pellegrini dell'inizio del terzo atto. È un esordio fatto di pacati e misuratissimi accordi che mi hanno sempre lasciato una percezione di profonda quiete. La melodia, annunciata piano dai fiati, va poi facendosi gradatamente più intensa in un
movimento ascensionale segnato dai salti di ottava prima dei
violoncelli e poi dei violini e intervallato da ombrosi e struggenti passaggi in minore.
Infine, va a coinvolgere tutte le sezioni dell'orchestra culminando in sonorità maestose e solenni.
Il secondo tema, che ci presenta invece l'irrefrenabile impulso con cui il menestrello Tannhäuser si abbandonerà alle seduzioni della dea Venere, è molto più acceso sia sul piano della melodia che del ritmo. Ancor più del precedente, vede il trionfo dell'orchestra in un crescendo ora di tono marziale, ora in una vivacità scomposta che va poi a spegnersi lasciando di nuovo spazio al motivo ricorrente del Coro dei pellegrini.
Qui - a partire da 9.52 dall'inizio - mi colpiscono i passaggi in cui la musica, come una tempesta che raggiunge il suo acme e poi diminuisce d'intensità, in una successione di note discendenti sembra imitare il soffio del vento che cade, un soffio che ritroviamo poi alla base del tema iniziale e quasi intrecciato ad esso.
È dunque un procedere dalla calma alla vivacità, per giungere al limite del parossismo e poi tornare a sonorità più pacate attraverso una ricchezza di sviluppi melodici e timbri orchestrali per certi versi debitrice del passato, ma per altri nuova.
Da un lato infatti, ascoltando il brano proprio in questo passaggio discendente, mi viene spontaneo pensare che qui Wagner abbia fatto riferimento a Beethoven per il quale aveva sempre nutrito profonda ammirazione, riprendendo il soffio del vento nel temporale della Sinfonia Pastorale e rielaborandolo alla luce della propria sensibilità.
Così pure, mi sembra di leggere un'eredità beethoveniana anche nei punti più accesi del brano, che possono ricordare alcuni passaggi del movimento finale della Settima Sinfonia che Wagner conosceva e apprezzava.
Dall'altro tuttavia, se consideriamo che la prima versione del Tannhäuser è stata terminata nel 1845 - quindi solo diciotto anni dopo la morte del rivoluzionario musicista di Bonn - ciò significa che nel giro di poco tempo ci troviamo già di fronte a ulteriori passi avanti e a un linguaggio innovativo. L'orchestra wagneriana infatti non è più soltanto sostegno dello strumento solista, ma pilastro portante dell'intera composizione, capace di esprimerne tutta la potenza attraverso l'ampliamento dell'organico con particolare riguardo agli ottoni, l'adozione di uno stile polifonico e l'uso di motivi conduttori.
Elementi che possiamo apprezzare in questo brano che qui trovate eseguito sotto la sapiente direzione di Claudio Abbado.
Buon ascolto!
(La foto è presa dal web)