sabato 30 novembre 2019

Esercizi???...

(Foto presa dal web)
Chi ha confidenza con lo studio del pianoforte, oltre ai brani più semplici di tanti musicisti del passato attraverso i quali, all'inizio, ci si familiarizza col mondo delle note, ricorderà senza dubbio anche altri testi e altri autori.
Non solo "Il mio primo Bach" - o  Mozart, Beethoven, Schumann, Chopin e via dicendo - ma anche manuali di didattica della musica, variati secondo il livello e finalizzati all'apprendimento della tecnica pianistica: dai primi approcci alle scale, ad esercizi per migliorare l'agilità e la velocità delle dita, fino a quelli per un vero e proprio pianista virtuoso. 
Come dimenticare, a questo proposito, il Pozzoli, il Bayer, il Duvernoy, l'Hanon o lo Czerny? Certo, oggi esistono anche altre raccolte ma questi nomi - spesso più croce che delizia di tanti studenti di musica! - dovrebbero suonare comunque familiari. Gli esercizi che essi riportano - come scrivevo - sono di difficoltà sempre crescente: non solo indirizzati ai principianti, ma anche a pianisti fatti e finiti che, per mantenersi a livelli di eccellenza, non dovranno mai abbandonarli un po' come atleti in costante allenamento.

A dire il vero, certi grandi interpreti talora hanno dichiarato di usare per il proprio studio quotidiano anche altri pezzi e in particolare quelli bachiani: le "Suites francesi" - per esempio - o quel monumento di bellezza costituito dal "Clavicembalo ben temperato". E in effetti quest'ultimo è stato scritto dal compositore "per utilità e uso dei giovani musicisti desiderosi di apprendere, ed anche a ricreazione di coloro che sono già provetti in questo studio".  
È una dedica che mi ha sempre colpito perchè, se da un lato mi parla dell'umiltà di Bach - credeva forse di aver fatto un semplice manuale didattico e non un capolavoro? - dall'altro vede la musica come ambito di ricreazione in cui, da un certo livello in avanti, superate le difficoltà tecniche, suonare diventi solo un momento di gioia.
A parte tali splendide eccezioni però, quando si parla di esercizi, generalmente per i comuni mortali il pensiero va subito a qualcosa di nioioso e monotono. 
Il termine infatti induce a pensare a passaggi musicali ripetitivi, privi di una melodia o comunque di un tema che li renda piacevoli.

Per questo mi sono meravigliata quando - navigando qua e là su youtube - ho ascoltato quelli tratti da un manuale dell'austriaco Carl Czerny (1791 - 1857) intitolato "L'arte di rendere agili le dita. 50 studi brillanti per pianoforte op.740".
È stato l'aggettivo brillanti a colpirmi, non solo perchè mi ha dato l'idea della loro vivacità, ma perchè mi ha fatto pensare subito ad un testo che dell'esercizio vero e proprio non avesse in realtà le caratteristiche, ma somigliasse in tutto e per tutto a una composizione con una sua precisa struttura.
Ed è proprio così. Proviamo ad ascoltare quello che ho scelto: l' "Allegro agitato in sol minore n.50", l'ultimo della raccolta e probabilmente il più impegnativo. Non sapessimo di chi è, potremmo scambiarlo per uno degli Studi più accesi di Chopin o forse anche di Liszt: insomma una pagina romantica e tempestosa. In effetti Czerny è stato anche compositore, ma probabilmente la grande fama ottenuta come didatta ha un po' oscurato il resto della sua produzione.
Come potete vedere dallo spartito, il brano non è difficile...è difficilissimo!!! 
Le quartine di sedicesimi hanno lo scopo di sciogliere la mano destra, conferendole la maggiore agilità possibile quasi potesse volare sulla tastiera, ma insieme gli accordi netti e scanditi della sinistra mirano a far acquisire precisione nel rispetto del tempo giusto, in questo caso 4/4. 
E la notevole velocità con cui si dipanano le note ci dice che, per suonare questo pezzo, occorre una bravura non comune. 
Plauso e lode quindi a Czerny e al suo esecutore!

Buon ascolto!

venerdì 22 novembre 2019

"From Harmony..."

Orazio Gentileschi (1563 - 1639): "Suonatrice di liuto" (part.)
È con la gioiosa eleganza di un brano di Georg Friederich Haendel (1685 - 1759) che mi propongo di ricordare oggi Santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti.
"Ode per il giorno di Santa Cecilia HWV 76" è infatti la cantata scritta nel 1739 dal compositore e suddivisa - tra arie per voce solista e pezzi per coro - in dodici movimenti di cui vi riporto il terzo intitolato "From Harmony".
Qui, prendendo spunto da un poema dello scrittore inglese John Dryden, si afferma che è stata l'armonia celeste a dare inizio all'universo, tutto percorso da note che hanno poi raggiunto l'uomo. Il testo non è quindi incentrato in particolare sulla vita della Santa, ma è una lode alla potenza della musica quale principio ordinatore del cosmo. 
Esso recita infatti:
"Dall'armonia, dall'armonia celeste ha avuto inizio l'ordine universale. 
Di armonia in armonia, il suono ha corso attraverso tutto lo spettro delle note raccogliendosi infine nell'uomo."

È affascinante l'idea che ciò che muove la creazione sia, in realtà, musica e - a ben guardare - l'ipotesi di un'originaria vibrazione creatrice, come non è estranea ad alcune antiche civiltà, non è neppure così lontana dai più recenti studi di fisica quantistica.
Da Pitagora con la teoria della musica delle sfere, fino ad altri filosofi e letterati del mondo greco, latino e mediovale - basti citare Platone, Cicerone e Dante - si riteneva infatti che i corpi celesti nel loro movimento producessero un suono non percepibile dall'uomo, ma rappresentabile da rapporti armonici e matematici. 
In Dante in particolare, parecchi sono i passi della "Divina Commedia" in proposito, ma senza addentrarmi nelle numerose citazioni in cui si parla di armonia soprattutto nel Paradiso, mi basta ricordare due espressioni con cui il poeta, nell'Inferno, descrive invece la mancanza di luce: "là dove il sol si tace" (Inf. Canto I v.60) e "loco d'ogni luce muto" (Inf. Canto V, v.28).
Usa infatti un linguaggio efficacissimo nel significare - per negazione e attraverso la sinestesia - che i corpi celesti producono un suono, che la luce è vibrazione musicale e, se essa scompare, non solo si fa buio, ma tutto precipita in uno sconfortante silenzio.

Intorno alla musica delle sfere sono fioriti parecchi studi per tutto il periodo in cui la cosmologia si basava sul sistema geocentrico, ma anche dopo la rivoluzione copernicana, si continuerà a parlare di armonie planetarie. 
E oggi, le più recenti teorie fisiche che descrivono il comportamento delle particelle elementari, usano modelli basati talora su di una nozione di armonia che può essere ricondotta ad alcune intuizioni dei pitagorici e di Platone.
Se quindi l'universo è nato da una vibrazione che percorre i vari oggetti, potremmo davvero affermare che "l' Amor che move il sole e l'altre stelle" è musica che ci attraversa in continuazione, simile a una potente onda di energia, ieri come oggi.
Del resto, anche il Prologo del Vangelo di San Giovanni si apre dicendo: "In principio era il Verbo". E la Parola non è forse anche suono?

Abbandoniamoci allora al fascino e alla forza di questo brano di Haendel che crea un variopinto e luminoso universo di note: ora solenni, maestose e strutturate su grandi accordi, ora ricche della leggerezza melodica di scale ascendenti e discendenti, ma sempre intrise di profondissima gioia.
Ed è bello considerare che anche noi siamo frutto di questa armonia che dall'Alto ci ha pensato, e continua a risuonare nel tempo attraverso la nostra esistenza!

Buon ascolto!

sabato 16 novembre 2019

Un violino per Venezia

Ippolito Caffi (1809- 1866) : "Neve e nebbia sul Canal Grande"
Da dove ha origine l'ispirazione di un compositore?
In quale luogo segreto trova nutrimento la scintilla che egli avverte in sè e da quali recondite lontananze scaturiscono le sue note?
Non è sempre facile rispondere a queste domande perchè ogni autentica ispirazione nasce libera, e ogni musicista ha un suo originalissimo mondo da cui prendere spunto sia dentro che fuori dal proprio cuore.

Le note possono affiorare dal profondo talora quasi senza motivo, da un nodo di sensazioni inespresse che - misteriosamente - trova nei suoni il varco privilegiato per sciogliersi e venire alla luce; ma capita spesso che tante composizioni siano sollecitate da un fattore esterno. 
Può essere una persona, un evento, un dipinto, una storia a suscitare passioni o stati d'animo che poi si tradurranno in melodie sulla scorta della sensibilità di ciascun autore. Così pure, spesso sono i molteplici aspetti della natura a ispirare i musicisti e ne abbiamo numerosissimi esempi: dalla "Sinfonia Pastorale" di Beethoven alle "Scene del bosco" ("Waldszenen op.82") di Schumann, dalla "Moldava" di Smetana fino a composizioni quali "La Mer" o "Clair de Lune" di Debussy e molto altro ancora.

Ci pensavo proprio in questi giorni ascoltando Vivaldi - e come dimenticare a questo proposito le sue mirabili Quattro stagioni? - ma insieme vedendo le immagini dell'immane disastro provocato dall'acqua alta a Venezia. 
E mi chiedevo se - oltre al fascino che avrà certo esercitato sul compositore lo splendore fastoso di questa città - a creare l'intensa suggestione di alcuni suoi brani non siano stati proprio certi aspetti che di essa mettono in luce un disfarsi quotidiano a ogni frangersi d'onda. 
Non la Venezia leggiadra ed elegante dove i ponti si specchiano nei canali e la pietra dei palazzi sembra fiorire e farsi ricamo, ma quegli angoli sfatti dove l'umidità corrode le fondamenta su cui essa si regge e la laguna nel suo ondeggiare sottolinea la precarietà di un connubio - suggestivo e insieme sconvolgente - tra città e acqua. Una Venezia meno luminosa certo, ma ugualmente ricca di fascino, della quale - tempo fa - avevo già parlato in un post che vi ripropongo qui.
Ecco, mi sono chiesta se non sia stato anche l'abitare questa dimensione di precarietà a dare origine in Vivaldi a certi brani lenti dal fascino intimo e venato di malinconia, dall'atmosfera nebbiosa, dal canto sottile e struggente. 
Ascoltando le sue note, infatti, mi pare davvero che i contrasti che fanno della città un miracolo a fior d'acqua - e come scrivevo anni fa - in precario equilibrio tra cielo e abisso, abbiano avuto una parte significativa nell'ispirare il compositore a tradurre in musica l'intreccio tra eternità della bellezza e segreta consunzione del tempo.

Anche nel pezzo vivaldiano che vi propongo oggi - il secondo tempo, "Largo",  dal "Concerto n.1 per violino in sol minore RV 317" - si avverte un respiro crepuscolare che sembra farci cogliere tale consunzione e accompagnarci attraverso un'atmosfera simile a quella creata da Ippolito Caffi nel dipinto che vedete in alto. È un paesaggio cui la neve non conferisce luce o allegria, ma dove un cielo fosco si addensa sul Canal Grande, mentre dalla laguna, a renderne i tratti più indefiniti, avanza la nebbia: un' immagine per certi aspetti evanescente, che coglie il particolare clima di una città sempre bellissima.

E oggi che questa bellezza è così profondamente ferita, è il violino solista di Leonid Kogan che desidero dedicare a Venezia. 
Il suo canto, infatti, interpreta mirabilmente quello del "Largo" di Vivaldi, ora dolente e nostalgico, ora più dolce e aperto a sprazzi di sereno: note intrise di sconforto, ma anche simili a luci di speranza, per la città e per tutti noi chiamati ad essere custodi di tanto splendore.

Buon ascolto!

venerdì 8 novembre 2019

"Departures"

(Foto presa dal web)
Hanno ridato in tv sere fa - se non ricordo male proprio il 2 novembre - il film "Departures", pellicola giapponese del 2008 per la regia di Yōjirō Takita. 
È una storia che si snoda pacatamente, con rara delicatezza e profondità, nonostante il tema possa risultare crudo.

Protagonista è Daigo, giovane violoncellista che, perduto il lavoro per lo scioglimento dell'orchestra in cui suona, trova una buona offerta presso quella che, inizialmente per un errore nell'inserzione, scambia per un'agenzia di viaggi. 
In realtà, il viaggio cui si allude è la morte: l'agenzia si occupa infatti della vestizione e della preparazione dei cadaveri, cerimonia che si svolge alla presenza di tutta la famiglia del defunto, come una sorta di rituale religioso. 
In un clima di silenziosa solennità, con gesti lenti, delicati e quasi carezzevoli, il morto viene lavato, vestito, il suo viso acconciato per cercare di ripristinarne la perduta bellezza, e in seguito i familiari potranno dargli l'estremo saluto.

Daigo, che ha accettato questo lavoro solo per motivi economici, fatica in un primo tempo ad abituarvisi, ma è l'anziano proprietario dell'agenzia che, se da un lato comprende le sue esitazioni, dall'altro lo incoraggia perché sembra intuire che - in realtà - il giovane è adatto per svolgere quel servizio. 
E infatti, col tempo, acquisterà con esso familiarità sempre maggiore arrivando a comprenderne anche il profondo valore umano.

Un tema coraggioso quello affrontato in questo film, e una sceneggiatura che mette in luce alcuni aspetti conosciuti della società giapponese che, tuttavia, data la delicatezza con cui sono trattati, non scadono mai al livello di luoghi comuni. 
Dalla rigida severità della famiglia che redarguisce aspramente i due cerimonieri funebri per soli cinque minuti di ritardo, al rispetto deferente con cui la stessa famiglia, dopo aver visto con quale cura essi hanno preparato il corpo del loro congiunto, chiede scusa del rimprovero iniziale. 
Dal pregiudizio di alcuni verso tale lavoro - pregiudizio del quale lo stesso protagonista, in un primo tempo, è vittima e che allontanerà da lui persino la moglie - alla successiva comprensione da parte di tutti dello spessore umano che tale servizio comporta.
Una riconciliazione quindi, tra le persone e con la realtà della perdita di chi amiamo, che ha il suo culmine quando Daigo, informato della morte del padre andato via di casa quando lui era ancora bambino, dopo il rifiuto iniziale accetterà di prepararne il corpo in prima persona.
Un racconto che la regìa rende sobrio come sobria è nel mondo giapponese la manifestazione dei propri sentimenti, e anche se il tema è impegnativo, non ne deriva una narrazione pesante. 
La sceneggiatura, infatti, oltre a sequenze che rendono il senso di un'acuta introspezione, ha qua e là tocchi di lieve umorismo insieme a uno sguardo capace di trattare con accenti di poesia un argomento che - al contrario di quello giapponese - il mondo occidentale talora preferisce nascondere.

Così, proprio in sintonia con la delicatezza con cui si parla qui della morte, mi piace pubblicare un brano tratto dal "Requiem in re minore op.48" di Gabriel Fauré (1845 - 1924), forse scritto dal compositore in memoria dei genitori.
È il "Pie Jesu", pezzo soavissimo affidato alla voce solista del soprano e caratterizzato da un lirismo sommesso e intimo al punto da essere stato definito una "ninna nanna". Non evoca infatti un transito doloroso, ma il senso di un riposo senza fine.
La melodia, pur snodandosi con accenti talora malinconici, non è priva di passaggi di luminosa e incomparabile dolcezza e va a concludersi in tonalità maggiore così com'era iniziata.
Molto intenso e altrettanto famoso - sempre dallo stesso "Requiem" - anche il brano intitolato "In Paradisum" che avevo scelto in un primo momento. 
Poi però ho notato che nel "Pie Jesu" alcune armonie sembrano ricordare quelle della scala pentatonica usata spesso nella musica cinese e giapponese, così mi è parso più adatto al contesto in cui è ambientato il film.

Buon ascolto!