FRAGOROSO SILENZIO
mercoledì 28 novembre 2012
Cara dignità quanto vogliono distruggerti...e se è lo Stato a farlo chi lo condanna?
Leggo e pubblico...è il caso di leggere attentamente e riflettere...
Quando si impara dai giovani ...
Da:http://www.unicommon.org/
Si parte e si torna insieme - Racconti
dal carcere
TUESDAY, 27 NOVEMBER 2012 18:56 NATASCIA GRBIC
Ci ho messo un po’ a
decidere di buttare giù queste righe. Ripercorrere con la mente certi momenti
non è facile, soprattutto se sei stato vittima di quello che uno a volte anche
astrattamente chiama “repressione dello Stato”. Mi sono detta però, che certe
cose non devono passare sotto silenzio anzi, bisogna urlarle al mondo intero.
Questo è per tutti quelli che il 14 novembre sono scesi in piazza e non hanno
avuto paura. È per tutti quelli che l’hanno avuta.
È per tutti quelli che
l’hanno ancora, ma sono determinati a sconfiggerla e riprendersi le strade. È
per tutte le detenute e i detenuti, che oltre a essere privati della libertà,
“vivono” in condizioni pessime e degradanti, ma mi hanno mostrato cos’è la
solidarietà. È per la mia famiglia che non ha mai smesso di sostenermi. È per i
miei compagni e le mie compagne che in quel momento ho sentito ancora più vicino.
È solo grazie a voi che non sono crollata.
Sono una degli
arrestati del 14 novembre. Sono tra quelli che quel giorno sono scesi in piazza
insieme a tutta l’Europa per dire che non ci stanno al ricatto dei mercati e
della finanza. Sono tra quelli cui è stato impedito nella maniera più brutale
di manifestare il proprio dissenso sotto i palazzi del potere. Sono tra quelli
che sono stati picchiati, umiliati e trattati come bestie su quella maledetta
camionetta.
Questo racconto non
vuole spaventare, ma dare forza a tutti gli studenti, i precari, i disoccupati,
i lavoratori e i pensionati determinati a tornare in piazza per riprendersi il
proprio futuro. Vuole far capire che, anche se ci proveranno in tutti i modi,
non si è mai soli, specialmente quando si hanno dei compagni. Perché non
esistono sbarre o manganelli che possano fermare un’intera Europa che si
ribella.
Sul 14 novembre è già
stato detto e scritto tanto quindi, per evitare di essere petulante (nonostante
sia una delle mie caratteristiche principali), mi soffermerò più che altro
sulla piccola vacanza in carcere gentilmente concessami dallo Stato italiano.
Dopo i primi convenevoli della celere sul Lungotevere (calci sui reni, sulla
faccia, e le immancabili manganellate sulla testa le quali, anche se vietate
dalla legge perché banalmente potrebbero ucciderti, le forze dell’ordine
proprio non riescono a fartele mancare), siamo stati trasportati sulla
camionetta. Lì, ovviamente, i poliziotti hanno fatto gli onori di casa: e giù a
calci nelle palle, insulti, minacce di morte e vessazioni di ogni tipo. Persone
con la testa aperta, mani rotte e il sangue che scivolava copioso sono state
costrette a sedersi per terra, senza potersi reggere, sbattendo così il proprio
corpo già martoriato sui lati del camioncino. Siccome però le forze dell’ordine
non sono bestie ma esseri umani, sei ore dopo averci portato in questura hanno
chiamato un’ambulanza. “Alla buon’ora”, avremmo voluto dire. Abbiamo però
evitato, sia per non urtare la loro sensibilità, sia perché la bava che avevano
alla bocca faceva un po’ schifo e non volevamo esserne investiti in caso si
fossero rimessi a urlare. Dopo dieci ore e manco un cracker nello stomaco,
arriva il verdetto: carcere. Paura, panico, ansia e terrore iniziano a
trasudare dal corpo per quell’unico pensiero: “E mo chi da’ da mangiare al
gatto?”. Il poliziotto, che notavo avere un certo piacere nel comunicarmi la
notizia, pregustandosi già una scenata isterica secondo lui tipicamente
femminile, ha avuto un immediato calo della mascella nell’assistere alla
telefonata tra me e mia madre in cui la istruivo sulle quantità di cibo da dare
al felino. Colpo di chioma e testa alta, me ne torno dagli altri fermati
insieme a me, comunicandogli la notizia. Quando passi dieci ore in stato di
fermo insieme ad altre persone, solo perché avete un’idea di società diversa da
quella che ti vogliono imporre, non puoi sentirti solo. L’affetto, la
complicità e il sostegno che si hanno quando si condividono gli stessi ideali
sono una cosa che non si può capire quando passi la tua vita a eseguire degli
ordini. La forza che si tira fuori in certi momenti non deriva solo da te, ma
anche da quelle mani che hai stretto durante i cortei, da quegli occhi che hai
visto tutti i giorni nei percorsi che crei all’università, dai sorrisi stanchi
ma felici che ti rivolgi alle tre di notte quando hai occupato la facoltà.
Arrivata in carcere,
sono privata di ogni cosa che potrebbe aiutarmi al suicidio: elastico dei
pantaloni, lacci delle scarpe (“scusi, così mi stanno larghe, casco ogni tre
passi” – “questioni di sicurezza” – “ma ho le lenzuola in cella, posso
impiccarmi anche con quelle” – “eeeeehhhhhh”), reggiseno (“scusi come ci si
ammazza col reggiseno?” “eeeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhh”), piercing (“io questi non
li levo, non l’ho mai fatto, non so’ capace” -“fa come te pare” – “allora tengo
anche quest’altri” – “no, se ci riesci, li devi levare” – “ma perché?” –
“eeeeeeehhhhhh”), accendino (“si può avere solo quello con la rotella, no con
lo scatto” – “perché, che cambia?” – “che quello lo compri qui” – “ah ecco”).
Rimango in magliettina, in un clima paragonabile solo a quello dell’Alaska, e
chiedo una felpa: “Adesso non si può”. Sfidando le intemperie quindi, mi
avventuro nel reparto dell’isolamento cui sono stata destinata e lì scopro
l’amara verità: ho la finestra della cella mezza aperta. Mai ‘na gioia davvero.
Nessuno mi dice come chiuderla e, avendo io la praticità e la razionalità di un
bradipo monco, mi costringo a dormire.
Le celle vengono
aperte alle otto del mattino e richiuse la sera alle venti. “Rebibbia è un
carcere aperto”, dicono. Infatti, si poteva liberamente camminare avanti e
indietro in un corridoio lungo dieci metri dove il massimo del divertimento era
guardare la simpatica porta blindata che si apriva e chiudeva ogni tanto.
Arriva la detenuta che porta le colazioni. Le chiedo quanto la pagano, lei
schifata dice: “Ottanta euro al mese, per lavorare tutti i giorni dodici ore.
Domani però vogliamo scioperare, non è possibile che qui ci sfruttino in questo
modo e fuori non si sa nulla”. Si potrebbe obiettare che in carcere c’è vitto e
alloggio pagato dallo Stato, ma non è proprio così: qualunque cosa, anche
quella più stupida che parenti e amici potrebbero mandarti da fuori, deve
essere comprata all’interno della struttura. Con un sovrapprezzo chiaramente.
Quindi, o hai alle spalle una famiglia che mensilmente versa dei soldi sulla
tua “Jail – Card”, oppure te la prendi allegramente in saccoccia e ti adatti a
una vita che, oltre a essere già dura di per sé, diventa ancora più degradante.
Decido di farmi una
doccia. Acqua calda neanche a parlarne. Ai piani superiori riescono a scaldarla
nei pentoloni, ma all’isolamento non l’abbiamo, quindi dobbiamo adattarci. Poco
male, alle brutte mi prenderà una polmonite. Cerco il phon per i capelli. Aria
fredda. Polmonite assicurata. Chiedo un cambio alle guardie carcerarie perché,
essendo vestita da due giorni allo stesso modo e avendo anche dormito con
quella roba, oltre alla mia vita anche le mie condizioni igieniche iniziano a
diventare abbastanza precarie. Mi spiegano che il loro guardaroba è molto
disorganizzato e quindi non possono darmi nulla. Chiedo allora di poter
chiamare mia madre, così da farmi avere dei cambi. Non ne ho diritto. Chiedo a
loro di chiamarla. Non possono. “Quindi rimango così?”, chiedo iniziandomi ad
alterare. “Signorina guardi che non è mica in villeggiatura”. Gli spiego che i
detenuti non sono delle bestie e che hanno dei diritti, vengo immediatamente
bollata come “scocciatrice” e rispedita nella mia sezione. Dopo aver smosso
almeno tre piani e stalkerato diversi secondini, riesco a rimediare una felpa e
due mutande.
All’isolamento siamo
in cinque. A un certo punto sentiamo sbattere da dentro una cella e andiamo a
vedere: c’è una ragazza messa in punizione. Non può uscire da lì per dieci
giorni. Chiusa 24 ore su 24. Inorridiamo a questa scoperta. Già noi ci sentiamo
come animali in gabbia, chiuse in un corridoio, figuriamoci se si è costretti
per dieci giorni, senza uscire, in una cella di due metri per uno. La guardia
ci intima di allontanarci, non possiamo parlarle, altrimenti ci viene fatto
rapporto e ci vengono dati quarantacinque giorni di carcere in più.
Chiaramente, appena si gira, andiamo dalla ragazza, le portiamo l’acqua, il
caffè, le allunghiamo una sigaretta. Se c’è una cosa che t’insegna il carcere,
è questa: lì dentro non ci si lascia sole. Non importa quello che hai fatto al
di fuori: lì, ci si aiuta l’un l’altra nei momenti di sconforto, di paura e di
solitudine. La galera ti taglia fuori dal mondo, i contatti con l’esterno per
molti sono nulli e rischi d’impazzire. Non c’è ordine dall’alto che tenga
quando c’è in gioco il pericolo di una solitudine più grande di quella che già
si ha. Fanculo l’isolamento, fanculo gli ordini, fanculo le regole che ti
vogliono annullare. Nessuno deve rimanere solo.
Mi arriva la spesa che
ho fatto. Ho una bottiglia d’acqua naturale, la bevo e sento che è allungata
con quella frizzante. E l’ho pure pagata. Impreco e vado dalla guardia a
reclamare l’ora d’aria. Mi dice che non è possibile, non c’è l’assistente che
può controllarci all’esterno e che quindi non usciremo. Inizio a scalpitare
sempre di più e la mancanza di contatto con l’esterno inizia a devastarmi.
Chiedo se i miei genitori hanno cercato di vedermi, se sono venuti i miei amici
e i miei compagni. Non possono dirmi nulla. Inizio a incazzarmi veramente.
Arrivano le venti e mi chiudono in cella. Le altre detenute accendono il
televisore e sento il rumore delle camionette. Si parla della manifestazione
del giorno prima. Mi tappo le orecchie per non sentirle, ma la rabbia monta lo
stesso per quello che è stato fatto al corteo, a me e ai miei compagni e decido
di mettermi a dormire. Tanto non ho nulla da fare. Mi addormento, stavolta un
po’ in preda al magone. E a un certo punto eccoli: i miei compagni, i miei
amici, i miei genitori e i miei fratelli sono lì fuori a urlare che non sono
sola, a lanciare fuochi d’artificio e a cantare che “Si parte e si torna
insieme”. Lì ho iniziato a ridere, la prima risata della giornata. Sento le
altre detenute che urlano felici, che sbattono con le pentole sulle sbarre. Io
non posso, quelle dell’isolamento sono più grosse e non riesco ad arrivarci,
neanche salendo sullo sgabello. Arriva una guardia, ha capito che sono la fuori
per me. Un po’ infastidita mi dice che deve controllarmi e se va tutto bene.
Non potrebbe andare meglio, le rispondo. Mi addormento con le voci dei miei
fratelli che, dopo essere stati al freddo per un’ora, se ne vanno. Stavolta non
mi addormento col magone, ma felice e piena di una forza che avevo paura di
aver perso.
Il giorno dopo va
molto meglio. Sono arrivate delle nuove ragazze e una di queste è terrorizzata
e piange di continuo. Stavolta è il mio turno di aiutare le altre e la
consapevolezza di avere questo compito mi da’ forza e tranquillità. Io non sono
sola ma tante altre la dentro sì: è compito di chi ha questa fortuna far
sentire parte di una comunità gli altri che invece lo Stato vuole esclusi. La
giornata va avanti tra risate e un po’ di lacrime quindi, ma quasi ci
dimentichiamo di quelle sbarre che ci opprimono.
Dopo un po’ succede
quello che più mi aspettavo e temevo: mi vengono le mestruazioni. Cari
maschietti che leggete, non sentitevi in difficoltà e non distogliete lo sguardo
che questa è una cosa tanto naturale quanto rognosa. Specie se ti trovi in
carcere. Premetto che mia sorella aveva tentato di mandarmi degli assorbenti,
ma niente: le guardie all’ingresso non glieli hanno fatti passare. “Li devi
comprare, arrivano mercoledì”. Certo, e nel frattempo che si fa? Cara dignità,
quanto vogliono distruggerti. Quindi eccomi lì, in palese difficoltà, ad andare
a elemosinare tampax dalle assistenti del piano. Dopo un’ora, sette richieste,
e tanto disagio, sento una poliziotta che urla il mio nome. Convinta che mi
stesse finalmente dando ciò che richiedevo da tempo, mi sento dire: “O esci mo
a fatte l’ora d’aria o te tappo dentro”. Inutile dire che lo charme e la buona
educazione impartitami da mia madre sono andati a farsi benedire in tre
secondi, permettendo al lato di chi ha fatto le scuole al Tufello di uscire
indisturbato. Anche lì, a cavarmi d’impaccio dalla situazione, è arrivata una
detenuta che, in tre secondi, da cosa facile qual era, mi ha allungato il tanto
agognato assorbente salvando così quel poco di presentabilità che mi era
rimasta. Tra l’altro, l’ora d’aria era peggio del corridoio: si è svolta in un
quadrato di cemento minuscolo, con delle mura altissime, separato dalle altre
detenute. Quel minuscolo pezzo di cielo che s’intravedeva è stato peggio della
porta blindata della sezione che si apriva e chiudeva a intermittenza.
Finalmente la sera la
buona notizia: esco. Scatto dal letto, correndo su quelle scarpe senza lacci.
“Li rimetti ora?”. No, voglio uscire subito. Dalla cella più isolata sento una
preghiera “Non ti scordare di me per favore”. Non lo farò. La ragazza in lacrime
arrivata la mattina mi saluta. Chissà se ce la farà. Respiro. Gli abbracci, i
baci, la felicità, i festeggiamenti poi, li abbiamo vissuti insieme. Questo
invece è quello che vi posso raccontare nei tre giorni che ho passato solo
fisicamente lontana da voi. Di come hanno provato a privarci della libertà, ma
non ci sono riusciti. Di come non ci si sente soli quando si ha qualcuno fuori
che urla e combatte con te. Della solitudine che può essere sconfitta quando si
ha la consapevolezza di avere dei compagni al tuo fianco. Di come i detenuti ti
accolgano e ti accudiscano con un amore enorme. Quando si ha tutto questo,
niente può buttarti giù. “Si parte e si torna insieme”, questo mi sono ripetuta
nei momenti di sconforto. Non ho mai smesso di dubitarne. Hanno provato a
piegarci, a spezzarci, a romperci, a metterci paura. Noi invece torniamo
più forti di prima. Non ci hanno nemmeno scalfito.
Sempre vigili
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessuno purtroppo...
RispondiEliminainfatti....
RispondiEliminaHo fatto un post molto inrteressante su Silvia Baraldini. Ti invito a commentarlo ciao.
RispondiEliminafatto...
EliminaAgghiacciante, ma questa è l'Italia.
RispondiEliminaLe parole scritte...tutte vere!!!!!!!!!!!!!!!!!!!Ecco cosa sono capaci di fare!!!!!!!!!
EliminaMAMMA MIA , questa è la nostra Italia ? i nostri "vecchi" hanno lottato , sono morti per la libertà e oggi .......
RispondiEliminaSi sempre vigili
I nostri gloriosi vecchi hanno lottato ...e noi abbiamo consegnato il paese a squallidi e pericolosi individui...di cui non riusciamo a liberarci!
EliminaPeggio ancora di come immaginavo. Ma questa è barbarie per ogni detenuto. Non solo per i fermati. Sarebbe bene ricordarselo...
RispondiElimina