Ho fatto un viaggio, un lungo viaggio.
Sono sceso da una pagoda sulle spiagge giapponesi e ho camminato sino alle pendici del Fuji, dove il cibo e’ sensazione, brivido, unico. Poi sono corso in Thailandia, terra di piogge e frutta, di peperoncino e sesamo, in Indonesia, terra del mare, dagli occhi gentili, dalle musiche che ricalcano il ritmo delle onde del pacifico, e ancora in Malesia, in Cina, un saluto commosso agli sfortunatissimi amici nepalesi, e in Corea del Sud, ah la Corea, che non conoscevo, che ti pone innanzi il bianco, proprio come una tela intonsa, e che ti spiega come i colori con i quali riempirai il tuo piatto bianco riflettano il tuo stare in questo pianeta, difficile lasciare la Corea, difatti ci sono tornato tre volte.
C’era bel tempo, nessuna nuvola, condizione ideale per trasferirmi in Russia, dove un bar laboratorio continua a produrre cibi e bevande per noi viandanti, in Azerbajan, terra del fuoco sotterraneo, un lago nero, un paese che sfrutta la sua unica risorsa sotterranea per costruire un sistema ecocompatibile perfetto, per poi volare sopra alla Polonia, alla Germania, al Regno Unito, all’Austria e alla Svizzera.
Da Zurigo verso sud, verso il profondo sud, in Marocco ho rivissuto il caldo secco di Ouarzazate, ultimo insediamento umano prima del grande Sahara, in Zimbawe mi hanno dato il coccodrillo, santo cielo che prelibatezza, in Tanzania il caffe’ fatto con la lentezza, in Kenia quello fatto con la velocita’.
Velocita’ che mi ha portato, in una sorta di teletrasporto, a nuotare sereno di fronte alle spiagge di Acapulco in Messico, e poi giu, sempre piu’ giu, un’eccitazione galoppante, le sinapsi impazzite.
In Bolivia nascono frutti a 3500 metri, in Venezuela i microclimi sono paritetici a quelli italiani, in Ecuador coltivano le rose, in Cile le guardano solo una volta l’anno, si chiamano rose di Atacama, in Brasile il viaggio si trasforma in una camminata obliqua su quella che sembra essere una rete da pesca nella fase del riporto, in Columbia ho visto la gente piu’ sorridente del pianeta aspettare la pioggia sulla spiaggia di Macondo, con lo sguardo assopito di Gabriel Garcia Marquez intento a controllare dall’alto che tutti stiano bene nella sua sabbia, in Uruguay le persone piu’ solari, e in Argentina le donne piu’ spettacolari.
In Argentina ho ballato, al ritmo di uno strepitoso gruppo di percussionisti, solo percussioni, ritmo frenetico, e nonostante cio’ una coppia di loro ballava il tango.
Ecco, il tango con i tamburi mi ha spostato l’orrizzonte, non volevo andarmene, non ce la facevo, sentivo dei magneti provenire da ogni colpo sui fusti, mi dicevano di stare li’, di non spostarmi, che li’ avevo trovato l’equilibrio, li’ c’era tutto.
Ma non potevo, il viaggio era arrivato alla fine, e come tutti i sogni che si rispettano, il viaggio aveva avuto un inizio e, ahime’, una fine.
Una fine che piu’ bella non si puo’, perche’ ho portato a casa il sorriso del mondo intero, che e’ molto piu’ intenso quando proviene dalle popolazioni che lottano contro tutto e tutti per ottenere un chicco di grano dalla terra arida, che ti invita a rilassare le labbra, cosi’, lasciarle andare, senza pensieri, e in un attimo il viso si trasforma nella piu’ avvolgente di tutte le espressioni.
Un sorriso.
Un viaggio lungo due chilometri, dove i centimetri paiono anni luce.
Buon Expo a tutti.