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Buon Expo a tutti.

In Politica on luglio 22, 2015 at 7:03 am

Ho fatto un viaggio, un lungo viaggio.

Sono sceso da una pagoda sulle spiagge giapponesi e ho camminato sino alle pendici del Fuji, dove il cibo e’ sensazione, brivido, unico. Poi sono corso in Thailandia, terra di piogge e frutta, di peperoncino e sesamo, in Indonesia, terra del mare, dagli occhi gentili, dalle musiche che ricalcano il ritmo delle onde del pacifico, e ancora in Malesia, in Cina, un saluto commosso agli sfortunatissimi amici nepalesi, e in Corea del Sud, ah la Corea, che non conoscevo, che ti pone innanzi il bianco, proprio come una tela intonsa, e che ti spiega come i colori con i quali riempirai il tuo piatto bianco riflettano il tuo stare in questo pianeta, difficile lasciare la Corea, difatti ci sono tornato tre volte.

C’era bel tempo, nessuna nuvola, condizione ideale per trasferirmi in Russia, dove un bar laboratorio continua a produrre cibi e bevande per noi viandanti, in Azerbajan, terra del fuoco sotterraneo, un lago nero, un paese che sfrutta la sua unica risorsa sotterranea per costruire un sistema ecocompatibile perfetto, per poi volare sopra alla Polonia, alla Germania, al Regno Unito, all’Austria e alla Svizzera.

Da Zurigo verso sud, verso il profondo sud, in Marocco ho rivissuto il caldo secco di Ouarzazate, ultimo insediamento umano prima del grande Sahara, in Zimbawe mi hanno dato il coccodrillo, santo cielo che prelibatezza, in Tanzania il caffe’ fatto con la lentezza, in Kenia quello fatto con la velocita’.

Velocita’ che mi ha portato, in una sorta di teletrasporto, a nuotare sereno di fronte alle spiagge di Acapulco in Messico, e poi giu, sempre piu’ giu, un’eccitazione galoppante, le sinapsi impazzite.

In Bolivia nascono frutti a 3500 metri, in Venezuela i microclimi sono paritetici a quelli italiani, in Ecuador coltivano le rose, in Cile le guardano solo una volta l’anno, si chiamano rose di Atacama, in Brasile il viaggio si trasforma in una camminata obliqua su quella che sembra essere una rete da pesca nella fase del riporto, in Columbia ho visto la gente piu’ sorridente del pianeta aspettare la pioggia sulla spiaggia di Macondo, con lo sguardo assopito di Gabriel Garcia Marquez intento a controllare dall’alto che tutti stiano bene nella sua sabbia, in Uruguay le persone piu’ solari, e in Argentina le donne piu’ spettacolari.

In Argentina ho ballato, al ritmo di uno strepitoso gruppo di percussionisti, solo percussioni, ritmo frenetico, e nonostante cio’ una coppia di loro ballava il tango.

Ecco, il tango con i tamburi mi ha spostato l’orrizzonte, non volevo andarmene, non ce la facevo, sentivo dei magneti provenire da ogni colpo sui fusti, mi dicevano di stare li’, di non spostarmi, che li’ avevo trovato l’equilibrio, li’ c’era tutto.

Ma non potevo, il viaggio era arrivato alla fine, e come tutti i sogni che si rispettano, il viaggio aveva avuto un inizio e, ahime’, una fine.

 

Una fine che piu’ bella non si puo’, perche’ ho portato a casa il sorriso del mondo intero, che e’ molto piu’ intenso quando proviene dalle popolazioni che lottano contro tutto e tutti per ottenere un chicco di grano dalla terra arida, che ti invita a rilassare le labbra, cosi’, lasciarle andare, senza pensieri, e in un attimo il viso si trasforma nella piu’ avvolgente di tutte le espressioni.

Un sorriso.

Un viaggio lungo due chilometri, dove i centimetri paiono anni luce.

 

Buon Expo a tutti.

 

Biennale arte 2015 e le Parole importanti.

In Politica on luglio 7, 2015 at 8:38 am

ALL THE WORLD’S FUTURES, Biennale 2015, un’esperienza sensoriale.

La mia tredicesima Biennale d’arte ha vinto su tutte le altre, uno spettacolo per la mente, una carezza al cuore.

Il Giappone espone un’unica opera, The keys in the hand, decine di migliaia di chiavi che, appese con vagonate di fili rossi, pendono sopra a delle vecchie pagode, il simbolo della chiusura totale (io appenderei a testa in giu chi ha inventato le chiavi, i lucchetti, gli allarmi e quant’altro) che va’ a sbattere contro il simbolo della liberta’ assoluta, il navigare in mezzo all’oceano.

 

Il Belgio, che espone un robot futuristico capace di costruire un palazzo in mezzo al deserto, senza l’ausilio di manodopera, nel completo abusivismo, una perla di saggezza.

La Russia che fonde il rosso del partito con il verde della perestrojka, la Romania che prende per il culo l’arte che per il baffetto coprofago era “degenerata”.

Un gruppo di artisti ungheresi che all’interno del padiglione Italia leggono in continuazione “Non consumiamo Marx” , un pampleth scritto da Luigi Nono per le proteste alla Biennale del 68 e poi preso a testo madre  dagli studenti della Sorbonne in rivolta, proteste che videro in prima fila, oltre al Nono, i giovani Cacciari, Vedova e Scarpa, il tutto contornato dal suono del mare, da lacrime.

Il Canada da’ spazio a vagonate di barattoli di colore vuoti e multicolor, un’accumulazione da far invidia ad Arman, i resti di anni di pittura che formano un’opera talmente d’impatto e attuale da prevaricare la storia che ci sta dietro.

La Polonia prende la pellicola “Fitzcarraldo”, la rimodula ad Haiti, e in mezzo a un popolo curiosissimo la fa’ reinterpretare a dei danzatori polacchi in costume d’epoca, e la proietta su di uno schermo a emiciclo lungo dieci metri e alto due, il video piu’ strepitoso di sempre, o almeno del sempre che ho visto io.

 

L’Italia accolglie i visitatori con l’atrio, che e’ il fulcro dell’intera esposizione, con una scala di quelle che si utilizzano per le riprese dall’alto, una vecchia scala, un’accumulazione di valige usate e impilate, una gigantografia e la voce di PierPaolo Pasolini che chiacchera con Fabio Mauri alle prove di “Che cosa e’ il fascismo” del 1971.

Ho pianto.

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E poi c’e’ l’IRAN.

L’Iran non ha il padiglione all’interno dei giardini o dell’arsenale, gli iraniani hanno preso una vecchia fabbrica diroccata in Canareggio, ghetto ebraico, dall’altra parte di Venezia, e l’hanno riempita di opere contemporanee di artisti mediorientali.

Attenzione: mediorentiali, non iraniani.

Cosi’ succede che l’odiato Iran esponga una collettiva composta da artisti provenienti da India, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Regione Curda e dall’Iran medesimo.

Tutti questi stati, chi prima chi dopo, si sono fatti la guerra, oggi li ritrovi tutti assieme in un viaggio davvero impareggiabile, dal titolo

“The GREAT GAME”.

 

Ne’ ho combinata una delle mie, sono fatto cosi’, non riesco a fare a meno di immedesimarmi, cosi’ all’interno del padiglione finnico, al mattino, deserto, vedo una parete di lavagna nera intonsa, un sacco di gessi bianchi a terra, svariati orologi con delle parole al posto delle ore. Leggo la didascalia e scopro che la lavagna e’ li’ per tutti, per chiunque voglia disegnarle sopra qualcosa, con l’invito a posizionare tutti gli orologi alle pareti sulla parola scelta. Prendo il gesso, tiro una linea orrizzontale lunga tre quarti della lavagna e poi scrivo, in modo abbastanza astrattoinformale, alla fine della linea, la parola “BIOSPHERE”.

Poi visito tutta la biennale e nel primo meriggio ripasso di fronte al padiglione: molte persone, tutte a guardare, mi avvicino, oh santo cielo!!, c’e’ ancora la mia “BIOSPHERE”, nessuno ha avuto il coraggio di cancellarla per disegnare qualcos’altro, nessuno ha tirato fuori il coraggio, molti non avranno neppure letto il perche’ di quella lavagna e di quegli orologi fissi sul vocabolo in questione, e l’hanno lasciato li’ come fosse l’opera del padiglione, come se non ne’ fossero capaci, come se un senso di timidezza e impotenza li avesse assaliti anni addietro, come delle oche ferme in attesa della pastura quotidiana, la cosa mi ha segnato.

 

Molti paesi hanno deciso di mostrare al resto del mondo la loro storia recente, quasi tutti dedicano il padiglione all’immigrazione che ha condizionato nel corso dei decenni il tessuto sociale della nazione medesima, e i vantaggi derivati. Gli svantaggi non li citano, li lasciano a salvini e xenofobi al seguito, che alla biennale non hanno diritto di entrata, neanche al cesso.

 

Davvero, ragazzi, andateci se potete, ne’ vale la pena.

 

L’immigrazione come valore aggiunto porta dritto dritto alla Grecia, al governo Tsipras, che nel silenzio piu’ assoluto legifera per dare la cittadinanza greca a tutti i figli degli immigrati nati sul suolo ellenico, che parifica i diritti fra le coppie etero e quelle gay, che vorrebbe far pagare le tasse agli armatori (altra bandiera portata alta da quei quattro teste di cazzo che rappresntano la destra piu’ ignorante del pianeta: “Tsipras e’ comunista ma non fa’ pagare le tasse ai miliardari”, ignorando che la legge e’ un ARTICOLO della COSTITUZIONE greca, minimo cinque anni per modificarla, e articolo inserito dai colonnelli durante la dittatuura negli anni settanta, non so’ neanche perche’ continuo a citare i dementi che sparlano sui media, andrebbero delinguizzati e basta).

Non sto qui a tediarvi sul dove, come e pecrhe’ nasce il bailamme greco, dico solo che i colpevoli sono due: i governi greci, tutti, di destra, tutti, che hanno taroccato i numeri del bilancio per anni, e la Deutsche bank, che per altrettanti anni e’ stata l’organo di garanzia dei conti greci, quando ancora la bolla non era esplosa, come a dire che due piu’ due fa’ sette, e il professore che controlla dice che e’ giusto, che due piu’ due fa’ sempre sette.

Che pena veder Renzi che va’ a braccetto con Tsipras durante la campagna elettorale di solo qualche mese fa’ e poi corre a succhiare la tetta flaccida della MerDel, quasi come Badoglio nel 43. E come lui Hollande. Dei 18, gli unici due a presiedere un esecutivo sulla carta di centrosinistra, i due voltagabbana.

 

Le parole sono importanti, in alcuni casi anche le punteggiature, chiedere a Martin Lutero per delucidazioni in tal senso.

La Germania per “Krauten”.

La Francia per “Nouvelle Cousine”.

L’Italia per “Pizza e Mafia”.

La Russia per “Politburo e Nomenklature”.

La Grecia per “δημοκρατία”.

DEMOCRAZIA.

 

 

 

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