“- Amate i bambini?
- Si – rispose Kirillov, con un tono, del resto, abbastanza
indifferente.
- Sicché amate anche la vita?
- Si, amo anche la vita; ebbene?
- Ma se avete deciso di spararvi!
Ebbene? Perché le due cose insieme? La vita è una cosa e
quello un’altra. La vita esiste, ma la morte non esiste affatto.
- Vi siete messo a credere nell’eternità della vita futura?
- No, non nell’eternità della vita futura, ma di questa vita.
Ci sono dei momenti, voi arrivate a certi momenti in cui il tempo tutt’a un tratto
si ferma e diventa eternità.
- Voi sperate di arrivare ad un momento simile?
- Si.
- Ai nostri tempi è un po’ difficile, - rispose, pur
senz’ironia alcuna, Nikolàj Vsévolodovič, lentamente e come se meditasse.
- Nell’Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il
tempo [Apocalisse, 10, 6].
- Lo so. Quel che è detto là è verissimo, è chiaro e preciso.
Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché
non ce ne sarà bisogno. È un pensiero molto giusto.
- E dove lo ficcheranno?
- Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un
oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nella mente.
- Vecchi luoghi comuni filosofici, sempre gli stessi fin dal
principio dei secoli, mormorò Stavrogin con un compatimento sprezzante.
- Sempre gli stessi! Sempre gli stessi dal principio dei
secoli e non ce ne saranno altri! – replicò Kirillov con lo sguardo
scintillante, come se in quell’idea si celasse quasi una vittoria.”.
(Fëdor Dostoevskij, I demoni, Parte Seconda, Einaudi, Torino,
Capitolo Primo, pp. 220-221).
“Ancora una parola; e me la si conceda. Ciò che il nostro
tempo esige – già, chi finirebbe di enumerare tutto ciò che esige ora che, in
seguito ad un processo di autocombustione, la cui causa ed il cui motivo è
stato l’attrito mondano della mondanità con se stessa, la mondanità è andata in
fiamme? Invece ciò di cui il nostro tempo ha bisogno – nel senso più profondo –
si può esaurientemente dire con una sola parola, ha bisogno di eternità. La
disgrazia del nostro tempo è che non è diventato altro che “tempo”,
temporalità, che, impaziente, non vorrebbe sentir parlare di eternità, che
anzi, con buone condizioni o in preda a frenesia, vorrebbe rendere del tutto
superfluo l’eterno con una artificiosa imitazione; il che però non gli riuscirà,
in tutta l’eternità, perché quanto più si crede di poter fare a meno
dell’eterno, quanto più ci si irrigidisce nel pensare che si può fare a meno di
lui, tanto più, in fondo, si ha bisogno di lui”.
(Søren Kierkegaard, Gli scritti su se stesso, in La sinistra
hegeliana, Laterza, Bari, 1960, pp. 463-464).
«Noi siamo Re che si credono Mendicanti. Non metto in
discussione solo il Cristianesimo, ma tutta la civiltà occidentale e la sua
filosofia, secondo la quale noi veniamo dal nulla e finiamo nel nulla. Questa è
l'essenza del nichilismo. No, ognuno di noi è un dio con la convinzione di
essere contingenza, ombra di un sogno. L'uomo è una povera cosa: lo dice
Pindaro, lo dicono Shakespeare e Leopardi, è il clima creato da Bertolt Brecht.
In realtà siamo l'eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come
le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di
vederle se non al buio. Siamo destinati a una Gioia più intensa di quella che
le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Il mendicante è il
nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose
reali sono questo mondo, l'Europa, l'Italia, i rapporti economici, giuridici,
sessuali. Mentre il fondo dell’ uomo consiste nella sua permanenza assoluta.
Con la morte noi superiamo lo stato di mendicità: la morte ci consente di
oltrepassare il senso del nulla». (La risposta di Emanuele Severino alla
domanda “Mi spiega, nel modo più semplice possibile, in cosa consiste la sua
filosofia?” tratta da un'intervista a Corriere della Sera, 30 dicembre 2018).
Per chiarire meglio questa faccenda possiamo mettere a
confronto due opere molto simili, seppure scritte ad oltre duemila anni di
distanza l’una dall’altra: l’Oreste di Eschilo e l’Amleto di Shakespeare;
entrambi i protagonisti sono principi di sangue, ad entrambi muore il padre
assassinato da un parente prossimo (Egisto era cugino di primo grado di
Agamennone e Claudio era lo zio di Amleto, fratello di suo padre), entrambi
sono chiamati alla vendetta (dal sangue paterno versato Oreste, dallo spettro
del padre che si aggira per le mura del castello di Elsinore Amleto).
Ma, mentre Oreste sa perfettamente cosa deve fare, qual è il
suo dovere di figlio, e uccide l’usurpatore e la sua stessa madre senza battere
ciglio, affrontando così la collera delle Erinni, che sono divinità arcaiche
poste a salvaguardia dei crimini di chi si macchia del sangue familiare, Amleto
esita, non si risolve, non si decide a compiere un destino già stabilito che
non gli appartiene, che non riesce a far proprio, e passa all’azione solo
quando le circostanze non gli lasciano altra scelta.
Una tragedia è un lembo di eternità che si ricapitola e si
ripropone sempre uguale e sempre diversa, ti attrae sempre tutte le volte che
la vedi e non ti tedia anche se sai da sempre quale sarà lo spettacolo che si
dipanerà davanti ai tuoi occhi.
Un dramma non ha la struttura semplice di una tragedia,
sarebbe impensabile che rispettasse i precetti aristotelici dell’unità di
tempo, di luogo e di azione, crea un incremento costante della tensione durante
tutta la rappresentazione, per sfociare in un finale assolutamente inedito, non
scontato, che rende tutta l’opera una merce che si deprezza nel momento in cui
la si è fruita per la prima volta, e che precipita nell’arte lo spiacevole
fenomeno dello spoiler, dell’attenzione cioè ad evitare di rivelare (o che ti
venga rivelata) la trama o la conclusione di un’opera, perché questo
rovinerebbe la fruizione dell’opera stessa.
Le lastre di tufo che costituiscono i templi antichi e gli
edifici architettonici del barocco in tutto il sud dell’Italia, estratte da
millenni dalle latomie adiacenti e che presentano cromatismi e compattezza
lievemente differente ma che risulta comunque caratteristica da luogo a luogo,
assorbono la luce durante l’arco del giorno e la rilasciano gradatamente in
modo tale che al mattino esprimono un chiarore e un lucore quasi abbagliante,
proiettandoti in un candore opalescente ed eburneo, col trascorrere delle ore
si indorano, ingialliscono, diventano color miele e arancio, s’incendiano e
s’infiammano sempre di più come se volessero riversare all’esterno tutto il
calore accumulato durante il giorno.
Il tardo pomeriggio è il momento migliore per ammirare queste
opere d’arte, perché si fanno più calde ed accoglienti, e ne cogli meglio il
senso, lo scopo, perché è solo adesso che iniziano a parlarti, solo ora ti
svelano la loro eternità, solo adesso ti accorgi che sei un lembo di infinito
anche tu; perché l’eternità non si pensa, non si cattura, non si possiede, non
ti appartiene se non per un istante, è un cadere, un precipizio, una vertigine,
un annegare, un perdersi, un frammentarsi.
È sentirsi come se il cielo e la terra non fossero state
create, la luce non fosse emersa dalle tenebre, il giorno distinto dalla notte,
la terra separata dalle acque, le stelle e i pianeti non ancora posti sul
firmamento, le piante non ancora germogliate e animali e uomini non popolassero
ancora la Terra.
“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era
deserta e vuota; le tenebre ricoprivano l’abisso e sulle acque aleggiava lo Spirito di Dio.
Iddio disse: «Sia la luce»; e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e
separò la luce dalle tenebre; e nominò la luce «giorno», e le tenebre «notte»”.
(Genesi, 1, 1-5), ricordate queste parole della Genesi? Tutta la creazione
divina è il precipitare l’eternità e la caoticità del Verbo (pensiero, idee)
nella finitezza della materia e della distinzione.
L’eternità è come abitare una realtà fluida, eterea, vaporosa,
evanescente, una realtà che non è ancora diventata, carne, terra, che non sa
essere calorosa come una sciarpa di cachemire, avvolgente come un mantello
poggiato sulle spalle: l’eternità è un velo gettato sull’abisso.
Il senso dell’eterno ti assale nei momenti più inattesi, come
quando da ragazzo provavo quel senso di languida malinconia di fine estate, fra
gli ultimi di agosto e i primi di settembre, quando i turisti se n’erano andati
via quasi tutti, e l’estate stava per finire, perché in Sicilia l’estate,
quella vera, coincide con l’arrivo e la partenza di chi viene a farsi le
vacanze, e non viene determinata dal clima mite e dalle belle giornate, perché
altrimenti durerebbe quattro o cinque mesi.
Quelle serate di fine estate, in riva al mare, organizzando
gli ultimi nostalgici falò in spiaggia, solo fra di noi amici, perché le
amicizie balneari sono tutte ripartite, quando i bonghi e la chitarra non si
accordano più alle parole di “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi le tue
calzette rosse … oh mare nero oh mare nero oh mare ne … ti eri chiaro e
trasparente come me”, per fare spazio a “Appocundria me scoppia ogne minuto
'mpietto pecchè passanno forte haje sconcecato 'o lietto appocundria 'e chi è
sazio e dice ca è diuno appocundria 'e nisciuno appocundria 'e nisciuno”.
Poi la malinconia prende il sopravvento e domina il silenzio,
chitarra, voce e strumenti giacciono sulla sabbia, nessun altro suono o rumore
umano è udibile in tutto il paese, in tutta la Sicilia, forse nel mondo intero,
persino il mare cessa ogni respiro; percepisco solo ciò che è visibile, la
vampa del fuoco del falò, lo scintillio delle onde lambite dalla luna, le luci
fioche del centro abitato in lontananza, il brillare degli occhi dei miei
amici, la giovane età che pulsa e risplende in loro e in me, la luce emanata da
stelle e pianeti lontani…uno spettacolo che è stupore, incanto e meraviglia.
E guardo tutta quella bellezza e penso ad alta voce se
davvero esiste tutto questo o lo immagino soltanto, se stelle e pianeti sono
davvero da qualche parte o c’è soltanto la luce, traccia iridata della loro
esistenza, mentre loro non esistono più oppure non sono mai esistite e la luce
è soltanto una mia proiezione, i bagliori della mia malinconia che irradio nel
cielo; più che chiamare le stelle col loro nome, calcolare le distanze, stimare
massa, composizione, velocità orbitazionale, ecc., mi sarebbe piaciuto capire
il senso di quello spettacolo e godermelo così ancora di più.
D’altra parte, è vero che molte delle stelle che crediamo di
vedere non esistono più, è rimasta solo l’ultima loro luce emessa, mentre i
loro corpi, le loro masse si sono estinti o sono stati ingoiati da un buco
nero, noi possiamo scorgere dunque soltanto la scia luminosa che hanno emesso
mentre erano ancora in vita, che viaggia ad una velocità costante (300 mila km
al secondo) e che ci permette di calcolare la distanza fra noi e quella luce
(non più stella), se la vediamo a mille anni luce da noi significa ad esempio
che la stiamo osservando com’era mille anni fa.
La luce lambisce i corpi e trasporta la loro immagine lontano molto velocemente, dal momento che essa si propaga in linea retta, se solo potessimo architettare un veicolo più veloce di lei, potremmo anticiparla e catturarne i raggi con una telecamera immensa e leggere il passato, la storia, i misteri, l’ignoto, la preistoria, i primordi, potremmo spingerci fino ad oltrepassare i tredici miliardi di anni fa (quella è la data stimata dagli scienziati) e assistere alle origini dell’universo , e allo stesso modo … potremmo catturare tutta quella luce che sta andando a disperdersi nelle tenebre, quel velo gettato sull’abisso.
Con meno fatica (la velocità del suono è di 331 m/s, pari a
1.191,60 km/h, a 0 °C e di 343,8 m/s, pari a 1.237,68 km/h, a 20 °C), potremmo
ricaptare tutti i suoni emessi e abbinarli alle immagini come se stessimo
montando un film: pellicola e sonoro.
Certo, non mi sfugge che il grande Albert Einstein
considerasse tale velocità come una costante fisica universale,
indipendentemente dal sistema di riferimento utilizzato, il tempo più rapido in
cui qualsiasi informazione può viaggiare nell’universo; nella sua celebre
formula E=mc² la c che indica tale velocità è usata in senso assoluto, come
valore inalterabile, eterno, insuperabile … impossibile anche solo immaginare
un veicolo che superi tale velocità.
Cosi, anche se la velocità della luce (299 792 458 m/s) è
ancora considerata una costante in tutti i sistemi di riferimento ed è intesa
come la velocità limite consentita nel mondo fisico, la velocità massima che un
ente fisico come energia e informazione può raggiungere nello spaziotempo di
Minkowski; anche la scienza tende a stabilizzare i grandi risultati che crede
di aver raggiunto e a sacralizzare chi le ha permesso di raggiungerli.
Per questo nessuno finora aveva osato sfidare il dogma della
velocità della luce della Teoria della Relatività di Einstein progettando
grandi esperimenti di fisica delle particelle per testarlo, solo in maniera
collaterale, nell’ambito di uno studio atto a verificare l’oscillazione dei
neutrini, il gruppo di scienziati dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso in
collaborazione col CERN di Ginevra, ha scoperto che fasci di neutrini muonici (
cioè un neutrino che si lega al muone formando la seconda generazione di leptoni)
viaggerebbe (il condizionale è d’obbligo in attesa di ulteriori conferme) ad
una velocità sensibilmente superiore a quella della luce, e ciò anche tenendo
conto dell’incertezza della misurazione, calcolata in un possibilità di errore
su 40.000.
I risultati di questi esperimenti vengono resi noti nel 2012,
quando i fisici che li stavano effettuando ritengono siano corredati da solide
basi sperimentali e da un’adeguata mole di evidenze scientifiche; se questi
risultati fossero veri la Teoria della Relatività ne sarebbe minata dalle
fondamenta, oppure andrebbe rivista in profondità, ma nel 2017 Gianfranco
D’Anna pubblica un romanzo (Il neutrino anomalo, Dedalo, Bari), in cui
raccoglie tutti i dubbi della comunità scientifica internazionale al riguardo,
dubbi che si concentrano nello specifico della metodologia adottata e
dell’impianto sperimentale seguito, che avrebbero fatto registrare una falsa
anomalia circa la velocità dei neutrini imputabile ad un errore di misurazione.
Quando uno scienziato o un filosofo giungono ad idee o a
concetti assoluti stanno inserendo il divino nell’ordine del loro pensiero o
della loro teoria scientifica, stanno cercando di farti credere che loro sono
giunti sulla vetta ed oltre non c’è niente, hanno fatto ciò Descartes con le
sue idee chiare e distinte, Kant col soggetto trascendentale, Hegel con
l’assoluto e Einstein con la velocità della luce che diventa invariabile.
Si giunge a questi espedienti teorici per nascondere in
genere le anomalie teoriche del proprio pensiero, e gli altri tendono a
prenderle per buone perché è più facile credere che osare andare oltre ed
esporsi in prima persona.
Dietro la Teoria della Relatività c’è Dio, nascosto in quella
c², il suo spettro aleggia in tutta la fisica moderna, e viene fuori ingenuamente
in certe dichiarazioni non scientifiche, perché non verificate, ma che sono
intrise nell’idea di scienza che ha il suo autore, come ad esempio quando
Albert Einstein dichiarò che Dio non gioca a dadi.
Il contesto di questa affermazione, replicata in più
occasioni, è quello di salvaguardare un disegno di creazione divina alla base
dell’Universo, disegno mirabile e razionale, che essendo divino noi non
possiamo comprenderlo agevolmente, ma in cui sono inaccettabili i tentativi
della meccanica quantistica di mettere in discussione questa sublimità di fondo
e l’idea stessa che preesista un disegno razionale che regoli il tutto.
Come potete ben comprendere da una delle tante versioni di
questo discorso riferito al famoso scienziato tedesco da più fonti, tutte
attendibili (ha detto veramente questo, non l’ha detto? Di certo le sue
formulazioni scientifiche sono compatibili con questa visione dell’Universo):
“La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto, ma una
voce interiore mi dice che non è ancora la soluzione giusta. È una teoria che
ci dice molte cose, ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del Grande
Vecchio. In ogni caso, sono convinto che questi non gioca a dadi col mondo”. (4
dicembre 1926).
C’è da chiedersi a che gioco stava giocando Dio ad Auschwitz
o quando gli americani hanno lanciato le bombe a Hiroshima e Nagasaki, dov’è
adesso mentre ogni giorno muoiono centinaia di innocenti in Siria e molti altri
annegano nel Mediterraneo nel tentativo di scappare dalle condizioni di vita
del loro Paese di origine, diventate insostenibili, per tentare la sorte nel
mondo occidentale ricco e agiato, dov’è mentre il 20% circa di persone facenti
parte del mondo tecnologizzato sfrutta fino alla fame il resto del mondo,
vivendo come un parassita in cima alla piramide, razziando e sprecando le
risorse invece di condividerle.
Dico tutto ciò senza animosità, né verso quel Dio
indifferente ai fatti del mondo in cui non credo, né verso chi crede in lui e
gli attribuisce un’intelligenza divina nella creazione del mondo, un’infinita
bontà e il suo puntuale intervento sui fatti della vita per ripristinare la
giustizia infranta dalla cattiveria dell’uomo, ma solo come constatazione; del
resto un discorso su questo tema sarebbe necessariamente lungo ed esula dall’argomento
qui trattato.
Preferisco di gran lunga il pensiero di Giordano Bruno, arso
sul rogo perché con un tale pensiero il cristianesimo non può venire a patti,
sono reciprocamente incompatibili, quando teorizza l’esistenza di un universo
infinito e di infiniti mondi, microscopici e macroscopici, apparteniamo cioè ad
un universo infinitamente grande sopra di noi e conteniamo universi
infinitamente piccoli dentro di noi.
E che, molto semplicemente e senza alcuni sofisticazione, che
poteva permettersi visto che era l’uomo più erudito del suo tempo, chiede ai
suoi interlocutori cosa succederebbe se lui andasse all’estremo limite
dell’universo e cercasse di sporgere il suo braccio al di fuori, come un tempo
facevano i camionisti che sporgevano il loro braccio dal finestrino quando non
esistevano i climatizzatori, intendete bene che qualsiasi risposta gli avessero
dato i sostenitori della finitezza universale, egli avrebbe vinto la partita.
Perché, se può sporgere ancora il braccio, l’universo non è
finito, e se non può sporgerlo, vuol dire che esiste un confine, un limite, un
muro, ma cosa separa questo muro, cosa c’è oltre? Se non ci fosse nulla, il
muro non sarebbe affatto necessario.
Preferisco anche la teoria epistemologica di Paul Feyerabend
al falsificazionismo popperiano, alle rivoluzioni scientifiche kuhniane, al
problem-solving di Larry Laudan, al neopositivismo viennese … a Beethoven e Sinatra preferisco
l'insalata, a Vivaldi l'uva passa che mi dà più calorie.
4
Il Feyerabend che nel suo libro Contro il metodo scrive:
“Anything goes”, in particolare: “è chiaro, quindi, che l’idea di un metodo
fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una visione troppo
ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono
ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di
impoverirlo per compiacere i loro istinti più bassi, alla loro brama di
sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’
‘obiettività’, della ‘verità’, diventerà chiaro che c’è un solo principio che
possa essere difeso in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio:
qualsiasi cosa può andar bene”. (Feltrinelli, Milano, 1981, corsivo nel testo).
E qualche pagina prima aveva detto: “l’idea di un metodo che
contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida
nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene
messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che
non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente
radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza.
Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non
sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero
potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono
necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che
più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della
scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come
l’invenzione dell’atomismo nell’antichità, la rivoluzione copernicana,
l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della
dispersione; stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della
teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori
decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o
perché involontariamente le violarono”. (Ibid,).
Così come in letteratura mi piace Andrea Camilleri, il
quale è ricco della più grande ricchezza
che esista sulla terra: la fantasia; in genere parte da un piccolo dettaglio di
realtà, un fatto di cronaca, delle parole pronunciate da qualcuno, a volte
anche da meno, e ti apre davanti un mondo straordinario, ricco di personaggi,
dialoghi, accadimenti, colpi di scena, paesaggi, fatti storici e non o fatti
“storicamente inventati”.
Sentite come racconta la nascita di uno dei suoi romanzi più
belli La stagione della caccia (Sellerio, 1992): “Questo romanzo nacque dal
fatto che lessi negli atti dell’inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1875:
due grossi volumi da Cappelli, che io ho studiato attentamente. Arrivato ad un
certo punto, il senatore Cusa [Niccolò Cusa, senatore del Regno d’Italia durante
l’XIᵃ legislatura, nato a Corleone nel 1821 e morto a Palermo nel 1893],
presidente della commissione, chiede a un sindaco di un piccolo paese del
nisseno: «Signor sindaco, recentemente ci sono stati fatti di sangue nel suo
paese?». E il sindaco testualmente risponde: «No, eccellenza, no. Fatta
eccezione per il caso di un farmacista che per amore ha ammazzato sette
persone». Questa risposta, oltre a farmi molto ridere, mi diede un input e
l’indomani iniziai a scrivere il romanzo, in cui c’è appunto un farmacista che
uccide sette persone per amore”. (Micromega, 5/2018, Camilleri sono, p. 13).
Capite? Inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1875 …
voleva accertare la verità sull’esistenza della mafia, o cosa nostra, o mano
nera o comunque si chiamasse nell’isola … un piccolo paese del nisseno … un
farmacista ha ammazzato sette persone … per amore … per amore … non per mafia …
ammazzare per amore non è un fatto di sangue … no, eccellenza, no … fatta
eccezione… e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e
il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il
naufragar m'è dolce in questo mare.