mercoledì 21 novembre 2012

CADUCITÀ (VERGÄNGLICHKEIT) 2

Joaquin Sorolla Y Bastida Paseo a orillas del mar (o Paseo por la playa), 1909.    

 
Joaquín Sorolla Bastida (Valencia 1863 – Cercedilla 1923) non fu un artista “maledetto”, come siamo ormai abituati a pensare leggendo le biografie dei più grandi artisti degli ultimi secoli (ci sono stati girovaghi alla perenne ricerca di qualcosa, i tormentati, gli estatici, i delinquenti, gli assassini, i folli, gli autolesionisti, i visionari, i deliranti, gli estetizzanti, chi ricercava l’essenza, chi negava ogni essenza e mostrava i molteplici volti del reale).
Sposò la donna che amava e la amò riamato per tutta la vita, ebbe degli splendidi figli, fu circondato e stimato da molti amici e colleghi che arricchirono i suoi giorni, conobbe il successo molto precocemente e da allora fu un crescendo di riconoscimenti nazionali e internazionali, ne ricavò un certo benessere economico e una certa agiatezza di vita, ebbe incarichi di prestigio, girò in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Portogallo, ma amò profondamente la sua Spagna e in particolare l’Andalusia.
Si può dire che ebbe una vita felice, come capita a pochi uomini, e che non conobbe sentimenti forti come la rabbia impotente, la disperazione, il vuoto, la tristezza profonda, l’orrore, ... non ho visto niente di tutto questo impresso nelle sue tele quando sono andato a vederle, la primavera scorsa, a Ferrara al Palazzo dei Diamanti.
Mi è sembrato di cogliere, piuttosto, nella sua pennellata scorrevole e sicura, nel gioco di luci e di colori che baluginava (lampeggiava) in quei dipinti, nelle rappresentazioni del paesaggio iberico, nei suoi giardini, nelle sue architetture cristiano-moresche, negli uomini che rappresentava e nelle loro opere e fatiche, di una bellezza e di una forza struggenti, come se una lieve malinconia velasse il tutto, come il velo di Maya altera l’esatta percezione della realtà in Arthur Shopenhauer e nelle Upanishad da cui egli ricavò il concetto.
Precocemente sensibilizzato alla perdita delle persone (rimase orfano quando aveva due anni di età), era affascinato dalla bellezza che lo circondava, ma temeva che fosse effimera, che gli istanti indimenticabili della vita sarebbero trascorsi irreversibilmente, e tentò magistralmente di fermare tanta bellezza sulle sue tele, trasformando la grazia, il movimento e i colori in guizzi vividi di luce, che facessero rivivere ciò che amava. 

Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910.

Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910 (particular).

 
Un mio collega, Miguel Angel Gonzales Torres, nato nella stessa terra solare di Joaquín Sorolla, nel Congresso Internazionale di Psicoanalisi tenutosi a Roma nel maggio del 2006, utilizzò due esempi per introdurre il suo concetto di tempo in relazione al processo psicoanalitico; io adesso userò i suoi stessi esempi per parlare della caducità, perché anch’essa è legata al concetto di tempo, così come lo è il processo psicoanalitico: con la differenza che la caducità è Penelope che disfa la tela, mentre il processo analitico è Penelope che tesse la tela.

 « I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in time, like tears... in rain. Time to die ».
(Roy Batty, dal film Blade Runner di Ridley Scott, 1982).

« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire ».

Joaquín Sorolla y Bastida, Ayamonte, pesca del atún (1919).


Queste, citate da Miguel Angel, sono le ultime parole di Roy Batty, un replicante che porta con sé una data di scadenza, di distruzione (come ciascuno di noi, del resto), che si è battuto con altri replicanti per posticiparla, e questa battaglia li vede tutti sconfitti. Non si rammarica della sua fine, che prima o poi sarebbe arrivata e ora che sono morti tutti i suoi compagni, e anche Pris, la sua amata, non vive più e con loro è andata via gran parte della motivazione a prolungare la sua esistenza, si rammarica piuttosto per il fatto che di lui (di loro), dei loro momenti, non rimarrà nulla, il loro ricordo si perderà come lacrime nella pioggia.


Joaquín Sorolla y Bastida, Entre naranjos, 1907.

 
Il poeta, scrittore e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno ci lasciò in versi le sue riflessioni circa la caducità delle cose e della vita stessa:

Dormir nella memoria dell’oblio
dell’oblio della memoria,
e come nel materno utero mi perdo
e li perduto non nasco.
Benedetto avvenire mio trascorso
domani eterno ieri;
tu, ogni cosa che fu in eterno assolta,
mia madre e figlia e sposa”.

“ ... E quando al tramontare,
il sole accenderà l’oro secolare che ti ricama,
col tuo linguaggio di messaggera dell’eterno,
racconta che sono esistito”.

(Miguel de Unamuno y Jugo, (1907), Poesie scelte, Passigli, Firenze, 2006)

Joaquín Sorolla y Bastida, El baño del caballo, Museo Sorolla, 1909.

 
Nella prima poesia è l’amore per la sua donna a mantenere memoria di lui o a far si che memoria e oblio gli siano indifferenti, come il nascere o il non nascere; nella seconda affida alla sua città, Salamanca, di testimoniare la sua esistenza, di fare in modo che il suo passaggio terreno non declini nell'oblio.
Questo senso di transitorietà (la vergänglickeit freudiana) ha una letteratura sterminata (quasi quanto quella dell’amore) fin dall’antichità, fin dai primi segni tracciati dall’uomo sulla parete con una lastra di selce c’è quest’angoscia del tempo che passa, della modificazione di tutte le cose, dell’affanno nel trattenerle nella loro forma originaria, di eternizzarle rappresentandole, narrandole, in modo che rimangano anche quando non ci sono più.

Joaquín Sorolla y Bastida, Cosiendo la vela, 1896.

 
L’aedo Mimnermo canta versi che più tardi ispireranno Ungaretti, Giacosa e Giuliano Sangiorgi (per Malika Ayane):

«Noi siamo come le foglie, che la bella stagione
di primavera genera, quando del sole ai raggi
crescono: brevi istanti, come foglie, godiamo
di giovinezza il fiore, né dagli dei sappiamo
il bene e il male. Intorno stanno le nere dee:
reca l’una la sorte della triste vecchiezza,
l’altra di morte. Tanto dura di giovinezza
il frutto quanto la terra spande la luce il sole.
Ma, quando questa breve stagione è dileguata,
allora, anzi che vivere, è più dolce morire».
(fr.2 Diehl, Lirici greci, Garzanti, Milano, 1976, p. 5).


Joaquín Sorolla y Bastida, El patio de Comares. La Alhambra de Granada. Óleo sobre lienzo, Museo Sorolla, Madrid, 1917.
 
“ ... è più dolce morire” dice Mimnermo, è molto prossimo al sofocleo áriston me phynai (meglio non essere mai nati) (Edipo a Colono, 1225) e, prima di lui ai versi di Bacchilide “Breve è la vita umana, e la speranza è la sua rovina. Non essere mai nato: questo per l’uomo sarebbe la ventura delle venture, non esistere, non vedere il sole”.
Molta fortuna ha avuto nella storia della cultura occidentale il “carpe diem” di Orazio, che alcuni traducono con “cogli l’attimo”, a cui io preferisco “ruba un giorno”, inteso come vivi il giorno presente, strappa il tuo giorno alle cose che semplicemente si susseguono, che accadono, e fallo tuo, prendilo, strappalo all’indeterminatezza, alle cose che non ritieni siano in tuo potere, perché il futuro è indecifrabile, indeterminato. Smetti di sperare nel domani, perché il domani non è certo sia migliore di oggi, esso sarà esattamente come oggi ... ou pire (o peggio, aggiungerà Jacques Lacan, come al solito giocando sulla parola e sui suoi infiniti significati, a partire dal J’vous en prie ... la prego ... J’vous en pire ... la spregio, la peggio, lapeggio; oppure, ... ou pire ... o peggio ... Ça s’oupire ... s’ospira, s’opeggia).


Joaquín Sorolla y Bastida,  Rompeolas San Sebastian, 1917-18.

 
Dum loquimur fugerit
invida aetas : carpe diem,
quam minimum credula postero

Mentre stiamo parlando,
il tempo invidioso sarà già fuggito:
ruba un giorno,
confidando il meno possibile nel domani
(Orazio, Odi, I, 11, 7-8).

Joaquín Sorolla y Bastida, La vuelta de la pesca, Óleo sobre lienzo, Musée d'Orsay,  Paris, 1894.

 
Attraversando la cupezza medioevale e l’aggrapparsi al divino come unica luce, fino ai bagliori rinascimentali dove luci ed ombre si dividono equamente la scena come in questi versi:


Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non v’è
certezza”.
(Lorenzo ‘de Medici, Canzona di Bacco e di Arianna, in Canti carnascialeschi).

Joaquín Sorolla y Bastida, Maria pintando en El Pardo, Colección particular, 1907.

 
O in questi, di poco posteriori:

«Non sia mai ch’io ponga impedimenti
All’unione di due anime fedeli; Amore non è amore
Se muta quando scopre un mutamento
O tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
Che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
È la stella che guida di ogni barca,
Il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra
E gote dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
Ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
Se questo è un errore e mi sarà provato,
Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato
».
(William Shakespeare, Sonetto 116).

Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Benito Pérez Galdós,  Casa-Museo Pérez Galdós, Grand Canary, Spain, 1894.

 
Nella terza decade della sua vita Michel de Montaigne iniziò ad immalinconirsi, talvolta in occasione di una festa, di un convivio, di qualche occasione festiva se ne stava assorto in disparte e si estraniava da tutto; chi lo conosceva non lo riconosceva, era solito piuttosto partecipare attivamente alle discussioni e non si lasciava sfuggire occasione per corteggiare una bella donna.
Il tema intorno a cui vorticavano i suoi pensieri era quello della morte, nelle letture che faceva dei filosofi classici l’argomento era trattato ampiamente: Plutarco, Seneca, ..., concepivano il loro pensiero come una preparazione alla morte, Cicerone aveva scritto che: “Filosofare è imparare a morire”. Ma non c’erano solo i libri a creare nella sua mente la persistenza in memoria della morte, nel 1563 (quando egli aveva trent’anni) morì il suo amico più caro, Étienne de la Boétie, di peste e, nonostante il pericolo di esserne contagiato Michel volle assisterlo fino alla fine. Cinque anni dopo, nel 1568, morì suo padre, forse a causa delle complicazioni in seguito ad un attacco di calcoli renali (malattia di cui soffriva lo stesso Michel).
Nella primavera del 1569 perse il fratello minore Arnaud de Saint-Martin in una maniera assurda, stava giocando al jeu de paume, un gioco simile al tennis, quando fu colpito alla testa dalla pallina; inizialmente non sembrò riportarne traumi, ma qualche ora dopo perse conoscenza e la vita stessa, forse in seguito ad un embolo o ad una emorragia cerebrale. L’anno successivo, nel 1570 gli muore la figlia primogenita di soli due mesi di vita e anche in seguito, di sei figlie che ebbe con la moglie Françoise de La Cassaigne, solo una, Léonor, sopravvisse.
Senza contare che tutto intorno a lui, in Francia si stava svolgendo la carneficina più assurda della storia (se mai ci sia una carneficina sensata), una guerra civile di enormi proporzioni che dilagava in tutta l’Europa, fra cattolici e protestanti, di cui gli storici faticano a trovare delle motivazioni e a cercare di comprendere come fu possibile un simile incredibile macello.

Joaquín Sorolla y Bastida, Las tres velas, Private Collection, 1903.

 
Sensibilizzato da tutto questo la morte teneva campo stabile nella sua mente, tanto che egli scrisse nei suoi Essays: “Quando ci passano davanti agli occhi questi esempi tanto frequenti e tanto consueti, com’è possibile che ci si possa liberare del pensiero della morte e che a ogni istante non ci sembri che essa ci tenga per il collo?” (Michel de Montaigne, Saggi, I, 20, p. 108).

E ancora:

“A ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar d’un cavallo, al cader d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci immediatamente a rimurginare: «Ebbene, quand’anche fosse la morte medesima?». (ibid., I, 20, p. 109-110).

Joaquín Sorolla y Bastida, Mi mujer y mis hijas en el jardín, Óleo sobre lienzo, Colección Masaveu, Oviedo, 1910.

 
A liberarsi di questa che avrebbe dovuto essere un esercizio spirituale teso a familiarizzarsi con la propria morte, tanto che la immaginava in ogni dettaglio, persino il suo funerale e la distribuzione dei suoi beni ai suoi eredi e alla servitù, mentre era sempre di più un’ossessione, fu proprio un brutto incidente a cavallo che gli occorse.
A Montaigne piaceva cavalcare, ed ogni occasione era per lui buona per prendere il cavallo e inseguire al galoppo i propri pensieri o lasciarseli alle spalle, nonostante i pericoli anche all’interno della sua tenuta, fossero tutt’altro che occasionali, bande armate e semplici predoni bivaccavano nei dintorni (ed ovunque in tutta la Francia), pronti ad assalire chiunque passasse.
Ma il pericolo non venne da un agguato o da una rapina, che erano tutt’altro che infrequenti, venne piuttosto da uno dei suoi servi dietro di lui, un omone alto e grosso che cavalcava un grosso stallone che, improvvisamente mentre erano tutti al passo e il suo padrone era davanti a lui lungo il sentiero, si lanciò in un galoppo sfrenato.

Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Maria mirando los peces, Sotheby's, 1907.

 
Probabilmente il cavallo di Montaigne dovette spaventarsi a quelle grida e si spaventò ancora di più quando lo stallone e l’enorme servo gli piombarono addosso (sarà stato un calcolo errato dello spazio a disposizione sul sentiero, che in realtà era stretto) e lo abbatterono a terra facendo letteralmente volare in aria il suo cavaliere per poi ripiombare come morto sul terreno qualche passo più in là.

Joaquín Sorolla y Bastida, Saltando a la comba. La granja,  Museo del Prado, Madrid, 1907.
 
Montaigne perse conoscenza, poi sembrò riprendersi, ma era in uno stato di coscienza alterato, vomitava sangue e perdeva conoscenza continuamente; dai suoi ricordi emerge la sensazione di essere sul punto di perdere la vita, ad un certo punto rifiutò ogni cura certo che sarebbe morto immancabilmente da li a qualche istante. Nelle sue memorie parla di un senso di felicità, di liberazione, di “assaporare” la morte ... assaporare nel vero senso della parola, come fa un bambino quando si porta in bocca un oggetto sconosciuto, stava “assaggiando” la morte.


Joaquín Sorolla y Bastida, Niña en la playa, 1910, Christie's Images.

 
Da quell’esperienza egli ne uscì completamente guarito dalla sua ossessione per la morte, da allora in poi la rispettava ma non la temeva e non se ne curava più di tanto; la morte poteva essere tutt’al più un istante di sofferenza che non merita i nostri struggimenti, le nostre paure e le nostre ansie. Di essa scrisse più tardi:

Se non sapete morire, non preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi; non datevene voi la briga”. (ibid., III, 12, p. 1405).

Joaquín Sorolla y Bastida, Barcas varadas en la playa. Valencia,  1915.


Da allora in poi non si preoccupò più di come morire, ma di come vivere e, strano a concepirsi per noi moderni, sosteneva che bisognava infondere un po’ della dolcezza della morte alla propria vita, perché le trasmettesse un po’ di leggerezza e di superficialità ... sarà strano, ma io questo concetto lo capisco perfettamente.

[To be continued ...].



martedì 8 maggio 2012

POLENTA & DANÈ


“Ciao Amore, vado in ospedale”, queste erano le parole che la signora Gigliola Guidali si sentiva rivolgere tutte le mattine dal marito Umberto dopo aver preso con sé la valigetta da medico che i genitori ti regalano quando ti laurei in medicina. Questo sarebbe l’idilliaco quadretto di una giovane coppia sposata, innamorata e felice se l’Umberto in questione non facesse di cognome Bossi e, soprattutto, se lavorasse davvero in ospedale, come aveva lasciato intendere a tutti. Che lui fosse un medico lo credeva sua moglie, lo credevano i suoi amici più stretti (“Ho studiato a Pavia”, diceva ... e Pavia era considerata, insieme a Padova, la migliore facoltà di medicina in Italia e ha goduto di questa considerazione fino a qualche anno fa) ed è con questa professione che si fa registrare nell’atto della sua iscrizione al PCI (si, avete compreso bene, il Bossi era iscritto al PCI) presso la sezione di Verghera di Samarate, in provincia di Varese, nel 1975. Quando l’inganno viene scoperto e la menzogna non può più essere sostenuta, l’Umberto viene abbandonato dagli amici e lasciato dalla moglie, che traccia dell’ex-marito il seguente ritratto in un’intervista a Oggi nel 1994, rompendo il suo precedente riserbo su tutta la vicenda: "Bugiardo e fannullone. Uno che a 35 anni non aveva mai lavorato, si faceva mantenere agli studi dai genitori e mi raccontò una clamorosa bugia, facendomi credere che si era laureato. Ecco com'era il Bossi che ho sposato". E ancora: "Lo sposai perché mi aveva fatto montagne di promesse. Non ne ha mai mantenuta nessuna. Lui è fatto così. E' un inguaribile incoerente, uno che dice di voler fare una cosa e invece fa esattamente il contrario. Non mi sono pentita di averlo lasciato, anche se ha avuto tanto successo in politica. Non mi potevo fidare di lui. E come me, nessuno dei nostri amici di allora". Togliendo l’inevitabile tara che aggiunge una moglie delusa, l’acredine ormai indelebile che avvinghia ogni pensiero che questa donna rivolge al suo ex-marito e probabilmente una separazione in cui il loro legame non è stato mai risolto perché mai affrontato direttamente dal punto di vista affettivo, ma soltanto da quello giudiziario ed organizzativo, rimane comunque un quadretto poco edificante dell’uomo che per vent’anni ha condizionato la vita politica di questo Paese, che è stato a capo di un grande partito di protesta e di governo radicato nel nord Italia e che ha catalizzato le speranze di molte persone che a lui hanno affidato le loro speranze e hanno chiesto risposta alle loro paure e ai loro problemi. Sarebbe fin troppo facile adesso dire a chi ci ha creduto e a chi ci si è alleato politicamente: “Cosa vi aspettavate da un uomo così? Cosa speravate da un partito politico in cui lui era il capo assoluto, il padre padrone e l’emblema stesso?”. Sarebbe fin troppo facile infierire sull’Umberto e sulla Lega oggi che è tutta una linea di frane inarrestabile per lui e per il partito che ha rappresentato. Ma non è su questo tono che voglio discutere, non è su questi accordi che voglio intonare questo post, volevo semplicemente tracciare una linea di continuità fra il Bossi atavico, quel “simpatico” “bugiardo e fannullone” che dipinge la Gigliola, e il Bossi attuale. Vorrei che riflettessimo su un dato di fatto incontrovertibile che emerge da tutte queste vicende (presenti e passate), oggi gli unici che danno ancora un valore ad una laurea sono i leghisti (e Stefano Ricucci il cui nome compare in un elenco di persone che avevano tentato, non so con quale risultato, di comprare una laurea in Romania). E’ davvero commovente tutto questo, in un’epoca in cui si tengono in più alta considerazione un paio di tette siliconate per avere successo e riscuotere una certa considerazione, in un’epoca di barbarie assoluta dove conta più una piroetta di Ibraimovich, che un best seller di Umberto Eco, dove fa più notizia il flirt della velina che la scoperta della ricercatrice, ci sono ancora persone che brigano, con i soldi altrui è vero, per prendere una laurea, per conseguire un diploma, per acquisire un titolo. C’è una linea intergenerazionale, un mandato, un monito ereditario che passa fra padri e figli, come se il figlio di Bossi (il trota) avesse dato seguito ad un desiderio atavico che corre dai padri ai figli per generazioni: in fondo Renzo Bossi è il primo della famiglia Bossi ad aver conseguito una laurea ... chissà quanto agognata dagli avi di famiglia e trasmessa come obiettivo predominante alle generazioni successive. L’Umberto ci aveva provato a Pavia, una bella laurea in medicina, poi chissà perché non ce la fatta, ma è riuscito a far credere a tutti del contrario per mesi e per anni; Renzo invece ce l’ha fatta, nel tempo record di un anno e mezzo (chissà quale spaventoso quoziente intellettivo deve avere questo ragazzo ... a dispetto della faccia da pirla) e senza neanche frequentare, senza conoscere la lingua (che deve aver appreso in tempi record) e addirittura senza neanche discutere la tesi, visto che il giorno del conseguimento lui era in Italia e non in Albania. Che poi, tutte queste critiche piovute al povero Renzo per essersi laureato in Albania, per aver scelto un’università estera ... anch’io mi sono laureato all’estero, a Padova, in Padania, a 1400 km da casa mia e nessuno ha mai osato criticarmi per questo; del resto i leghisti sono il partito più esterofilo dell’intero ventaglio parlamentare ... la moglie di Umberto Bossi è di origini siciliane e, quando nel 2004 fu colpito dall’ictus fu portato d’urgenza nell'Ospedale Fondazione Macchi di Varese, ma la sua lunga riabilitazione non avvenne in qualche clinica padana, sotto l’occhio vigile di qualche medico padano, ma presso la clinica Hildebrand di Brissago, nel Canton Ticino, in Svizzera. Di recente abbiamo appreso che il tesoriere Belsito e la Rosy Mauro erano “terroni”, del resto bisogna capire i leghisti, di fronte a tutti quei soldi dei rimborsi ai partiti ci voleva qualcuno che sapesse far di conto e Umberto Bossi possiede solo il diploma di perito tecnico elettronico preso presso la scuola per corrispondenza Radio Elettra (l’unico accertato), mentre il figlio Renzo è stato bocciato tre volte all’esame di maturità, inoltre facevano investimenti in Tanzania, acquistavano diamanti e lingotti d’oro come un qualsiasi re nero della Costa d’Avorio e giravano con schede sim intestate a cittadini extracomunitari del Senegal e del Bangladesh. Certo, vi capisco, è difficile credere all’improvviso genio di Renzo Bossi, ad un quoziente intellettivo sbalorditivo, ad un conseguimento di una laurea lampo come se fosse un Einstein o qualche altro gigante delle scienze e del pensiero, è difficile credere che un figlio di Bossi possa anche soltanto arrivare ad un diploma al Cepu, del resto del il figlio maggiore Riccardo si sanno poche cose e non tutte edificanti, tanto per dire voleva partecipare all’Isola dei famosi e il padre glielo ha proibito (questo per dire che qualche neurone in famiglia è rimasto, nonostante l’ictus), di Renzo abbiamo avuto ampi saggi di pensiero, di azioni e di grammatica, degli altri due figli: Roberto Libertà ed Eridano Sirio si sa ben poco ... per fortuna ... d’altronde con un nome così vivono nascosti, perché se sei figlio di bossi, fratello del trota e ti chiami Robertò Libertà o Eridano Sirio o ti suicidi o ti droghi o fai gavettoni con la candeggina (http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/04/02/news/gavettoni_alla_candeggina_condannato_il_figlio_di_bossi-32640995/). Però, devo dire che trovo profondamente ingiusto infierire su questo povero ragazzo, il “Trota” intendo, solo perché ha cercato scorciatoie, solo perché, stufo di essere preso in giro, di essere scambiato per un ravanello, o per una zucca gialla, in un anelito di disperazione sceglie di acquistare una laurea in Economia Aziendale presso la “Kristal Universiteti” di Tirana ... vorrei vedere voi ad essere perennemente sbeffeggiati da chiunque abbia conseguito una laurea, un diploma, la licenza media, la terza elementare, da chiunque abbia avuto una carezza dalla maestra dell’asilo. Così come il Renzo Tramaglino di manzoniana memoria era l’emblema dell’italiota, sempliciotto e un po’ frescone della prima metà del XIX° secolo, Renzo Bossi è l’emblema dell’italiota, baluba e un po’ coglione del XXI° secolo. Chi frequenta un po’ le scuole e le università sa sicuramente quanto siano tracciate le vie ella semplificazione, quanto siano praticate le scorciatoie verso la meta, quanto si studi su dispense, su riassunti di libri, su “Bignami”, piuttosto che sui testi, quanto sia praticata l’arte dell’essenzialità delle cose. Se l’obiettivo è conseguire un titolo, un pezzo di carta, basta scegliere la via più breve, del resto è l’applicazione del famoso “rasoio di Occam” (William di Ockham, frate francescano), secondo cui, banalizzando al massimo e riducendo in formula Bignami, è perfettamente inutile ricorrere a spiegazioni complesse per un fenomeno quando possiamo accedere ad una spiegazione più semplice, è inutile affannarsi in complicati e arditi pinnacoli di pensiero quando con un rutto hai già dato l’immagine di come potrebbe essere stato il Big Bang e l’origine di ciascuna cosa vivente. E’ certo che Calderoli condividerebbe questo pensiero e sarebbe orgoglioso del suo figlioccio Renzo, se solo si ricordasse chi è costui, cos’è un figlioccio e chi è egli stesso. Non è una boutade, Signori, non si tratta del solo Renzo Bossi, di Ricucci, e di altra fauna pittoresca locale o circoscritta a qualche ambiente limitato, particolare, folckloristico e grottesco, qui stiamo parlando dei vostri figli (io non ne ho) che sono precocemente sensibilizzati ad ogni scorciatoia, ad ogni via breve, ad evitare inutili fatiche e seccature a giungere subito al dunque come se lo scopo fosse l’unica cosa degna di interesse, come se la meta fosse più importante del viaggio, come se il fine fosse l’unica cosa che conta indipendentemente e a scapito dei mezzi. E noi? Noi pompiamo, alimentiamo, nutriamo questa convinzione ormai smarriti circa ciò che è veramente importante e ciò che è accessorio, trovandoci spesso poi medici da “bignami”, da dispense, da riassunto piuttosto che medici (o professionisti) seti e seriamente preparati. Non solo, quando le furbate non bastano, come genitori interveniamo personalmente dispiegando ogni mezzo e ogni potere di cui disponiamo perché il nostro frugoletto abbia a trarne il massimo possibile da ogni situazione, e non importa se il massimo è spesso nominale o formale, se si tratta di qualcosa di immeritato, se lo innalziamo ad un incarico a ad un titolo che non merita. Tempo fa don Luigi Verzé offrì a Barbara Berlusconi una cattedra presso l’Università Vita Salute San Raffaele, il solo merito della ragazza era quello di essere figlia di Silvio Berlusconi, così come unico merito della Minetti è il suo seno siliconato e la conoscenza delle “lingue”; Renzo Bossi è un altro imbecille catapultato senza merito alcuno ad una carica più grande di lui ... e non sono certo gli unici, se andassimo ad indagare troveremmo un continuo muro del pianto di persone assolutamente incapaci, demotivate, indolenti, convinte incoercibilmente che non stanno li per svolgere un qualche pubblico servigio, che non devono rendere conto a te che sei l’utente e che con le tue tasse li sostenti, ma di dovere rispetto e reverenza a chi li ha elevati a quella carica con i tuoi soldi.