giovedì 28 novembre 2013

SOGNO DI UN’OMBRA L’UOMO




«Esseri della durata d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?

Sogno d' un'ombra l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga

fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita».

(Pindaro, Pitica VIII, vv. 95-97).




Epámeroi (esseri che durano un sol giorno) scrive Pindaro, questo siamo noi esseri umani, sottesi fra l’alba della nascita e il tramonto della morte, in un destino ineludibile e inesorabile; difficile dire cos’è l’uomo e cosa non è con la stessa sicurezza di Parmenide quando proclama che l’essere è e il non essere non è (28 B 6, 1-2) o di Protagora che vede l’uomo come misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono (80 B 1).

Effimeri, di breve durata, impalpabili, illusori, senza speranza, della stessa consistenza del sogno, del delirio o delle paraeidolie, come quegli insetti (gli efemeri) classificati da Aristotele nella sua Historia animalium che a suo parere vivevano un solo giorno.

Come si fa a dire cos’è e cosa non è l’uomo, cosa sono e cosa non sono le cose, se tutti quanti uomini e cose oggi sono ieri non erano ancora e domani non saranno altro che polvere? Sogno di un’ombra allora siamo, doppiamente inconsistenti, sia come sogno, sia come ombra, ma basta soltanto che il bagliore divino risplenda fulgido su di noi perché il nostro destino ci sia chiaro e dolce sia il nostro vivere.







Ma questo bagliore, divino o meno che lo si concepisca, è la consapevolezza stessa del nostro destino di nascita e di morte, del sorgere e tramontare, una consapevolezza che porta con sé l’angoscia esistenziale di Kierkegaard e di Heidegger e non certo la dolcezza del vivere; la vita ci si addolcisce non tanto per il sapere, ma per il saper fare o per il saper raccontare … questa è veramente la scintilla divina: il gesto dell’uomo e la sua poesia, in contrasto alla sua finitezza e alla caducità di tutte le cose.

Solo ciò che facciamo o la narrazione poetica di ciò che siamo e di ciò che proviamo può infrangere l’oblio del tempo e dispiegare la sua lunga ala sull’eternità; Pindaro, ad esempio, è giunto fino a noi e le sue parole ci parlano ancora, e ancora ci suscitano emozioni e fanno sorgere in noi numerosi interrogativi.

Non si può scappare dalla ruota eterna di un destino di morte individuale se non producendo cose degne di essere ricordate, meritevoli di menzione, che sopravvivano alle nostre spoglie mortali e che dialoghino incessantemente con chi verrà dopo di noi; non c’è altro senso alla vita se non quello di prendere consapevolezza di essere solo il sogno di un’ombra e inserirsi in un dialogo incessante con i nostri simili che è natura che si fa cultura.

Alfeo ci invita ad affrettarci, ad anticipare questo simposio, questo banchetto culturale, di non attendere le ombre della sera per libare e addolcire le nostre labbra col sacro nettare:


«Beviamo, perché aspettare le lucerne? Un dito è il giorno» (Fr. 346, v. 1).




Dáktylos (δάκτυλος) améra, un dito (dattilo) il giorno, circa 7-8 centimetri, ma il dáktylos è anche il piede della poesia greca e latina ed è nello stesso tempo forma poetica e ritmo (discendente, in questo caso, contrariamente all’anapesto che è invece ascendente) e indica una scansione temporale forse scandita dalle dita che battono la sillaba lunga e le due brevi che caratterizzano questo piede.

Quasi mezzo secolo dopo è Catullo a reiterare l’invito di Alfeo:


«Nobis cum semel occidit brevis lux,

nox est perpetua una dormienda».

(Liber V, vv. 5-6).




“Ma quando muore il nostro breve giorno,

una notte infinita dormiremo”.

(Traduzione di Salvatore Quasimodo).




Quasimodo traduce da par suo, da poeta, sembra quasi di rievocare i suoi versi più famosi:


«Ognuno sta solo sul cuore della terra

Trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera».

(Acque e terre, 1930).




Lux e nox sono in netta contrapposizione, in antitesi, così come sono in antitesi la brevità del giorno e l’infinità della notte, ciò che Quasimodo traduce poeticamente con un futuro (dormiremo) è in realtà un gerundivo (dormienda) che implica l’inesorabilità di una costrizione, di un sonno obbligato “da la quale nullu homo vivente po’ skappare”, avrebbe aggiunto Francesco d’Assisi.

Giacomo Leopardi cita questi versi di Pindaro nello Zibaldone, accomunato da un simile profondo sentire all’antico poeta lirico greco; ma, se Pindaro attendeva dagli dei quel bagliore che illumini la vita degli uomini e renda dolce la vita, Leopardi crede di averlo trovato proprio in Pindaro, nella poesia "tutta vestita a festa" e in tutto il pensiero antico, in cui gli uomini erano tanto vicini agli dei da partecipare anche loro della divinità, in cui le parole poetiche erano testimonianza della verità e il vero e il falso erano la stessa cosa e si diceva il vero attraverso cose false e incredibili (il mito).

Ed è addirittura prodigioso il dialogo fra il pastore errante e la luna, un dialogo in cui il silenzio della luna, il sospetto della sua indifferenza, tutta assorta nella sua immortalità e nella sua ciclica rivoluzione, ripropongono con dilagante angoscia, il carico delle domande esistenziali che il pastore le pone e si pone e il senso infinito di solitudine che prova:


«Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura, perché da noi si dura? / Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale. / Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perire della terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia. / E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l’ardore, e che procacci / il verno co’ suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in ciel arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?».

(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 52 ss.).




Il pastore errante chiede alla luna, ad essa solleva con angoscia le mani, ad essa pone le sue domande, come Amleto pone il suo dubbio assoluto e radicale al teschio di Yorick dissepolto dalla fossa comune, a chi non potrà rispondere, a chi la morte o la distanza siderale fanno si che non possa esserci replica, come gli antichi chiedevano alle stelle di far luce sul proprio destino, a chi non può far altro che rimandarti amplificata l’eco della tua angoscia.

Del resto, come era ben chiaro fin dagli albori della nostra civiltà:


«… molte sono le cose inquietanti [deinà], ma nessuna è più inquietante [deinóteros] dell'uomo …». (Sofocle, Antigone, vv. 332-333).





Nessun fenomeno naturale, per quanto prodigioso, può scatenare l’inquietudine, l’angoscia, quel senso fra il portentoso e il terribile, come esercito schierato in battaglia, che dilagano solo quando l’uomo con le sue technaí (la navigazione, l'agricoltura, l'allevamento degli animali domestici e il dominio su quelli selvatici, il linguaggio, le conquiste civili, la medicina e le leggi) dimentica i suoi limiti e il suo destino e travalica l’ordine immutabile della natura garantito dalla necessità.

Questa grande inquietudine sale dal coro dell’Antigone di Sofocle e ammonisce l’uomo di tenere entro i limiti la sua hýbris, la sua tracotanza, il suo voler essere simile agli dei immortali, quando basta un soffio appena perché di tutta la sua superbia, del suo orgoglio e della sua arroganza non rimanga altro che polvere.

Traduco il termine δέιυα [deinà] con “inquietante” invece che con "prodigioso" o con “meraviglioso”, “portentoso”, “stupendo”, “mirabile”, o “misterioso”, …, come leggo in molte traduzioni correnti; del resto questo aggettivo viene utilizzato quasi esclusivamente per esprimere qualcosa di tremendo, di terribile e che nello stesso tempo incute rispetto e timore, come ad esempio un esercito schierato in battaglia o un guerriero invincibile nella sua scintillante armatura e quasi mai per esprimere lo stupore, la meraviglia, come di fronte ad un qualche evento naturale o alla bellezza artistica prodotta dall’uomo.






In questo contesto l’equivoco di traduzione può far slittare l’intera opera di Sofocle dal senso maestoso di tragedia che volle imprimergli l’antico autore ad una soap opera moderna; provate a recitarla così e più che la tragedia immensa di una giovane donna che ha appena perso tutto, famiglia, affetti, e non vuole perdere anche la sua umanità anche a costo di perdere l’amore e la sua vita stessa, vi sembrerà Tempesta d'amore:


“Molte sono le cose meravigliose

ma nulla e più meraviglioso dell’uomo,

quando varca il mare bianco di schiuma

e penetra fra i gorghi ribollenti

sotto la sferza del vento del sud;

e anno dopo anno rivolge

con l’aratro trainato dai cavalli

la più eccelsa fra gli dei,

la terra immortale e infaticabile.

[…]”.

(Sofocle, Antigone, 332-340).




Inquietante, dunque, è l’uomo e il suo destino, che deve sempre misurarsi con la grande promessa che la vita dischiude a ciascuno di noi e le infinite lacerazioni che il tempo ci infligge togliendoci una dopo l’altra le infinite illusioni che ci creiamo: la felicità, la gioia, la serenità, la salute e la vita stessa.






Persino il senso ci è negato e spesso dobbiamo affrontare eventi che non ne hanno alcuno, che senso ha ad esempio per Ettore essere chiamato a rendere conto di un uomo ucciso in un duello ne corso di una guerra, che senso ha battersi con un eroe immortale, che senso ha sapere di stare andando incontro alla propria morte senza scampo alcuno, che senso ha non potersi sottrarre al proprio destino che l’ha fatto essere Ettore, l’eroe dei troiani, che senso ha non potersi sottrarre a questa sfida contro Achille che lo trafiggerà con la sua lancia?






Che senso ha sapere già in partenza che egli non avrà pietà per i tuoi resti mortali, che saranno trascinati nella polvere con la biga intorno alle mura e poi offerte in pasto ai cani nel campo acheo, che senso ha sapere in partenza che il tuo gesto di estremo coraggio non salverà i tuoi cari, non salverà la tua città, che cadrà fra le fiamme per non rinascere, che non salverà la tua donna, violentata sulle mura stesse e portata via come schiava e concubina e non salverà tuo figlio, che verrà scaraventato giù dalle mura a fracassarsi al suolo per mano di Neottolemo, il figlio del tuo assassino?






Cosa verrà tributato ad Ettore se non quell’ “onore di pianti” che invoca per lui il poeta?


“E tu onore di pianti, Ettore, avrai,

ove fia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane”.

(Ugo Foscolo, I Sepolcri, 292-295).




Ma la saggezza di Ettore, degli eroi, dei filosofi, dei poeti antichi e moderni e dei grandi uomini di ogni epoca è quella di non disgiungere la vita dalla morte, di essere certi in ogni momento che il fine stesso di ogni vita sia la morte e che non si può essere felici in vita se non attraversando e accettando l’idea della nostra morte, come scrive Mozart a suo padre ammalato:


“ … spero come in una cosa certa [si riferisce alla guarigione che augura al padre, che gli aveva scritto di essere ammalato, e che poco tempo dopo morirà], benché ormai sia abituato a temere sempre il peggio, in ogni circostanza. Poiché la morte (a ben guardare) è l’ultimo vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta familiarità con quest’amica sincera e carissima dell’uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante. E ringrazio il mio Dio di avermi concesso la fortuna di avere l’opportunità (Lei mi capisce) di riconoscere in essa la chiave della nostra vera felicità” (Wolfgang Amadeus Mozart, 04 aprile 1787 http://www.rodoni.ch/proscenio/cartellone/cosifantutte/letteraalpadre.html ).




È straordinario come eventi molto dolorosi siano capaci di illuminarci all’istante, dandoci bagliori improvvisi, per cui tutto ciò che prima era al centro della nostra vita passa in periferia, fino all’irrilevanza e tutto ciò che era periferico balza al centro, ciò che prima era indispensabile diventa dispensabilissimo, ciò che era dominante diventa recessivo, ciò che era preminente diventa insignificante e ininfluente.






“Quem di diligunt, adulescens moritur”, Chi è caro agli dèi, muore giovane. (Plauto, Bacchides, Le Bacchidi).





Non ho la lucidità né l’umore adatto per star dietro a questo blog, mi prendo una pausa.




giovedì 21 novembre 2013

QUIS, QUID, UBI, QUIBUS, AUXILIS, CUR, QUANDO, QUOMODO? (CHI, COSA, DOVE, CON QUALI MEZZI, PERCHÉ, QUANDO, COME?).




Il primo pensiero va a quei 16 morti, ai loro parenti, agli sfollati e a chi ha subito i danni maggiori, poi però sarà necessario capire perché un’ondata di maltempo che si abbatta in qualsiasi parte d’Italia sembra il diluvio universale, perché basta un terremoto qualsiasi, di quelli che in Giappone sarebbero classificati come solletico, perché le nostre abitazioni e gli edifici pubblici si sgretolino come se fossero fatti di farina, perché stiamo dilapidando il più grande patrimonio artistico al mondo con l’abbandono, l’incuria e l’insipienza?

E non stiamo qui a parlare dell’effetto serra, del riscaldamento globale, delle catastrofi climatiche, dell’inquinamento atmosferico, dell’innalzamento del livello dei mari e di come stiamo distruggendo l’ecosistema globale che ci sostenta tagliando il ramo su cui siamo seduti tutti quanti, perché in questo caso sarebbe come auto-assolverci almeno in parte spalmando la responsabilità di ciò che accade nel nostro territorio con una responsabilità globale.
Dopo aver dato per assodato che dall'Islanda al Sudafrica e dal Portogallo all'Indonesia stiamo inquinando l'ambiente in cui viviamo in maniera, forse, già irreversibile, io voglio capire perché questo succede qui da noi, perché accadono sistematicamente senza che nessuno intervenga tragedie come quella di Sarno, la Valtellina, la Valboite a Belluno, Torino, Atrani e la costiera amalfitana, la Liguria, il Veneto, il messinese(solo per citare le più recenti)  e adesso Olbia, Nuoro e l’Ogliastra.
Non bastano più nemmeno i morti a svegliarci? Passata l’ondata di commozione e di emergenza rimetteremo la testa nella sabbia come si dice, senza alcun fondamento, facciano gli struzzi? Continueremo a recriminare che la colpa è di questo, o di quello, o di quell’altro?

Eppure lo sappiamo benissimo che gli amministratori locali o globali sono in molti casi dei farabutti, speculatori della peggior specie attratti dalla politica perché significa ricchezza e potere, che deprederanno tutto ciò che potranno depredare, che hanno già in partenza il loro clan di amicizie da favorire e da sistemare e un carnet delle grandi opere che i loro amici realizzeranno facendo lievitare alle stelle i già ingenti costi preventivati e il cui “fine lavori” slitterà per anni (anche per sempre, come accade alla Salerno-Reggio Calabria) ricattando la pubblica amministrazione che sarà costretta a pagare ancora e poi ancora perché un’opera non finita non serve a niente? 
Sappiamo o no che le regole di tutela del territorio sono puntualmente violate dagli stessi che magari in Parlamento le hanno stabilite? Lo sappiamo che queste norme le hanno stabilite non per tutelare il territorio, ma a loro volta per ricattare i loro amici imprenditori che in questo modo necessitano di chi dia un permesso, un nulla osta, o che chiuda un occhio se si costruisce in zone con vincoli paesaggistici o su come si costruisce?

Il vescovo di Olbia  Giovanni Sanguinetti nell’omelia si scaglia contro i responsabili (notate la genericità delle sue accuse) con queste parole: «Non possiamo lasciare inascoltato il tragico monito che questa disgrazia porta con sé. Da quello che è successo non è estranea la mano dell’uomo. Ci sarebbero stati esiti meno devastanti se avessimo imparato a rispettare i ritmi del creato».

Ci sarebbe da chiedersi dov’era Sua Eccellenza il vescovo quando la “mano dell’uomo” operava in tal senso, e la sua reverenda mano non ha per caso tagliato qualche decina di nastri tricolore in occasione dell’inaugurazione di opere che hanno contribuito a cementificare la costa di una delle regioni più belle d’Italia?

Abbiamo già cementificato e deturpato tutto il cementificabile e il deturpabile e chiediamo ancora delle deroghe, applaudiamo ai condoni per abusi edilizi, bramiamo nuove cubature per estenderci o per innalzarci o, comunque, ce ne freghiamo di norme, regole, vincoli, di piani regolatori, di controlli, di verifiche e persino di denunce visto che gli ingranaggi della giustizia sono di una lentezza esasperante e che per un abuso edilizio commesso da mio nonno probabilmente pagherà (se pagherà) qualche mio trisnipote oppure sarà prescritto ... e pre-scrivetelo prima che non siete in grado di bloccare, di perseguire e di punire gli abusivi, così lo Stato evita le spese legali per istruire un processo.




Tutte le coste più belle della penisola sono diventate un’unica, continua e ininterrotta colata di cemento, dove si ergono orrendi cubicoli in muratura che si ispirano ad un equivoco senso dello sviluppo del turismo con l’invocata esigenza di costruire strutture di recezione di eccellenza e infrastrutture perché siano facilmente accessibile e sia sempre più facile e più comodo visitare quei siti di interesse naturale, artistico e archeologico di qualche rilievo.

A guardarle e a viverle certe cose ti sembra di essere entrato in un incubo, gli ideatori e i realizzatori di tali scempi più che al Palladio o a Le Corbusier, sembrano essersi ispirati agli sceneggiatori dei film di Dario Argento; non solo si tratta di ripugnanti casermoni senza alcun pregio estetico, spesso semplici ricalchi tratti da riviste internazionali di architettura, che non tengono minimamente conto né del territorio dove si vanno a collocare né delle materie prime che questo offre all’architettura, ma non hanno neppure alcun senso pratico.

In questo caso credo che gli esempi di Auschwitz,  Birkenau e  Dachau siano ancora paradigmatici per la costruzione di alberghi, resort, villaggi vacanze e navi da crociera, stesso stile, stessa organizzazione della giornata, stessa disciplina, l’unica cosa che cambia è che nei primi ci rimanevi a vita, nei secondi allo scadere del tempo determinato ti rilasciano in cambio di una cauzione per gli extra.




Tutto ciò che non è stato cementificato è stato abbandonato, o perché è stato ritenuto non bello, o perché poco conveniente investire in quei luoghi o perché c’era già vicino qualche polo turistico e sarebbe stato considerato considerato poco cortese andargli a fare concorrenza proprio in casa, oltre che poco salutare visto che le varie mafie hanno investito abbondantemente nel turismo e nella cementificazione sia per uso privato sia destinata a scopi turistici.

Ogni tanto fa capolino l’idea di privatizzare le spiagge, se ne rimangono, quando un governo è disperato si ispira a qualsiasi cosa pur di far cassa, in questo caso a Totò truffa, quando Totò e Nino Taranto tentano di rifilare la Fontana di Trevi a quel beccaccione di Decio Cavallo.

 Tempo fa l’ex ministro Tremonti, considerato la mano sinistra di John Maynard Keynes, lanciò l’idea di privatizzare le spiagge, oggi qualcuno (il malcapitato si chiama Antonio D'Alì, del PDL) ha rilanciato l’idea usando termini come "sdemanializzazione" degli stabilimenti balneari … dalle mie parti dicono: “Di sali menticcinni 'na visazza, falla comu voi sempri è cucuzza” (aggiungi pure una bisaccia di sale, cucinala pure come ti pare, rimane sempre una zucca).

Chiamala privatizzazione, o sdemanializzazione o vendita delle nostre spiagge … chiamala come vuoi sempri è cucuzza; da una privatizzazione lo Stato guadagna una volta sola e perde per sempre un bene, forse sarebbe il caso di rivedere le concessioni che vengono date ai privati, stabilire nuove regole in fatto di remunerazione e rispetto per l’ambiente, esistono strutture balneari che non necessitano di basamenti in cemento e che sono completamente smontabili e reversibili, che lasciano la spiaggia esattamente come l’hanno trovata.

Antonio D’Alì scherzava, o comunque non ha insistito più di tanto, alle prime critiche non se n’è più parlato, però è successo in ogni caso un putiferio: il PD si è spaccato di nuovo e con questa spaccatura abbiamo finito tutta la colla disponibile per tenere insieme i cocci, i falchi del PDL erano favorevoli alla privatizzazione, le colombe erano contrarie, i gabbiani si sono astenuti.




Perché qui da noi è possibile cementificare in maniera selvaggia, perché è possibile costruire a ridosso dei siti archeologici, impiantare piloni sopra una necropoli antica, perché non ci stupiamo nemmeno se qualcuno dei nostri politici decidesse di riadattare il Tempio della Concordia di Agrigento alle sue esigenze,  mantenendo le colonne doriche e reinterpretando il vecchio edificio come un loft open space, o una living room, con living doors, living design, living fireplace, living kitchen, living wife, living childrens, living dog, living cat, living rabbit and living budgie.

Chi potrebbe impedire ad esempio all’ex ministro Renato Brunetta, dopo Ravello, l’Umbria, le Cinque Terre e Roma, di privatizzarsi per uso personale la Scala dei Turchi di Agrigento, per 40 mila euro, se promette di non sporcare, di non fare la pipì sulle lastre di falesia, di non costruire al largo una riedizione del Mose di Venezia contro l’acqua alta in Laguna e di comprare i braccioli se non tocca, e di non mangiare patatine a letto?

Qualcuno di voi è convinto che Brunetta pagherebbe un costo elettorale se si votasse adesso dopo la trasmissione Report sulla compravendita di ville in posti incantevoli al prezzo della stalla di Betlemme? Qualcuno è convinto che Cappellacci perderà qualcosa dopo il disastro nella sua terra o che semplicemente dovrà rivedere i suoi piani edilizi, o sarà più cauto nell’assegnazione degli appalti? Non si dimettono ladri, puttanieri, gente che pasteggia a caviale e champagne a nostre spese vantandosene con la segretaria, gente che ha raccolto firme e voti falsi, chi telefona in questura, chi al Ministero per scarcerare l’ “amica” o la figlia dell’amico, chi si vanta di aver fatto molte raccomandazioni, …, non si dimette nessuno nemmeno dopo una condanna definitiva.

Ma noi perché non riusciamo più nemmeno a indignarci o a incazzarci, perché queste dimissioni non le pretendiamo? Io credo che questo avvenga perché siamo come loro, perché li comprendiamo, perché al posto loro faremmo le stesse identiche cose e perché, vista la non eccelsa statura morale e intellettiva di queste persone, visto che dei perfetti imbecilli e delle sgallettate ignoranti come rape possono fare gli onorevoli, i deputati, i senatori, i sottosegretari, i ministri, i presidenti delle camere, il presidente del consiglio e il presidente della repubblica, allora anche noi possiamo sperare.




Basta fare un provino e puoi aspirare ad essere presentato alle prossime elezioni in Forza Italia, è così che selezionano i picciot … pardon, i candidati; se hai la tendenza a pagare 80 euri al kilo il fagiolino, allora sei proprio di Forza Italia; se sei schizofrenico, schizotimico, schizoide o anche solo dissociato, se non vai d’accordo neanche con te stesso, o se non ti sei perso nessuna delle puntate di Happy Days, puoi aspirare ad essere candidato per il PD.

Se hai un blog e spari cazzate a raffica a cui non credi più nemmeno tu, allora puoi entrare nel movimento 5 stelle; se hai un loden e la erre moscia ti aspettano a Scelta Civica; se sei capace di spacciarti per economista, laureato alla bocconi con un master a Boston, puoi confidare su Fermare il declino e se sei capace di ridere per un quarto d’ora sul fatto che un tizio toglie arrogantemente il microfono ad un giornalista che gli fa domande scomode, parlando con affabilità col tipo che da decenni inquina una città intera e produce consapevolmente morti, allora stai col SEL.

Il fatto è che non ce ne frega niente della cementificazione delle coste se un pezzo di quel cemento è la mia casa al mare, non ce ne frega niente di aver deturpato la bellezza naturale del nostro territorio se facendolo abbiamo favorito noi stessi, la nostra famiglia, i nostri amici o qualcuno che ci sarà riconoscente; non ce ne frega niente del fatto che l’edilizia in Italia è quasi tutta in mano alla mafia, e non ce ne frega niente nemmeno dei pericoli che la cattiva edilizia e la cattiva politica provocano, né delle morti, tanto fra qualche giorno saranno dimenticati fino alla nuova disgrazia.




Chi ha votato per Ugo Cappellacci molto probabilmente lo rivoterà o voterà per qualcuno che su questo aspetto non la pensa diversamente da lui, chi ha votato per i suoi avversari farà finta di non aver colto che questi oppositori non si sono opposti con sufficiente fermezza, non hanno denunciato, non hanno allarmato la popolazione, non hanno informato sui rischi che sarebbero potuti derivare da quel tipo di amministrazione, faranno finta di credere che se ci fossero stati loro al potere tutto ciò non sarebbe successo (e i simpatizzanti di Soru sembrano assestarsi su questa linea, per tacitare la loro coscienza e per dimenticare che è da decenni che si cementifica in Sardegna, non è certo solo opera di Cappellacci).

Tutti insieme faremo una gara nel versare il nostro obolo per i poveri sardi colpiti da questa grave calamità, rispolvereremo il vecchio refrain della solidarietà, dell’umanità, dei soccorsi e dimenticheremo per un attimo che i responsabili del disastro saranno gli stessi che gestiranno l’emergenza, guadagnandoci due volte, la prima quando hanno cementificato la seconda quando gestiranno la pioggia del denaro degli aiuti.






Noi italiani siamo fatti così, non siamo né di destra, né di sinistra, né fascisti né comunisti, né statalisti né liberisti, né con la magistratura né convinti davvero che i giudici siano degli eversori, né berlusconiani né riformisti, né moderati né esagitati, siamo come i cani da tartufo, fiutiamo l’aria per capire chi comanda e ci aggreghiamo, meglio salire sul carro del vincitore, che rimanere a piedi, chiunque sia il vincitore … a fare la marcia su Roma furono qualche centinaio di esaltati, quando il fascismo prese il potere sembrava che su Roma si fosse riversata l’intera penisola, e quando l’esercito alleato entrò con i carri armati in città come Napoli, Roma e Milano sembrava che nessuno fosse mai stato fascista, erano tutti nelle strade e nelle piazze a sventolare stendardi, gagliardetti e bandiere a stelle e strisce.




Noi siamo come Antonio Razzi, che ha dichiarato esplicitamente che lui non è né falco né colomba, ma “è di proprietà di Berlusconi”, anche se il nostro “Berlusconi" dovesse chiamarsi Alfano (incredibile, c’è anche lui fra i candidati possibili) Grillo, o Renzi, o Cuperlo o in qualsiasi altro modo, basta che abbia vinto o che sia dato per possibile vincente. Per questo ci piace Berlusconi, che pare uno di quei pupazzi col fondo arrotondato che puoi far oscillare quanto vuoi dandogli spinte sulla testa e che ritorna sempre e immancabilmente i posizione eretta, per questo più che ai programmi del PD ci appassioniamo tanto alle primarie e il PD fa una primaria dietro l’altra nel tentativo di far dimenticare che non ha idee, per questo chi strilla cazzate come Grillo e ha un’infinità di contatti sul suo blog diventa un leader indipendentemente dalla qualità di ciò che dice.




Per questo in autostrada vedi sempre più gente che sta nella corsia intermedia, anche se quella a destra è libera, perché dal centro all’occorrenza può passare più agevolmente sia a destra sia a sinistra, in base alla convenienza momentanea, per questo c’è gente che ti supera anche a destra ormai, salvo poi tagliarti la strada per guadagnare la corsia di sorpasso all’estrema sinistra, per questo più nessuno ormai mette le frecce per avvisarti del cambio di direzione.

Per questo ci sono attualmente, in questa situazione di stallo in cui le urne hanno decretato la sostanziale parità dei tre maggiori partiti, migliaia di persone disperate, che scrutano continuamente l’orizzonte, invocano larghe intese, große koalition, governo di solidarietà nazionale o le lezioni subito con o senza porcellum, magari con la porchetta di Ariccia, pur di identificare un carro del vincitore, anche temporaneo, su cui salire … bisogna stabilire al più presto chi è il nuovo padrone e a centinaia di migliaia sono col guinzaglio in mano in attesa della sua venuta.           





mercoledì 20 novembre 2013

I 'NNAMMURETE






"Gli amanti, come le api, vivono nel miele".

(Dalla Casa degli amanti,  Pompei).



Leonid Afremov



« [..] Com'agghi' 'a fé, Maronna mèie, / com'agghi' 'a fé? / L' agghie lassète u paise / ca mi davìte u rispire d'u céhe, / e mò, nda sta citète, / mi sbàttene nd'u musse schitt'i mure, / m’abbrucuuìne i cose e tante grire / com’a na virminère [...] »

(Albino Pierro, Le porte scritte nfàcce).



Leonid Afremov


« [..] Come debbo fare. Madonna mia, / come debbo fare? / Ho lasciato il paese / che mi dava il respiro del cielo, / ed ora, in questa città, / mi sbattono sul muso solo i muri, / mi infestano le cose e tante grida, / come un vermicaio [...] ».

(Albino Pierro, Lo porto scritto in faccia).


Leonid Afremov Love


Albino Pierro nasce a Tursi, piccolo centro in provincia di Matera, il 19 novembre del 1916. La sua infanzia è segnata dalla perdita della madre, Margherita Ottomano, morta quando il poeta era ancora in fasce. La figura materna e il paese natio (’A terra d’u ricorde) sono termini fondamentali della vicenda poetica pierriana («Ma iè le vogghie bbéne a Ravaténe/ cc’amore ca c’è morta mamma méja»). Il padre, Salvatore Pierro, proprietario terriero, si risposa, mentre Albino è affidato alle cure delle zie Assunta e Giuditta, due figure che compaiono nei versi del poeta maturo.

Gli anni di apprendistato sono consumati dal giovane e inquieto Albino tra Taranto, Salerno, Sulmona, Udine e Novara. Nel 1939 approda a Roma, ove si stabilisce definitivamente. Nel 1944 consegue la laurea in filosofia ed inizia ad insegnare storia e filosofia nei licei. Negli anni Quaranta, già allietati per il poeta dalla nascita della figlia Maria Rita, inizia la sua collaborazione con le riviste «Rassegna Nazionale» e «Il Balilla».

Dal 1946 al 1967 Pierro pubblica raccolte poetiche in lingua, «testimonianze già valide ed eloquenti della sua vocazione lirica» (A. Pierro, Pierro Albino, in Autodizionario degli scrittori italiani, Milano, Leonardo, 1989, p. 272). Ma è con i versi in dialetto che il poeta si guadagna un posto d’onore nel panorama della poesia italiana del Novecento.

Il dialetto lucano di Tursi, pur avendo attirato l’attenzione di filologi e linguisti come Rohlfs e Lausberg, era letterariamente vergine quando Pierro decise di adottarlo («Forse il bisogno di testimoniare meglio le mie origini più autentiche sarà stato ridestato dall’assenza, dalla distanza. Si trattò di recuperare un linguaggio che era appartenuto al mio passato e al passato della mia gente», in A. Pierro, Nun c’è pizze di munne, Milano, Mondadori, 1992, p. 105). È del 1960 la prima raccolta poetica in tursitano, ’A terra d’u ricorde: «Questo idioma, arcaico negli aspetti fonici come nel lessico, si presta mirabilmente ad esprimere gli stati d’animo del poeta, volutamente ricondotti a una dimensione elementare e primitiva» (A. Pierro, Pierro Albino, cit., p. 272). La «parlèta frisca di paìse» diventa nei versi di Pierro «ultima lingua della poesia romanza» (Folena). A giusta causa i più autorevoli critici delle patrie lettere si occupano della poesia di Pierro (si veda la bibliografia), mentre i versi tursitani sono tradotti nelle più svariate lingue del mondo (francese, inglese, tedesco, svedese, persiano, arabo, neogreco, portoghese, spagnolo).

Negli anni Ottanta arrivano i primi riconoscimenti ufficiali e l’Università schiude le sue porte al poeta lucano. Nel 1985 viene invitato dall’Università di Stoccolma ad una lettura di poesie. Nel 1992 l’Università della Basilicata gli conferisce la laurea honoris causa. Nel 1993 la Scuola Normale Superiore di Pisa organizza un incontro con il poeta. Più volte Pierro si avvicina alla vittoria del Nobel, un riconoscimento atteso, ma mancato.

Albino Pierro muore a Roma il 23 marzo 1995.

(Biografia a cura di Mariagrazia Palumbo).



Leonid Afremov Come Together



Si guardaàine citte
   e senza fiète
   i 'nnammurète.
   Avìne ll'occhie ferme
   e brillante,
   ma u tempe ca passàite vacante
   ci ammunzillàite u scure
   e i trimuìzze d'u chiante.


   E tècchete, na vota, come ll'erva
   ca tròvese 'ncastrète nda nu mure,
   nascìvite 'a paròua,
   po n'ata, po cchiù assèi:
   schitte ca tutt'i vote
   assimigghiàite 'a voce
   a na cosa sunnèta
   ca le sìntise 'a notte e ca po tòrnete   
   chiù dèbbua nd' 'a iurnèta.


Sempre ca si lassàine

parìne come ll’ombre

ca ièssene allunghète nd’i mascìe;

si sintìne nu frusce, appizzutàine

‘a  ‘ricchia e si virìne;

e si ‘ampiàite ‘a ‘ucia si truvàine

faccia a faccia nd’u russe d’i matine.


Nu iurne

nun vi sapéra dice si nd’u munne

facì’ fridde o chiuvìte –

‘ssìvite nda na botta

‘a ‘ùcia di menziurne.

Senza ca le sapìne

i ‘nnammurète si tinìne ‘a mène

e aunìte ci natàine nd’ ‘a rise

ca spànnene i campène d’u paìse.

Nun c’èrine cchiù i scannìje;

si sintìne cchiù llègge di nu sante,

facìne i sonne d’i vacantìje

cucchète supre ll’erva e ca le vìrene

u cée e na paùmma

ca si pàssete ‘nnante.


Avìne arrivète a lu punte iuste:

mo si putìna stringe

si putìna vasé

si putìna ‘ntriccè come nd’u foche

i vampe e com’i pacce

putìna chiange rire e suspirè;

ma nun fècere nènte:

stavìne appapagghiète com’ ‘a nive

rusèta d’i muntagne

quanne càlete u sóue e a tutt’i cose

ni scìppete nu lagne.


Chi le sàpete.

Certe si ‘mpauràine

di si scriè tuccànnese cc’u fiète;

i’èrene une cchi ll’ate

‘a mbulla di sapone culurète;

e mbàreche le sapìne

ca dopp’u foche ièssene i lavìne

d’ ‘a cìnnere e ca i pacce

si grìrene tropp’assèi

lle ‘nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune

ci trasète mèi.


Mo nun le sacce addù su’,

si su’ vive o su’ morte,

i ‘nnammurète;

nun sacce si camìnene aunìte

o si u diàue ll’è voste separète.

Nun mbrogghia Die

ca si fècere zang ‘nmenz’ ‘a vie.



Leonid Afremov Waltz




Traduzione:


Si guardavano zitti

e senza fiato

gli innamorati.

Avevano gli occhi fermi

e brillanti,

ma il tempo che passava vuoto

vi ammucchiava il buio

e i tremiti del pianto.


Ed eccoti, una volta, come l’erba

che trovi incastrata in un muro,

nacque la parola,

poi un’altra, poi altre ancora:

solo che tutte le volte

rassomigliava la voce

a una cosa sognata

che sentivi la notte e che poi torna

più debole durante la giornata.


Si lasciavano in continuazione,

sembravano come le ombre

che escono allungate nelle stregonerie;

se sentivano un rumore, aguzzavano

l’orecchio e si vedevano;

e se lampeggiava la luce si trovavano

faccia a faccia nel rosso dei mattini.


Un giorno

non vi saprei dire se nel mondo

facesse freddo o piovesse

uscì di colpo

la luce di mezzogiorno.

Senza che lo sapessero,

gli innamorati si tenevano per mano

e insieme nuotavano nel sorriso

che spandono le campane del paese.

Non c’erano più angosce;

si sentivano più leggeri di un santo,

facevano i sogni delle vergini

coricate sull’erba e che vedono

il cielo e una colomba

che gli passa davanti.


Erano arrivati al punto giusto:

adesso si potevano stringere,

si potevano baciare,

si potevano intrecciare come le vampe

nel fuoco e come i pazzi

potevano piangere ridere e sospirare;

ma non fecero niente;

stavano assorti come la neve

rosata delle montagne

quando il sole tramonta e a tutte le cose

strappa un lamento.


Chi lo sa.

Certo s’impaurivano

di scomparire toccandosi col fiato;

erano l’uno per l’altro

la bolla di sapone colorata;

e forse lo sapevano

che dopo il fuoco escono torrenti

di cenere e che i pazzi,

se gridano troppo,

li chiudono per sempre dove nessuno

oserebbe mai entrare.


Adesso non lo so dove sono,

se sono vivi o sono morti,

gli innamorati;

non so se camminano insieme

o se il diavolo li ha voluti separati.

Dio non voglia


che siano divenuti fango nella strada.