“Il desiderio è un tentativo di
svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di farlo esistere come
pura carne; è un tentativo di incarnazione
del corpo dell’altro. Solo in questo senso le carezze sono appropriazione del
corpo dell’altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello
sfiorare e toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente
desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come gli
sguardi, e non potrebbero rendermi
padrone dell’altro. Si sa quanto sia insufficiente la famosa frase: «Contatto
di due epidermidi». La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la può
ridurre a semplice contatti, e allora vien meno al suo significato. Perché la
carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare.
Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le
mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro. Ma, si può
obbiettare, non era forse già incarnato? No.
La carne dell’altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il
corpo dell’altro in situazione; non esisteva per lui verso le sue possibilità e
verso l’oggetto. La carezza fa nascere l’altro come carne per me e per lui. E
con carne, intendiamo una parte del
corpo, cioè il derma, tessuto connettivo, e, precisamente, epidermide: non si
tratta più necessariamente del corpo «in riposo» o addormentato, benché spesso
è così che rivela meglio la sua carne. Ma la carezza rivela la carne spogliando
il corpo della sua azione, scindendolo dalle possibilità che lo circondano: è
fatta per scoprire sotto l’atto la trama dell’inerzia cioè il puro «essere-là»
- che lo sostiene: per esempio, prendendo
e carezzando la mano dell’altro
io scopro, sotto la presa, che la
mano è, prima di tutto, una massa
estesa di carne e di ossa che può essere presa; e, similmente, il mio sguardo
carezza, quando scopre, sotto il salto delle gambe della danzatrice – che esse
sono per prima cosa – la forma lunata delle cosce. Così la carezza non si
distingue per nulla dal desiderio; carezzare con gli occhi o desiderare è la
stessa cosa; il desiderio si esprime con
la carezza come il pensiero con il linguaggio ”.
(J. P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 451-452).
“Odio quelle che sanno. ed io per
me
non la vorrei una che ha troppo
ingegno
e più di quanto conviene a una
donna.
Le male arti Cipride le insegna
più che ad altre alle femmine
sapute.
Una donna che è a corto di
raggiri
ed ha poco cervello, è salva
sempre
dalla furia dei sensi”.
(Euripide, Ippolito, 640-647).
“Never play cards with a man called Doc. Never eat at a place called Mom's. Never sleep with a woman whose troubles are worse than your own”.
“Non giocare mai a carte con un
uomo chiamato Doc, non mangiare mai in un posto chiamato 'da Mamma' e non
andare mai a letto con chiunque abbia più problemi di quanti ne abbia tu”.
(Nelson Algren, A Walk on the
Wild Side, 1956).
E chi l’avrebbe mai immaginato,
chi poteva pensare che dietro quegli occhi azzurri, dietro il suo sguardo
limpido, dietro quei capelli divisi da una riga in mezzo e raccolti in due
lunghi rivoli in uno chignon sopra la testa, dietro quei sorrisi da gatta
intelligente, dietro le camicette e i maglioncini alti che niente lasciavano
intravedere e lasciavano invece tutto all’immaginazione, dietro quei vestiti
sobri ed eleganti, paludata in grigi tailleur castigatissimi che le davano
l’aria di eterna militante, ci fosse un culo di straordinaria bellezza.
Simone De Beauvoir era
indubbiamente una donna di una bellezza eccezionale, ma quando pensavi a lei,
quando la incontravi, quando parlavi con lei, quando la ascoltavi da qualche
parte o quando la leggevi nei suoi scritti, ciò che balzava all’occhio era ben
altro: il suo impegno, il suo acume, la sua intelligenza, la sua prosa e il suo
eloquio scorrevoli, il suo spessore di scrittrice e di donna, la sua lotta
femminista, il suo cipiglio battagliero…non è che non ci fosse la donna in lei,
solo che il suo essere donna era celato accuratamente dietro il suo essere
scrittrice, non che non avesse passioni, ma le sue passioni più evidenti erano
profuse nella sua lotta femminista, nel suo impegno per la libertà, nelle sue
dichiarazioni politiche ed erano infuse nero su bianco sulla pagina stampata.
Mi erano piaciuti moltissimo i
primi suoi libri che lessi molti anni fa: Memorie
di una ragazza perbene e Il secondo
sesso, ma mi avevano lasciato l’impressione che fossero stati scritti più
con la mente che col cuore, erano molto … troppo … cerebrali e razionali, le
emozioni guardate in vitro, come l’entomologo osserva la sua collezione di
coleotteri appesi per lo spillo uno ad uno in una superficie piana, sembrava
insomma quel tipo di scrittrice che riesce a vivere i propri sentimenti solo
sulla carta, solo attraverso la penna, solo creando un mondo immaginario, solo
per l’interposta persona dei suoi personaggi, solo bevendo avidamente le
impressioni che i lettori dei suoi scritti manifestavano.
Mi sbagliavo, quando su suggerimento di una mia cara amica
che adora Simone de Beauvoir ho letto la trilogia I mandarini, America day by
day e La forza delle cose sono
stato invaso dai sentimenti, Simone si scaglia a capofitto nella trama di
queste opere superbe, c’è la sua vita in quelle parole, non solo le sue
emozioni, anzi queste sono così profonde, così sentite, così feroci, che deve
attenuarne l’impatto prima a se stessa e poi al lettore, per rendere i suoi
romanzi leggibili, gradevoli, non aggressivi, c’è tutto il suo amore per la
vita, per ciò in cui ha creduto, per i soli due uomini che ha amato con
l’intensità sconfinata.
Nonostante i suoi numerosi
amanti, nonostante abbia suscitato degli odi feroci in alcuni di loro, non c’è
stata alcuna indiscrezione circa l’aspetto fisico di Simone, non sappiamo
niente del suo culo, di come era fatto, perché nessuno ha avuto l’audacia di
parlarcene; però in compenso abbiamo alcune foto di lei completamente nuda.
Nel gennaio del 2008 Le Nouvel Observateur pubblicò in copertina
una foto di una donna nuda, di spalle, davanti a uno specchio, la didascalia
diceva che quella foto, insieme ad altre, era stata scattata nel 1952 da un
certo Art Shay, all’epoca fotografo
per Life Magazine, e la modella era
indubbiamente Simone de Beauvoir all’età di 44 anni.
Ora, come fu possibile che un
fotografo americano, il cui nome non ci dice niente, ma che era molto famoso in
patria per aver immortalato Cassius Klay,
Marlon Brando, John Fitzgerald Kennedy, Elizabeth
Taylor, i più grandi assi dello sport, molti politici, attori, persone di
spettacolo famose e reso testimonianza fotografica di com’era la vita e di
com’erano le persone nei primi anni del dopoguerra in America e soprattutto a
Chicago, fotografare nuda una donna di fama mondiale che aveva avuto successo
più per la sua mente che per il suo corpo?
E come fu possibile che pur
avendo Art Shay in mano delle foto che erano autentiche bombe, che qualsiasi
rivista avrebbe pagato a peso d’oro, che lo avrebbero consacrato come uno dei
più grandi fotoreporter scandalistici e di costume, venissero pubblicate solo
56 anni dopo essere state scattate, quando Simone era già morta da 22 anni?
Il fatto lo raccontò lo stesso
Art Shay, vecchietto quasi novantenne, ai giornalisti del Nouvel Observateur, Simone de Beauvoir era negli USA per
incontrarsi col suo amante Nelson Algren
(tenete in mente questo nome, perché è uno dei due uomini che Simone abbia
amato veramente e profondamente e della loro storia ne riparlerò più avanti),
uno scrittore che aveva qualche successo di critica, ma stentava a decollare
nelle vendite.
Le finanze di Algren erano molto
limitate, tanto da potersi permettere, per accogliere la sua amante a Chicago,
soltanto una stanza d’albergo da dieci dollari a notte senza vasca né doccia;
dal momento che per la donna la toilette giornaliera era molto importante,
Nelson pensò di rivolgersi al suo amico fotografo Art, il quale chiese ad una
sua amica di prestargli l’appartamento dotato di tutti i sanitari necessari.
Quando Simone giunse in città, fu
lui ad accompagnarla personalmente nell’appartamento vuoto dell’amica, qui la
scrittrice, noncurante della presenza dello sconosciuto, si spogliò
completamente nuda, stette per un po’ a guardarsi allo specchio con attenzione,
come tendono a fare le donne non più giovani per controllare l’azione di usura
che il tempo ha inferto alla loro bellezza, e non smettono di guardarsi se non
dopo essersi autoassolte e aver ritrovato quella sicurezza in se stesse che ti
da uno sguardo autocompiaciuto, prima di entrare in acqua.
Cosa fa un tizio che si trova suo
malgrado e inaspettatamente in una situazione di questo genere? Se è un gentiluomo
saluta e va via. Se è solo un uomo di carne ed ossa si arrabbia per essere
ignorato fino a tal punto da fare come se lui non ci fosse, o ci prova, e
questo Shay non poteva farlo perché era amico di Nelson, l’amante della signora
nuda li presente, tanto amico da non pubblicare mai le foto se non dopo la
morte dell’amico e della stessa signora. Se è un fotografo, invece, è più forte
di lui, scatta delle fotografie; chiedergli di non farlo sarebbe come pensare
di far mangiare l’insalata al gatto.
Ma la cosa sorprendente non è che
un fotografo in una situazione come quella abbia scattato delle foto,
l’occasione era troppo ghiotta per farsela scappare, poi magari non le
pubblichi, ma vuoi mettere andare a dormire ogni notte sapendo che hai delle
foto che sono dinamite nel cassetto del tuo comodino? La sorpresa fu la
reazione di Simone quando sentì i click degli scatti (e le macchine
fotografiche di una volta erano molto più rumorose); voi credete che si sia
infuriata? Che abbia avuto una reazione violenta? Che abbia almeno preteso di
avere il rullino della macchina? Niente di tutto ciò, si limitò a commentare:
“Vous etes un vilain garçon” (Siete un giovane maleducato).
La pubblicazione del nudo della
de Beauvoir nel 2008 suscitò molto scandalo, l’associazione femminista francese
“Les Chiennes de garde” (Le cagne da guardia) insorse contro l’uso del corpo
nudo della defunta scrittrice, accusarono il giornale di sessismo e
ribattezzarono la rivista col nome di Le
Nouvel Voyeur.
In effetti le femministe non hanno
tutti i torti, la donna è stata sempre nelle culture patriarcali ridotta a
corpo nudo da desiderare, o a corpo che si riproduce, o a corpo che fa tutti i
lavori umili che un uomo non vuole fare, o a corpo che si sottomette al volere
dell’uomo.
Molto spesso anche nell’arte e
nell’iconografia la donna viene raffigurata nuda e l’uomo vestito, pensate all’opera
di Manet Le
déjeuner sur l'herbe in cui le donne sono nude e gli uomini vestiti, e
pensate anche che nelle sterminate piantagioni di cotone della Georgia o della
Louisiana i padroni erano vestiti e gli schiavi seminudi, pensate che nelle
risaie del vercellese o del mantovano c’era il sciur padrun da li béli braghi bianchi e le mondine seminude che
sguazzavano con le gambe nell’acqua, pensate all’uomo civilizzato vestito e
calzato di tutto punto e al selvaggio completamente nudo e privo di ogni umano
pudore.
Quando la stessa Simone de
Beauvoir pubblicò il Secondo sesso ci
fu una protesta popolare, in molti anche dagli spalti di sinistra si
scagliarono come una saetta contro di lei, persino Camus scrisse con sarcasmo che “ridicolizzava il maschio francese”,
e la insultavano per strada o nei locali che frequentava.
Un giorno al caffè Les Deux Magots, a
Saint-Germain-des-Prés, mentre seduta proprio dietro le due statue dei
mandarini cinesi era intervistata dal regista Raymond Queneau, venne interrotta mentre parlava da alcune decine
di studenti dell’École nationale
supérieure des beaux-arts che l’avevano riconosciuta: in piedi sopra i
tavoli cominciarono ad urlarle: ”Nuda! Nuda!”, con buona pace del bon sauvage di Rousseau o del Candide di
Voltaire... è la migliore dimostrazione dei nostri antenati scimmieschi, mancava solo l'urlo di Tarzan, che si arruffassero i peli e i capelli, che si battessero il petto con i pugni e che si rotolassero per terra nella polvere.
Ridurre l’uomo alla nudità
significa umiliarlo, nudo era infatti l’imputato davanti ai giudici
dell’Inquisizione, significa ridurlo ad uno stato di inferiorità, significa zittirlo,
renderlo innocuo, significa rappresentarselo come possibile preda dei propri
desideri sessuali, significa intendere che quell’individuo si situa ai nostri
occhi ad uno stato di civilizzazione e di sviluppo molto arretrati rispetto a
noi.
Il femminismo oggi, inteso come
veniva propagandato negli anni 70, come lotta ad oltranza contro ogni sessismo
e ogni mancanza di rispetto per la donna, non gode di buona salute, e non tanto
perché il sessismo o la mancanza di rispetto per la donna siano stati dimenticati,
seppure esiste un rigurgito del più bieco maschilismo che alza la testa e cerca
una qualche approvazione anche al di fuori del Bar dello Sport, ma per
l’oltranzismo affine ad ogni fanatismo.
Per una sorta di contrapposizione
storica e dialettica ad ogni posizione, per quanto giusta, che si irrigidisce in
integralismi e in fondamentalismi, sorgono qui e la fenomeni di rifiuto
altrettanto rigidi, come il caso di Costanza
Miriano, che nel 2011 ha pubblicato Sposati
e sii sottomessa, e quello di Peggy Sastre che in Francia nel 2009 ha
pubblicato il saggio Ex Utero. Pour en
finir avec le fémisisme (Ex utero. Per farla finita col femminismo), in
entrambi i casi si propagano tesi antifemministe per il “bene” della donna.
A noi qui interessa il capitolo Diventare delle non-donne del libro
della giovane e brillante saggista francese, perché è qui che lei affronta la querelle sorta intorno al nudo di Simone
pubblicato da Le Nouvel Observateur e
criticato dalle femministe.
Ella scrive in tal proposito: “Se
un’immagine non potrà mai essere eloquente come un testo, un testo che racconta
la storia di un’immagine permette di leggere quell’immagine in modo
differente”. E poi, più avanti: “Era sì filosofa, donna di lettere e di
politica, ma Simone de Beauvoir nel 1952 era anche una donna di grande
sensualità, era una donna di quarantaquattro anni innamorata di un uomo con cui
era ben felice di andare a letto, seducente, seduttrice e assai poco pudica”.
Insomma, un’immagine non è mai
scandalosa in sé, può diventare scandalosa l’interpretazione di quell’immagine,
e poi aggiunge che la de Beauvoir ha dimostrato più volte di essere una donna
poco pudica, incurante di spogliarsi davanti ad uno sconosciuto e di uscire in
passeggiata per la città lei e Nelson completamente nudi, fregandosene di ciò
che pensava di loro la gente che incontravano, come ha raccontato nella sua
intervista il fotografo Shay.
E in fondo, non è stata una donna
dai molti amanti, ed anche dalle molte amanti di sesso femminile? Non ha
scambiato le sue amanti donne con il suo amante Jean Paul Sartre, in quel
momento in cui la foto fu scattata non era in una camera d’albergo da dieci
dollari a notte esposta agli sguardi e all’obiettivo di uno sconosciuto, non
stava per incontrarsi col suo amante Nelson, sposato a sua volta con Amanda,
mentre lei era la compagna di Jean Paul, che la tradiva con Olga e con tante
altre?
Difficile in questo caso
scandalizzarsi per una foto osé, forse Simone con la sua intelligenza avrebbe
apprezzato molto di più delle femministe che si ritenevano sue allieve quella
sfrontata pubblicazione delle sue foto nuda.
Io non so se Simone avrebbe
apprezzato, non credo, e non credo nemmeno che non fosse una donna pudica, in
fondo era nata nel 1908, era stata educata in una famiglia borghese e
cattolica, lei stessa ci narra i suoi imbarazzi in fatto di sesso e come per le
prime esperienze sessuali abbia dovuto superare i rigidi insegnamenti religiosi
che le avevano impartito e che nonostante la sua ribellione e il precoce
rifiuto fossero rimaste molto presenti in lei.
Simone era una donna che sapeva
arrossire, molte testimonianze diverse raccontano il suo rossore in momenti
particolari, e ne parlano come un evento inatteso in una donna considerata
molto forte e sicura di sé; Claudine
Monteil, femminista francese che conobbe Simone, dice di averla vista
chiudere gli occhi per una strano forma di pudore in occasione della proiezione
di un film propagandistico della femminista americana Carol Downer, che in quel momento era stata invitata a Parigi.
La Downer sosteneva, giustamente,
che il maschio conosce bene il suo organo sessuale, mentre molte donne, per la
sua posizione non l’hanno mai visto, non lo conoscono, non ne hanno alcuna
confidenza, e devono affidarsi a qualcun altro per sapere come sono fatte,
spesso i loro mariti e i loro ginecologi ne sapevano più di loro stesse, ed
esortava le donne a fare un semplice esercizio in cui introduceva nella propria
vagina uno speculum di plastica e la osservava dall’esterno aiutandosi con uno
specchio ed una torcia elettrica.
Questo era filmato dalla Downer,
e Simone de Beauvoir per ogni speculum che vedeva introdurre nella vagina
chiudeva gli occhi nel buio della sala di proiezione, e cercava di fare in modo
che questo suo senso di vergogna non venisse notato, come poteva una che ha
descritto accuratamente la condizione della donne provare imbarazzo per un
gesto così naturale in una donna?
Ma in lei coabitava anche la
Simone che aveva accettato la coppia aperta propostale da Sartre, che si era
fatta sospendere dall’insegnamento perché accusata di andare a letto con
un’allieva minorenne, che ha avuto molti amanti, tutti pubblicamente, senza
nascondersi, e molti di loro era tanto più giovani di lei.
Forse quando entrano in ballo le
opposte ideologie perdiamo di vista la cosa più importante: che in fondo un
culo è solo un culo, non un totem né un tabù, può essere bello, grazioso,
delizioso, simpatico, o brutto, insipido, stolido, insignificante, cellulitico,
piccolo o grosso, ma in sé e per sé è solo un fatto estetico, non aggiunge e
non toglie niente allo spessore e alla dignità di una donna.
Tempo fa un amico giornalista mi
invitò in qualità di esperto ad un dibattito televisivo presso una tv locale,
fate conto Antenna 3, Tele Nord Est o Tele Condominio, ad intervenire sul tema
della famiglia. “Ma io sono un terapeuta di coppia” obietto, lui non si da per
inteso e replica: “Coppia … famiglia … che differenza fa? Una famiglia non è
una coppia con figli?”, “Non esattamente” ribatto “le dinamiche psichiche della
famiglia sono diverse da quelle della coppia”. “Bene”, dice lui “allora chiamo Mario Adinolfi, e se non è disponibile
lui chiamo don Luigi ‘ostregheta’”.
“Ok” gli dico, “mi hai convinto,
non vedo l’ora di andare in onda”. In genere si tratta di puntate registrate,
non siamo in diretta, quindi possono tagliare, copiare, incollare come vogliono
loro, ma questa trasmissione va in diretta, quindi ogni cazzata che dici non si
può più fermare e si propagherà all’infinito per l’etere … più repliche.
Sono presenti la mamma casalinga,
c’è n’è ancora qualcuna in giro e non tutti gli esemplari sono conservati in
una teca del museo, c’è la mamma che lavora, la coppietta che sta per sposarsi,
c’è il marito separato a cui la moglie perfida non fa vedere i figli e glieli
ha essi contro, don Luigi ‘ostregheta’ non si poteva non invitarlo, la voce di
dio è importante e chiamarlo in interurbana dalla Terra sarebbe costato uno
sproposito, c’è il mio amico giornalista e c’è la starlette in promozione, non
per fare nomi, ma fate conto Katia
Noventa … ma forse esagero, era solo Ottenta … o anche meno, bella, alta,
magra, giovane, slanciata, prosperosa … “na fagottata de roba” come avrebbe detto
Alberto Sordi, che mostrava a tutti
il suo gran talento, incartato da una minigonna mozzafiato, esaltato da tacchi
proibitivamente alti e fasciato da una succinta e scollata camicetta che
tratteneva a stento due meloni zuccherini. Di tanto in tanto si girava sulla
poltrona per mostrare un profilo diverso e quando accavallava le gambe con
grazia si vedeva all’improvviso tutta Venezia e la laguna, isole comprese.
Qualche ingenuo crede ancora che
stare vicini a Katia Noventa (che non era proprio Katia Noventa, era un’altra,
solo che non farò il suo nome, non tanto per rispettare la sua privacy, perché
si tratta di una pubblica trasmissione, ma perché così chi ha visto quella
trasmissione non può risalire così al mio di nome), così s-vestita e così
atteggiata sia un’esperienza con-turbante, che ci si possa inebriare alla vista
di tuttavenezia, laguna e isole
comprese di una bella show girl, in fondo è la replica di Basic Instint.
Vi dirò, io di Venezie, lagune e
isole ne ho già viste qualcuna, questo non vuol certo dire che mi sono
assuefatto a quella vista come un ginecologo, ma nemmeno che io abbia le stesse
reazioni del Piccolo diavolo di Benigni; credo che molte reazioni che
consideriamo spontanee e istintuali dipendano dalle persone e dai contesti.
Ormai il nudo è talmente diffuso
nella pubblicità che non ci facciamo neanche caso, non è più così efficace come
messaggio che reclamizza un prodotto, lo era nei decenni scorsi, quando i
parametri del pudore erano diversi e si stava passando da una cultura più
morigerata ad una più liberale e la pelle femminile guadagnava centimetri di
libertà e di visibilità di anno in anno, oggi non saprei più cos’altro potremmo
mettere a nudo ancora.
Facciamo solo finta di
scandalizzarci per la farfallina di Belen,
per “la tiengo como todas” della Pausini
o per le gambe di Giulia Salemi al
festival di Venezia, però poi le nostre figlie e le nostre nipoti in giro con
le mini shorts non ci disturbano affatto, roba che la Belen in compenso sembra
una suora di clausura.
Il fatto è che i nostri sensi e
il nostro cervello non sono sensibili tanto all’intensità in sé di uno stimolo,
ma alla variazione di intensità, in sostanza non percepiamo o pensiamo una cosa
solo perché questa cosa si manifesta con una certa potenza, ma la percepiamo
perché rappresenta una variazione rispetto allo sfondo, a ciò che c’era prima,
al contesto.
Se mi trovo in una spiaggia il
nudo di una bella donna non mi farà lo stesso effetto della stessa donna nuda
su mio letto di notte, e anche mia moglie (se ne avessi una) la pensa allo
stesso modo: mi permette di guardare tutte quelle belle signorine in bikini
mentre siamo in spiaggia, senza replicare, mentre prenderebbe certamente il
mattarello calibro 12, quello per fare le lasagne, se trovasse nel mio letto
una di quelle signorine.
Quante immagini di donne nude
campeggiano nei tabloid senza che noi ribattiamo a coppe? Forse che il culo
della de Beauvoir è più oltraggioso e più irrispettoso che pubblicare il culo
di Belen? Perché abbiamo un fremito di irritazione nel vedere l’immagine nuda
di Simone e rimaniamo indifferenti nel vedere quella di Belen?
Se Katia Noventa in uno studio
televisivo fa il suo piccolo show e mostra tuttavenezia
è nel suo personaggio, quasi te lo aspetti, mi avrebbe stupito di più se fosse
venuta in tailleur e scarpe col tacco basso, se, invece, una suora
improvvisamente si spogliasse o si muovesse in modo sexy attirerebbe tutti gli
sguardi.
Ma lo sapete qual è in assoluto
la categoria di persone più guardata nei canali porno? Le “beurettes”! Ok, potete fare finta di non saperlo, perché il
mattarello calibro 12 è sempre puntato sulla vostra testa e come vi muovete vi
fulmina, ve lo dico io: sono donne giovani di origine maghrebina, alcune anche
col velo perché musulmane, che interpretano scene porno.
Cosa attira di più il maschio occidentale
nel vedere queste donne? Non sempre è la bellezza, o particolari doti erotiche
celebrate dai nostri migliori cantanti … i desideri mitici di prostitute
libiche … o l’imitazione del leader che “scuncica” le celeberrime nipoti di
Mubarak, è l’atto di coprirsi il corpo e le zone erogene, è il velo che copre,
occulta, nasconde, lascia intravedere e scopre di schianto, è l’apparire e lo
sparire che rende appetibile l’oggetto del desiderio, non l’oggetto in sé.
È in ciò che si riduce la
seduzione, nell’esserci e nel non esserci, nell’essere e nel nulla, nel fatto
che un oggetto, una cosa o una persona possa venire a mancare, ciò che è sempre
nostro, ciò che è definitivamente nostro, ciò che è perennemente visibile non
lo desideriamo più, ma basta che possiamo dubitare del nostro possesso, basta
che sparisca anche solo un istante dalla
nostra vista che proviamo un sentimento di struggente mancanza, come se
fosse appena morta la parte migliore di noi.
E il gioco lo afferriamo subito,
agli albori della nostra vita, una volta ricordo che le mamme giocavano ancora
con il loro bambini al gioco de cucù,
nascondevano il loro viso con le mani e poi lo scoprivano di botto esclamando appunto
cucù e sorridendo, allora anche il bambino esplodeva in gorgogli di sorriso e
si agitava tutto, lieto che sua mamma non era sparita.
Oggi soltanto gli psicologi dello
sviluppo, quelli che hanno a che fare con i bambini, usano il gioco del cucù,
ma siccome sono americani lo chiamano peekaboo,
e chi osserva le interazioni madre-bambino e le reciproche auto e
eco-regolazioni emotive e comportamentali ha sviluppato un paradigma di ricerca
chiamato Still Face che prevede tre momenti per valutare la sensibilità di un
bambino ai cambiamenti che intervengono nel comportamento della madre: 1) un’interazione
sociale faccia a faccia con la madre, spontanea; 2) un episodio di volto
immobile (still face), in cui la madre con il volto fermo e impassibile non
risponde al bambino in alcun modo; 3) e un episodio di ricongiungimento in cui
si ripristina l’interazione sociale faccia a faccia con la madre.
Ma è Freud, come il solito, ad
aprire le danze sulla questione dell’apparire e dello sparire mentre, inattivo
e senza pazienti a causa della Prima Guerra Mondiale, aiuta la figlia
prediletta Sophie a tenere il figlio di questa Ernst, ed è straordinario ciò
che egli ricava da questa esperienza col nipotino:
«... ho sfruttato un’occasione
che mi si è offerta per chiarire il significato del primo giuoco che un bambino
di un anno e mezzo si è inventato da sé. Si è trattato di qualcosa di più di
una fuggevole osservazione, perché sono vissuto per alcune settimane sotto lo
stesso tetto del bambino e dei suoi genitori, ed è passato un certo tempo prima
che riuscissi a scoprire il significato della misteriosa attività che egli
ripeteva continuamente.
Lo sviluppo intellettuale del
bambino non era affatto precoce; a un anno e mezzo sapeva pronunciare solo
poche parole comprensibili e disponeva inoltre di parecchi suoni il cui
significato veniva compreso dalle persone che vivevano intorno a lui. In ogni
modo era in buoni rapporti con i genitori e con la loro unica domestica, ed era
elogiato per il suo “buon” carattere. Non disturbava i genitori di notte,
ubbidiva coscienziosamente agli ordini di non toccare certi oggetti e non
andare in certe stanze, e, soprattutto, non piangeva mai quando la mamma lo
lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che
non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza
alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta
disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un
angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui
riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era
talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o”
forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e
soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo
suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi
accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi
giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione
che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a
cui era avvolto un filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per
terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a
cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la
cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso
il suo espressivo “o-o-o-“; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto,
e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il
giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di
norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a se stante,
anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto1.
L’interpretazione del giuoco
divenne dunque ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà
raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al
soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la
madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa
rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparir e del riapparire avvalendosi
degli oggetti che riusciva a raggiungere. È ovvio che per dare una valutazione
del significato affettivo di questo giuoco non ha importanza sapere se il
bambino lo aveva inventato da sé o se esso gli era stato suggerito da altri. Il
nostro interesse è diretto ad un altro punto. È impossibile che l’andar via
della madre riuscisse gradevole, o anche soltanto indifferente al bambino. Come
può dunque accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di
giuoco di questa penosa esperienza? Forse si risponderà che l’andarsene doveva
essere necessariamente rappresentato, come condizione che prelude alla
piacevole ricomparsa, e che in quest’ultima risiedeva il vero scopo del giuoco.
Ma questa interpretazione sarebbe contraddetta dall’osservazione che il primo
atto, l’andarsene, era inscenato come giuoco a sé stante, e anzi si verificava
incomparabilmente più spesso che non la rappresentazione completa, con il suo
piacevole finale.
L’analisi di un caso singolo come
questo non permette di formulare un giudizio sicuro e definitivo; se si
considera la cosa in modo imparziale, si ha l’impressione che il bambino avesse
trasformato questa esperienza in un giuoco per un altro motivo. All’inizio era
stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza,
che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva la
parte attiva. Questi sforzi potrebbero essere ricondotti a una pulsione di
appropriazione che si rende indipendente dal fatto che il ricordo in sé sia
piacevole o meno. Ma si può anche tentare un’interpretazione diversa. L’atto di
gettare via l’oggetto, in modo da farlo sparire, potrebbe costituire il
soddisfacimento di un impulso che il bambino ha represso nella vita reale,
l’impulso di vendicarsi della madre che se n’è andata; in questo caso avrebbe
il senso di una sfida: “Benissimo,vattene pure, non ho bisogno di te, sono io che
ti mando via”. (Sigmund Freud, 1920, Al di là del principio del piacere, in
Opere, Boringhieri, Torino, vol. 9, p. 200-202).