venerdì 14 dicembre 2018

BOCCA BACIATA 1








Niente di ciò che leggerete è vero, è tutto frutto della mia fantasia, che qualcuno possa credere di riconoscervisi è dovuto in genere al fatto che spesso crediamo che gli scrittori e le stelle parlino di noi, mentre gli scrittori parlano solo e sempre di se stessi e le stelle parlano solo fra di loro; se qualcuno credesse che questa possa essere una storia vera accaduta da qualche parte a persone vere, a cui lui ha assistito o che gli hanno raccontato, si sbaglia, le storie e le persone si somigliano tutte, qualche filosofo e qualche religioso è giunto a pensare che in realtà tutti gli individui non siamo altro che manifestazioni di un’unica entità.

Io ho vissuto per tutta la vita in un deserto dell’Anatolia, non so niente di ciò che è successo e succede nel mondo, le storie me le porta il vento che agita la sabbia, impigliate fra i cespugli secchi, da quando Babbo Natale mi ha portato un pc, mi sono collegato alla rete cosmica e traduco le storie in parole, prima che il vento le trascini via.










“Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna”. (Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata Seconda, VII).











“S’ei piace, ei lice”. (Torquato Tasso – Aminta, 1583, Atto primo, Choro).









L’asfalto era rovente, erano circa le due del pomeriggio di una caldissima giornata di giugno, un vento di ponente molto secco mi asciugava tutti i liquidi corporei, non un filo di sudore, l’umore acqueo nell’occhio completamente secco, si inaridiva prima ancora di formarsi, il riverbero che creava la luce del sole sulla strada fastidioso e accecante, tenevo gli occhi a fessura orizzontale, come un tibetano, non amo molto gli occhiali da sole, perché mi costringono a vedere il mondo molto più scuro di quello che è, ma in quell’occasione li avrei voluti volentieri.

Stavo andando a casa mia a pranzare e tornavo dalla casa al mare in cui si era trasferita Marina, la mia ragazza di allora, con tutta la sua famiglia; avevamo trascorso l’intera mattinata in spiaggia io e lei da soli, senza amici o parenti fra le scatole, mi piaceva perdermi nei suoi occhi, scaldarmi con i suoi abbracci infuocati dal sole che lambiva la sua pelle, mi piaceva vederla uscire grondante dall’acqua come una dea ellenica che emerge dalla spuma del mare, mi piaceva il suo sorriso malizioso quando si accorgeva che la stavo accarezzando con gli occhi, prima che con le mani, con la scusa di porgerle il telo.

Marina era alta all’incirca quanto me, un metro e settanta o poco più, aveva dei foltissimi capelli castani che d’estate tendevano al biondo, lunghi e ricci, molto profumati non so se per lo shampoo che usava o se metteva qualche goccia di colonia, che era un piacere accarezzare, afferrarglieli da ambo i lati strettamente per avvicinare la sua bocca alla mia e baciarla.

Baciava divinamente, all’inizio mi era parso strano quel suo modo di farlo, avvicinava le sue labbra alle mie e le scioglieva in uno dei baci più dolci, più soavi e più teneri che io abbia mai avuto, poi succhiava ripetutamente le mie labbra ed anche la lingua, con piccoli succhiotti deliziosi, sembrava che mi assaggiasse, bastava soltanto uno dei suoi baci per farmi entrare in uno stato di beatitudine infinita, non era facile ogni volta staccarmi da lei o aspettare che fossimo da soli.

Anche i suoi occhi erano castani ed aveva uno sguardo intelligente, ora dolce ora tagliente come una falce, che mi aveva fatto innamorare fin dal primo momento in cui l’avevo vista; il suo corpo poi era prorompente, le sue curve, il suo seno, i suoi fianchi e il suo culo, imperiosi, sodi, cedrigni, come talvolta accade solo in alcune ragazze adolescenti, che diventano donne bellissime quando fioriscono e le loro linee si ammorbidiscono un po’, sembravano voler uscire dai vestiti, premendoli e gonfiandoli fino a mettere alla prova la loro elasticità, ed imporsi in ogni momento al mio sguardo. 

Ivan, il suo fratellino più piccolo, che avevo soprannominato Willy il Camorrista per quella sua aria circospetta con cui guardava chiunque e per gli sguardi sbiechi, in tralice, che mi lanciava di tento in tanto, come chi avesse sempre qualcosa da nascondere e temesse continuamente di essere scoperto, sostanzialmente mi ignorava.

Quelle poche volte che mi prestava una qualche forma di attenzione era quando  mi guardava perplesso come se non capisse cosa ci trovassi di così straordinario in quella stupida di sua sorella e subito dopo smorfiava come se volesse rassicurarsi che a lui non sarebbe mai successa una cosa simile, di prestare così tanta attenzione ad una donna cioè.









Il padre, Salvatore (detto Turi) ci teneva a sembrare moderno, era cordiale così come poteva essere un pescecane che finge di essere un delfino che intende giocare con te, o un poliziotto infiltrato che è in procinto di arrestare un pezzo grosso, ma il suo sguardo era piuttosto eloquente e diceva una sola cosa: bada bene stronzetto, perché tutto ciò che farai alla mia piccola, io lo farò a te!

Per lui sua figlia, nonostante i quasi 17 anni era ancora una bambina, la sua piccola, l’unica figlia femmina in casa, la pupilla dei suoi occhi, l’endocardio del suo cuore, magari un giorno l’avrebbe persa per seguire l’uomo della sua vita, ma era ancora troppo presto per questo ed era presto anche per fare certe cose, e questi giovanotti che sembrano tanto beneducati, di buona famiglia, sono i più pericolosi, perché sono quelli che fanno innamorare le bambine: attento a te, stronzetto beneducato, perché tutto ciò che farai alla mia bambina io lo farò a te!

Non volendo apparire il padre padrone, quello all’antica, non ci seguitava  dietro in ogni nostro passo, ma i suoi occhi da sbirro ci scrutavano come un furetto, e cercavano di scongiurare ciò che più temeva, cioè che io, con quella faccetta rassicurante da bravo ragazzo, profanassi anzitempo l’ingenuità e il candore della sua bambina: poveretto, non potevamo certo dirgli che ciò che più temeva era già successo, ed era successo con una naturalezza che ci aveva stupiti entrambi.

La signora Elvira, sua madre era una santa donna, interpretava alla grande il suo ruolo di madre di famiglia e di moglie di un poliziotto, che trascorre i tre mesi estivi nella villetta a schiera all’Arenella, una località balneare poco più a sud di Siracusa, vicina a Fontane Bianche, che è la spiaggia vip della città, costruita in serie di villette vicine tutte uguali in cooperativa con altri poliziotti, una autentica follia: continuare a vedersi in vacanza dopo essersi visti per undici mesi al lavoro, il costringersi a fare tutte le ferie che dio comanda solo e sempre in quella località, da pulire prima di trasferirvisi e da lasciar pulita a fine vacanza.

Dovevo esserle particolarmente simpatico, perché era sempre molto gentile con me, mi offriva sempre il caffè sapendo che mi piaceva molto, e mi invitava a pranzo e a cena ogni volta che se ne offriva l’occasione, nonostante le dicessi sistematicamente di no; solo una volta mi ero fermato a pranzo con loro e mi era bastato, preferivo farmi ogni giorno gli undici chilometri dall’Arenella a casa mia per mangiare e farvi ritorno la sera, perché la signora era una pessima cuoca anzi, non davo loro neanche altri dieci anni di vita se continuavano a mangiare quelle cose, preferivo di gran lunga la cucina fast and furious di mia madre, che poveretta era costretta ad improvvisare all’ultimo momento un buon pasto per me all’ora in cui mi decidevo a rincasare.

“Mi dispiace, signora, a casa mi aspettano per il pranzo”, dicevo con una certa solennità, mentendo spudoratamente perché in realtà non mi aspettava nessuno, ma facendo quasi capire che i miei non prendevano nemmeno la forchetta in mano se prima io non ero seduto a tavola con loro e con le mani lavate; poi aggiungevo malignamente: “Faccia come se avessi accettato!”, che ho sempre considerato una frase che  gronda ipocrisia da tutti i pori, perché che diavolo vuol dire come se avessi accettato, o accetti o rifiuti, ma che tante signore borghesi la prendono come una frase garbata, molto più profonda di un semplice mi dispiace, di un vorrei tanto … ma non posso.

Così, mi trovavo già sulla strada statale, con l’acceleratore a tavoletta, senza casco perché allora non usava, con i capelli e la maglia gonfi di vento, con la testa leggera, e le ruote della vespa che solcavano pesantemente il manto stradale e producevano un rumore più forte del solito, quasi come se il calore del bitume fosse così elevato da sciogliere la superficie delle gomme, che nel riprendere il loro giro, grazie alla potenza del motore, si staccassero dall’asfalto a strappo, come se fossero ventose.









A quell’ora del giorno, col sole a picco in cielo, all’ura ‘o cauru(in piena canicola), non c’era neanche un cane in giro per strada, e chi volevi trovare in un tempo in cui le macchine non avevano il condizionatore, ma al massimo potevi abbassare il vetro girando più volte la manovella?

Anzi no, un cane c’era, un cagnaccio randagio che per mia sfortuna aveva deciso di attraversare la strada proprio in quel momento, proprio in quel punto ed esattamente subito dopo che io sbucavo da una cunetta e fino alla fine non avevo avuto ampia visibilità della strada; andava da sinistra verso destra e la scia d’asfalto solcava dei giardini di limoni recintati da bassi muretti a secco in entrambi i lati.

Per evitarlo mi sono spostato tutto verso sinistra, ma il cane malefico invece di proseguire la sua corsa si è bloccato, venendosi a trovare sulla mia nuova traiettoria, così in un ultimo guizzo mi sposto tutto sulla destra, ed è esattamente ciò che fa anche il cane, subito dopo essersi ripreso dall’iniziale stupore: l’impatto è pieno e inevitabile, ricordo il rumore della botta, il colpo secco che fa vibrare anche me, trema la lamiera che costituisce il telaio della vespa, tremano le mie mani, le mie braccia, tutto il mio corpo aggrappato al manubrio e alla sella, poi come una sensazione di estrema leggerezza e dopo più nulla.

Mi secca ammetterlo, ma devo essere svenuto prima ancora del mio impatto a terra, come i vapeurs che assalivano le damine del settecento in situazioni molto cariche emotivamente, svenimenti tattici non volontari, che permettevano loro di non affrontare situazioni molto imbarazzanti e scabrose; me ne vergogno un po’ di questa cosa ripensandoci, ma poi mi consolo evocando la saggezza dell’organismo umano che molto opportunamente eclissa la coscienza e la percezione del dolore in attesa di un incidente ormai certo e di un impatto imminente.

Mi sono risvegliato in ospedale, effettivamente molto indolenzito, non c’era una parte del mio corpo che non gridasse, una superficie corporea esente da ematoma o da ferita lacero-contusa, la testa sembrava un alveare di api disturbato da un orso goloso, per fortuna non avevo niente di rotto e non avrei dovuto passare il resto della mia vita su una sedia a rotelle o sul letto di un ospedale.

Non così il cane che era finito maciullato sotto la ruota anteriore, bloccandola e facendo impennare posteriormente la vespa, che si era sollevata da terra per poi ricadervi pesantemente e strisciare ancora sull'asfalto per una decina di metri, prima di fermarsi completamente distrutta, mentre io ero stato sbalzato di sella come una catapulta.
In ospedale c’ero finito grazie ad un nisseno (cittadino di Caltanissetta) che passava per quella strada in virtù del suo lavoro, che lo vedeva operativo nelle provincie di Siracusa, di Catania e di Ragusa, e che era li a quell’ora perché voleva rientrare presto a casa quel giorno, per cui non aveva esitato a sfidare il solleone; la prima cosa che aveva visto era la vespa per terra distrutta e un cane morto li vicino e nient’altro.









“Da queste parti i cani guidano le vespe!”, avrà pensato “e guidano da cani, visto la fine che ha fatto questo qui”, poi ha guardato meglio e mi ha notato oltre il muro a secco della corsia di destra, nello sbalzo ero stato catapultato sul terreno, oltre il muro, ed è stata la mia fortuna, perché la sofficità della terra ha attutito l’impatto al suolo, che sarebbe stato ben più grave e doloroso se fosse avvenuto sull’asfalto.

Qualche ora dopo i medici mi hanno dimesso e sono andato a casa mia, terminati i rilevamenti i vigili mi avevano consegnato ciò che rimaneva di quella vespa, un rottame, in origine un vespone nero 200 centimetri cubici di cilindrata, che avevo acquistato usato da un ragazzo mio conoscente, che lo aveva da pochissimo, poi si era accorto che non andava oltre i 110 km l’ora e superati i 100 iniziava a vibrare tutto, e aveva deciso di passare ad una moto più seria e più veloce, liberandosi di quella lumaca.

In realtà qualcuno che lo conosceva meglio di me mi disse che lo aveva comprato perché la sua ragazza non sarebbe mai montata con lui su una moto, che il vespone, allora molto di moda, era un compromesso che avevano trovato per viaggiare comunque sulle due ruote, poi la ragazza lo aveva lasciato e lui non trovava più alcun buon motivo per non passare alla moto che amava tanto.

L’avevo avuto ad un buon prezzo, perché in un gesto d’impulso era già andato a comprarsi la moto e gli premeva sbaraccare il garage, perché non aveva altro posto dove metterla quando gli sarebbe arrivata; e l’avevo comprato tutto con i miei risparmi, con soldi guadagnati da me dando una mano a mio padre quell’inverno e facendo qualche altro lavoretto compatibile con i miei studi.  

A 16 anni non avrei ancora potuto guidarlo, ma devo ammettere che in questo campo la mia idea di legalità aveva qualche lacuna, non mi sembrava grave guidare una vespa 200 senza patente, tanto poi, pensavo, da li a breve l’avrei presa, era questione di rischiare per un po’, e poi diciamolo, da noi i vigili sono molto tolleranti, devi guardarti solo da Polizia e dai Carabinieri, a da quelli ci guardavamo comunque.

La vespa 50 special, quella col fanalino anteriore rettangolare, che è stata la vespa 50 più bella di sempre, era stata fino ad allora una compagna fidata, mi aveva fatto respirare aria di libertà e sono convinto che mi abbia facilitato pure nei miei rapporti iniziali con le ragazze, non so se fosse solo un pretesto per conoscerci, fatto sta che le ragazzine della mia età cominciavano a guardarti con un certo interesse se avevi una vespa, le più sfacciate ti chiedevano se potevano fare un giro con te, quelle senza pudore se gliela lasciavi guidare, nessuna che io sappia ha mai espresso il desiderio di fare un giro col Ciao.

Io avevo comprato la vespa e non un altro tipo di motorino solo perché aveva le marce, e questa cosa mi sembrava allora una figata, senza contare che le salite le affrontavi meglio, mentre quelli col Si, col Ciao, col Boxer e con altri motorini erano costretti a pedalare, poi era molto più comoda per due persone, gli altri sembravano fatti per il solo guidatore, però almeno un caso in cui la vespa aveva fatto la differenza e non era di certo un pretesto, mi è capitato.










In prima liceo, con la vespa che aveva ancora l’odore di nuovo, avevo re-incontrato una ragazza che avevo già notato alle medie, solo che li era in un corso e in un piano diversi dal mio; era impossibile non notarla perché era molto diversa dalle altre anche solo ad un’occhiata superficiale, sarà stata alta solo un metro e cinquantacinque, non di più, la pelle molto chiara, eburnea, i capelli nerissimi divisi da una lunga riga in mezzo che scendeva in due lunghe trecce, sempre compunta e impettita, mai un dettaglio fuori posto, vestiva firmata da capo a piedi e in linea con la moda di allora, senza perdersi una sola novità.

Aveva tutto l’aspetto di una figlia di papà, era una delle poche che veniva accompagnata a scuola tutte le mattine in macchina da suo padre o da sua madre, e al suono dell’ultima campanella qualcuno dei suoi genitori era ad attenderla oltre il cancello della scuola, la stessa cosa accadeva nelle feste in cui era invitata; non sembrava essere particolarmente interessata a nessuno, non esprimeva il desiderio di conoscere nessuno e non incoraggiava nessuno a conoscerla con sguardi e con gesti, ma se andavi a parlare con lei era gentile pur senza lasciar trasparire se aveva gradito la tua conversazione.

In molti ci avevano rinunciato a conoscerla, in molti non ci avevano neanche provato, nel complesso sembrava una bambolina di giada o di porcellana cinese, di quelle che devi maneggiare con estrema cura, perché toccata con scarsa destrezza e da dita inesperienti avrebbe potuto frantumarsi in mille pezzi; ma come si faceva a starle lontano, visto che era così bella?

Così, quando me la sono ritrovata in classe con me in prima liceo, l’ho abbordata con tutto il tatto di cui ero capace allora, ho subito capito che era affascinata dalla mia faccia tosta, le piacevano moltissimo le giostre, ma le piaceva ancora di più girare in vespa, così l’andavo a prendere a casa sua e la portavo in giro ovunque, tendenzialmente verso il mare, che a me piace molto e che rende tutti molto romantici sia d’estate che d’inverno.

Qualsiasi cosa le proponessi lei era d’accordo, mi seguiva ovunque, così all’inizio abbiamo iniziato a baciarci al molo, ma qualsiasi angolo era un porto di mare, gente che andava e veniva di continuo, non c’era un posto in cui di giorno si potesse stare tranquilli, poi mi è venuto in mente che potevo sfruttare gli spogliatoi dei campi da tennis, di cui avevo la chiave perché ero un frequentatore, uno dei pochi che poteva accedervi anche quando il proprietario non c’era, e li abbiamo trascorso momenti deliziosi.

Questo dettaglio che a lei piaceva la vespa era trapelato perché lei ne aveva parlato liberamente, così altri compagni di classe con la vespa ci avevano provato, non a tutti era andata bene, ma al mio compagno di banco sembra proprio di si, aveva accettato di fare un giro con lui: da quel momento in poi il primo di noi due che la invitava per quel pomeriggio in cui lei era libera, era quello che usciva con lei, non sembrava fare alcuna differenza fra me e lui, non pensava nemmeno di dover scegliere né in quel momento, né prima o poi.

Fra me e Roberto non si instaurò nessuna rivalità aggressiva, eravamo in competizione, ciascuno di noi voleva arrivare prima dell’altro, ma il nostro rapporto di amicizia non ne risentì; io ero stupito dal comportamento di lei che usciva con molta disinvoltura ora con me ora con lui, Roberto invece era più pragmatico, meglio l’alternanza che niente, anche perché capiva che questo era ciò che lei desiderava, altrimenti nulla, nessuno dei due avrebbe prevalso.









Una sera, erano le undici passate, suonano a casa mia, vado ad aprire e mi compaiono nell’ordine: il vicecommissario di Polizia, un agente, il padre e la madre della ragazza molto preoccupati, insieme ad un cugino di lei che io conoscevo solo di vista e che aveva diversi anni in più di noi; dopo essersi accertati delle mie generalità e che conoscevo sia la ragazza, sia Roberto, mi dicono che i genitori di lei si erano rivolti alla Polizia preoccupati perché la figlia, uscita col ragazzo nel pomeriggio, non aveva ancora fatto ritorno.

E mi chiedono se io avessi un’idea su dove potevano essere, su dove vanno le coppiette insomma, mi chiedono anche di venire con loro, ovviamente ne parlano con i miei, che la presenza della Polizia in casa a quell’ora aveva un po’ inquietato, così sono costretto ad accompagnarli e a fornire qualche vaga informazione, che si rivela però sistematicamente un buco nell’acqua.

Il fatto è che io sapevo perfettamente dove erano o potevano essere con molta probabilità, sempre ammesso che non fosse capitato loro qualcosa che io non potevo sapere, il posto l’avevo scoperto io da poco e ne avevo parlato con lui, si trattava di ciò che rimaneva di un piccolo villaggio di pescatori, una piccola contrada quasi sul mare, circondata da un giardino di aranci, con una stradina sterrata che lo attraversava per lungo verso il lungomare o verso l’entroterra, si trovava li quando il paese non era così grande come adesso, per avvicinare barche e pescatori al mare, ma adesso era dimenticato un po’ da tutti.

Io l’avevo scoperto per caso, grazie a mio padre, ora non pensate che mio padre mi desse le dritte su dove infrascarmi con le ragazze, io non glielo avrei mai chiesto, lui non lo avrebbe mai fatto  spontaneamente e se glielo avessi chiesto io avrebbe certamente pensato: “Ho un figlio babbu, guarda cosa mi tocca suggerirgli!”; il fatto è che abbiamo preso una scorciatoia per quella stradina sterrata, e lui mi ha spiegato che si trattava di un villaggio di pescatori ormai abbandonato da tempo.

Più tardi ero andato a fare un sopralluogo, c’erano case semidiroccate, forse qualcuna anche a rischio di crollo, ma altre erano più o meno intatte e in ottimo stato, era il luogo ideale per chi non voleva allontanarsi molto dall’abitato e non voleva essere visto anche in pieno giorno, perché era un villaggio di cui pochi si ricordavano dell’esistenza ed era circondato da un giardino, invisibile sia dal mare che dall’entroterra.

Ma questo ai poliziotti quella sera decisi di non svelarlo, certo se fosse successo qualcosa di grave era mia la responsabilità di non averlo segnalato nel caso fossimo ancora in tempo per soccorrerli, ma avevo quasi la certezza che l’unico contrattempo che era capitato loro fosse che Roberto si era accorto, dopo di me ovviamente, che lei non aveva il pudore che avevano le altre ragazze, se volevi baciarla si lasciava baciare, se volevi toccarla e accarezzarla te lo lasciava fare, sia con le mani sopra i vestiti, sia con le mani infilate sotto i vestiti, e se volevi …. ok ci siamo capiti.

Non era come le altre, che ti mettevano dei limiti, che ti dicevano: “Questo no!” e se insistevi ti fermavano le mani e se insistevi ancora magari smettevano del tutto le effusioni e ti mettevano il muso, era come se lei fosse aliena da questi giochi amorosi, la mia sensazione è che non avrebbe posto alcun limite a nessuna cosa avremmo osato fare, solo la nostra timidezza finora aveva fatto si che ci fossimo limitati a certe cose e che non avessimo proseguito oltre: si vede che quella sera Roberto aveva scoperto che poteva osare qualcosa di più del semplice bacio e della palpatina esterna, e che avessero perso così entrambi la cognizione del tempo.










Proprio quando stavamo girando a vuoto perché non veniva più a nessuno in mente dove potevano essere, l’agente che guidava la volante si ricordò di un informatore che gli aveva parlato di un posto, una stradina, case di pescatori, dove ci si poteva appartare, facendogli capire che qualcuno avrebbe potuto usarlo con intenti poco nobili, per nascondere qualcosa o per nascondersi, c’era una stradina appena visibile dal lungomare, ci siamo passati un paio di volte finché l’agente non ha deciso che non poteva essere che quella.

L’abbiamo imboccata, prima di giungere alle casette il vicecommissario ha fatto illuminare tutto con i fari, che potessimo vedere bene perché era tutto al buio più totale e perché anche noi fossimo visibili, che non si allarmassero, d’un tratto li abbiamo visti uscire da una di quelle casette, mettere in moto la vespa, salirvi sopra e tentare la fuga … io avevo una stretta al cuore, speravo che fossero già andati via.

Ci sono sgusciati fra le mani, li abbiamo inseguiti, se avessero voluto li avremmo raggiunti in breve, non c’è storia fra una vespa 50 e una pantera della Polizia, ma il vicecommissario ha dato ordine di non perderli di vista ma  di non incalzarli da vicino, presi dalla paura e dalla disperazione avrebbero potuto perdere la testa e fare un incidente, intanto lui cercava di parlare con loro attraverso un megafono per tranquillizzarli.

Siamo giunti così in paese, poi lui, che non era stupido, si è cacciato in uno dei quartieri dedalo (che conosceva molto bene) con stradine strette, piene di auto parcheggiate anche in prossimità dei crocevia, tanto che per una macchina era difficile andare veloce, mentre con la vespa sono riusciti a seminarci, poi lui l’ha accompagnata sul portone di casa sua ed è andato a casa, dove ha trovato tutti quanti svegli e piuttosto preoccupati, perché i poliziotti erano andati a casa sua prima di venire da me, ed è proprio perché lui aveva detto a sua madre che usciva con me che sono giunti in casa mia.

Da allora lei non ebbe più il permesso, per parecchio tempo, di uscire con noi, né con nessun altro, ma non si può arginare una piena, né fermare un terremoto, né bloccare qualcuno che sta scivolando e ha acquistato ormai una velocità ragguardevole; un giorno di assemblea d’istituto un piccolo gruppetto si annoiava per la discussioni all’ordine del giorno, tranne me che ero interessato ed ero rappresentante della mia classe, ma non sapevano che fare.

Potremmo andare a Noto, lanciò qualcuno, idea subito scartata, possiamo annoiarci allo stesso modo qui senza doverci fare otto chilometri di strada, oppure a Siracusa, si ma come ci arriviamo con i motorini e con due persone sopra fra l’altro? Ecco allora che spunta il diavolo, dalla noia, dalla voglia di fare qualcosa di diverso, dall’infinita capacità umana di farsi del male senza accorgersene, lei dice: “Mio padre è andato a lavorare a piedi oggi, la macchina è in garage, potremmo andare con quella …”, “già, ma chi la guida, chi ha la patente?”, “guidarla non è un problema, io so farlo ma non ho la patente, il problema è come farai a tirarla fuori dal garage …”, “ci provo”, “e tua madre?”, “quasi sicuramente non è in casa”.

Così, va a casa sua, che non era molto distante da li, e dopo un quarto d’ora torna con la macchina dopo essere sbucata dalla strada con una curva così ampia che a momenti faceva il pelo e il contropelo alle macchine parcheggiate, si mettono d’accordo fra loro, mi chiedono: “Tu vieni?”, “No” rispondo “la puzza di guai non mi fa respirare, e poi fra poco attendono il mio intervento in assemblea”.










La gita a Siracusa avvenne senza alcun problema, quello che aveva detto di saper guidare sapeva guidare davvero, e riportò la macchina intatta nello stesso piazzale da cui erano partiti, e era andato loro persino troppo bene perché nessuno li aveva fermati per strada per un controllo; i problemi vennero dopo, quando fu lei a prendere in mano la macchina per riportarla in garage, adesso che era quasi l’una il traffico era aumentato e lei non sapeva guidare bene già senza figuriamoci con tutti quei mezzi che si erano riversati per strada.

Uscendo dalla piazzetta della scuola (sono tutte cose che mi hanno raccontato perché io non ero presente) quando imboccò la via più stretta rifece nuova la fiancata di una macchina parcheggiata li mentre effettuava la curva, spaventata si bloccò, mise il freno, poi presa dal panico scappò, ma non poteva certo abbandonare li la macchina, ritornò allora sui suoi passi, attese un po’ prima di affacciarsi, intanto il proprietario della macchina strisciata molto perplesso si era limitato a prendere il numero di targa ed era rientrato in casa, così lei risalì e partì.

Prese qui e la altre macchine di striscio lungo il tragitto, ma stavolta andò dritta per la sua strada senza fermarsi, ma non finì così, ad un incrocio in cui doveva dare la precedenza a destra non si fermò affatto, così prese in pieno un’Apecar 50 cabinata con la quale il ragazzo di una panetteria effettuava le consegne e la ribaltò a terra, il pane rotolava per la via, il ragazzo uscì malconcio ma illeso dall’abitacolo, non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa gli fosse successo che lei sgommò e si divincolò anche da quell’incidente, senza nemmeno chiedere se si fosse fatto male.

A quel punto dovette spaventarsi molto, quando suo padre avrebbe scoperto la macchina in quelle condizione e quando sarebbero arrivate le denunce di chi aveva subito danni, per lei sarebbe finita molto male, non poteva affrontarlo dopo tutto quello che aveva combinato, così decise su due piedi di scappare.

La ritrovarono (o si fece ritrovare lei) tre giorni dopo che dormiva in macchina, parcheggiata in una piazza di Siracusa, sporca perché non poteva lavarsi, lacera ed anche affamata perché non aveva molti soldi con sé quando era scappata, tutto questo era inimmaginabile in una perfettina come lei; mancò da scuola ancora qualche giorno dopo il suo ritrovamento, dopo tornò a frequentare, ma non parlava più con nessuno e quasi tutti le avevano fatto la voragine intorno, il resto del fossato se lo scavò da sola rifiutando i pochi che volevano rimanerle vicini.

Più tardi iniziò a frequentare gente che si faceva le canne, e non si fermò a quelle, a scuola veniva ma non studiava ed era apatica, non parlava più con nessuno, la guardavo sempre più perplesso, i miei tentativi di avvicinarla erano caduti nel vuoto, ma non avevo ancora provato una gran pena per lei se non in occasione di un’altra assemblea di istituto; stava seduta tutta sola sul marciapiede della palestra esterna, eravamo in aprile, il sole faceva sentire un tepore molto dolce e scottava perfino in certe ore del giorno, lei indossava una felpina sempre scelta con estremo buon gusto, una minigonna di jeans e un paio di ballerine.

Di fronte a lei, a qualche decina di metri un capannello di ragazzi di terza che la guardavano e ridacchiavano, non potevo pensare che ad alcuni bastasse la sola presenza di lei per sghignazzare così, mi sono avvicinato a loro, ma non ho capito subito, mi ci è voluto qualche minuto e una buona dose di malizia, in quella posizione e con la minigonna le bastava che aprisse appena le gambe soltanto perché quei deficienti potessero scorgerle il triangolo bianco dei suoi slip, di questo ridevano.











Ho afferrato per il bavero il cretino che rideva di più e volevo sbatterlo per terra, immediatamente sono intervenuti i suoi amici a separarci e a trattenermi, lui ha reagito senza neanche capire perché lo avessi aggredito, lontano dal pensare che sbirciare gli slip di una ragazza e riderci sopra dovesse essere qualcosa di cui vergognarsi, mi dava del pazzo, si rivolgeva ai suoi amici chiamandoli a testimone che lo avevo aggredito senza motivo, dopo aveva aggiunto “non lo conosco neanche” ed aveva concluso col “fatti curare!”.

Ci ho ripensato successivamente a questa scena, che da qualsiasi punto di vista la si osservi è di una stupidità disarmante, e non mi riferisco soltanto a quei coglioni che le sbirciavano gli slip e che la disprezzavano nello stesso tempo, ma alla mia reazione, un gesto così avrebbe potuto comportare l’espulsione di entrambi o soltanto la mia dalla scuola se qualche insegnante vi avesse assistito o se non fosse finito li.

Ma la cosa peggiore era proprio nel motivo che aveva suscitato in me tutta quella rabbia, con chi ce l’avevo, con quel tipo li che conoscevo davvero appena, o me la stavo prendendo con me tesso per aver avuto con lei un atteggiamento molto simile al suo? Anch’io a ben vedere avevo approfittato di lei finché avevo potuto, anch’io l’avevo vista come un bel pezzo di carne morbida da accarezzare, di cui approfittare visto che lei sembrava non conoscere limiti e di non accorgersi delle conseguenze, anch’io avevo approfittato del fatto che lei allargasse le cosce e non solo per sbirciare e ridacchiare, non potevo certo considerarmi migliore di lui.

Una volta qualcuno mi disse che esiste una cesura invalicabile fra le persone stupide e quelle intelligenti, gli stupidi sono stupidi stupidamente, mentre una persona intelligente può si essere stupida, ma lo è intelligentemente, non è la stessa stupidità, va bene che già solo esaminare un discorso del genere ti fa rendere conto che anche chi ritiene di essere stupido intelligentemente poi fa discorsi come questo che sono stupidi e basta.

Però quello fu un esempio che la stupidità non ha confini, non ha limiti, mi verrebbe da dire che è quasi il nostro modo normale di funzionare, tutto ciò che può accadere è che qualcuno ogni tanto, non si sa in base a cosa o perché si sollevi dalla fanga, dalla stupidità di default e faccia o dica qualcosa di intelligente.


Un po' come Isaac Newton, colpito da una mela caduta dall'albero sotto il quale schiacciava un pisolino, a quanti era già capitato, credete che Ciccio di Nonna Papera ne avrebbe ricavato qualcosa di diverso che imprecare in paperopolese contro la sfortuna e mangiarsela? Invece Newton intuisce che nell'Universo (e badate bene, non soltanto in un frutteto o al massimo dall'ortolano) due corpi (la mela cadente e la sua testa mettiamo) si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza elevata al quadrato.
E pensate anche ad Archimede, che di fronte al cugino che stava annegando ai bastioni del porto grande di Siracusa, con la voce già gorgogliante di acqua nei polmoni e le mani irrigidite dal panico, esclama raggiante: "Eureka! Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto pari al peso del volume del liquido spostato".
Questa ragazza, di cui trovo doloroso evocare il suo nome e comunque non lo farei per rispetto, e per cui non voglio nemmeno usare un nome fittizio come mi capita in altri casi, quell’anno fu bocciata, si re-iscrisse l’anno successivo ma non lo concluse, ritirandosi prima dalla scuola, morì di overdose solo qualche anno dopo a 22 anni, vittima insieme a molti altri dell’oscuro male di vivere che talvolta appelliamo come depressione, talaltra come borderline oppure più prosaicamente come tossicodipendenza.
Nel corso degli anni ne ho visti cadere parecchi, che conoscevo bene o che conoscevo di vista, usciti da questo mondo platealmente con un incidente spettacolare, o meno platealmente con un banale infortunio, altri sono semplicemente scomparsi e non se ne è saputo più nulla, o sono annegati e il loro corpo gonfio e bluastro, orribilmente deformato, è stato trovato dopo e in luoghi diversi dal posto da cui si erano immersi, qualcuno è finito bruciato, forse si era addormentato con la sigaretta o con una canna in mano in un posto pieno di benzina e di legna da ardere e per altri ancora il referto medico diceva “arresto cardio-circolatorio e depressione respiratoria conseguente all’uso di sostanze stupefacenti” .




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