martedì 30 novembre 2010

Domande del martedì

Se Guia Soncini si pone le sue opportune domande del martedì, anch'io me ne pongo una, questo martedì, poche ore dopo l'approvazione del ddl sulla riforma dell'università
La domanda è questa: dopo aver dato il sostegno a questa legge così contrastata (a mio avviso: a giusto titolo contrastata) e da numerosi studenti e docenti, e da una larga fetta della società (tutta di sinistra? Non credo), quante speranze ci sono che, il prossimo martedì 14 dicembre, Futuro & Libertà non dia più la fiducia a questo governo sì da farlo cadere?

La malattia dell'olmo

in memoria
Se ti importa che ancora sia estate
eccoti in riva al fiume l'albero squamarsi
delle foglie più deboli: roseogialli
petali di fiori sconosciuti
e a futura memoria i sempreverdi
immobili.

Ma più importa che la gente cammini in allegria
che corra al fiume la città e un gabbiano
avventuratosi sin qua si sfogli
in un lampo di candore.

Guidami tu, stella variabile, fin che puoi...

e il giorno fonde le rive in miele e oro
le rifonde in un buio oleoso
fino al pullulare delle luci.
                                      Scocca
da quel formicolio
un atomo ronzante, a colpo
sicuro mi centra
dove più punge e brucia.

Vienmi vicino, parlami, tenerezza,
dico voltandomi a una
vita fino a ieri a me prossima
oggi così lontana – scaccia
da me questo spino molesto,
la memoria:
non si sfama mai.

È fatto – mormora in risposta
nell'ultimo chiaro
quell'ombra – adesso dormi, riposa
                                                      Mi hai
tolto l'aculeo, non
il suo fuoco – sospiro abbandonandomi a lei
in sogno con lei precipitando già.

Vittorio Sereni, Stella variabile, da Tutte le poesie a cura di Maria Teresa Sereni, con prefazione di Dante Isella, Mondadori, Milano 1986

lunedì 29 novembre 2010

Baciamo il tonno

Quando il tonno sarà definitivamente estinto pescheremo il mondo.

Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto: poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:

«Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!..

Il Tonno cacciò il muso fuori dall'acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c'era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott'acqua e sparì.


Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. XXXVI

Capziose questue


«Detto questo, come ha notato Aldo Grasso, è incredibile quanto sia forte, esclusiva, brutale l’egemonia del linguaggio televisivo di sinistra in Italia. Ci pensino i vescovi, che non hanno battuto ciglio quando lo strano cristiano Antonio Socci fu consumato e sbriciolato dal meccanismo televisivo. Ci pensino i borghesi perplessi, i conservatori se ce n’è uno, e in genere gli anticonformisti che non accettano la vulgata d’obbligo: come mai in tv non passa una sensibilità diversa da quella del militantismo di contropotere? Come mai non c’è una tv liberale, una tv con sense of humour, una tv cattolica, una tv di destra, una tv capace di guardare i problemi del tempo e giudicarli con uno schema che non sia pregiudizialmente orientato nel senso dei Fazio e delle Dandini? Non è il segno del fallimento di una classe dirigente, dell’incuria verso il linguaggio e la cultura dell’Italia che poi, a buon bisogno, accattona una riparazione in onda sugli schermi di Raitre?».

Il merito della lettera a Fabio Fazio (Il Foglio dei fogli 29 novembre 2010) è un altro, ma a me sembra che, in fondo in fondo, Giuliano Ferrara stia elemosinando la conduzione di una trasmissione televisiva. Possibile che Mediaset non gli conceda il beneficio di un pezzetto di palinsesto? Ché forse, alla destra (berlusconiana), gli bastino Barbara D'Urso, Maria De Filippi, Gerry Scotti, il GF, Striscia la notizia, Le Iene, Zelig...? Allora si rivolga a TV2000 o a TelePace.

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Alcune cose a margine della vicenda Wikileaks:

- mi è piaciuto Phastidio;
- ho riso con Malvino (1, 2) e Galatea;
- mi unisco a Metilparaben;
- concordo con Ivo Silvestro e, allo stesso tempo, con Vittorio Zucconi (l'hanno pensato insieme?).

Inutile nasconderlo: ci saremmo aspettati di più, e questo di più non c'è. Ci hanno detto cose che sapevamo (vero Giulio). Stop. Cosa non sappiamo? Per limitarci al caso italiano: non sappiamo e vorremmo sapere cosa si cela dietro l'amicizia particolare tra Berlusconi e Putin, e tra Berlusconi e Gheddafi, ovvero quali interessi nascosti, quali manfrine, quali accordi, quali scambi segreti ci sono fra i tre. Penso allo shopping continuo dei capitali russi e libici nel territorio italiano. Se fosse solo un discorso limitato allo spurgo spermatico del premier fuori confine, in fondo, non ci sarebbe niente di preoccupante. Ma io non credo che i continui viaggi in Russia siano destinati soltanto alle orge a ritmo della balalaika. C'è qualcosa di più e vorremmo conoscere cosa è questo di più. Chiunque lo scoprirà (Assange o chi per lui) farà un'ottimo servizio alla democrazia.


Update
Aggiungo alla lista dei linkati questo ottimo Mantellini.

domenica 28 novembre 2010

Sub specie æternitatis

«Vedendo noi stessi da una prospettiva più ampia di quella che possiamo occupare come esseri di carne, diventiamo spettatori delle nostre vite. Non possiamo fare molto come semplici spettatori delle nostre vite, così continuiamo a viverle e ci dedichiamo a quello che contemporaneamente siam in grado di vedere come nulla più che una curiosità, come il rituale di una religione sconosciuta.
Questo spiega perché il senso di assurdità trovi la sua naturale espressione in [certi] cattivi argomenti […]. Il riferimento alla nostra piccola dimensione e alla brevità della nostra vita, al fatto che tutto il genere umano scomparirà alla fine senza lasciare traccia è una metafora per il passo indietro che ci permette di considerare noi stessi dal di fuori e di trovare curiosa e un poco sorprendente la forma particolare della nostra vita. Immaginandoci da un punto di vista cosmico, noi descriviamo la capacità di vedere noi stessi senza pregiudizi, come arbitrari, idiosincratici, assolutamente particolari abitatori del mondo, una delle possibili innumerevoli forme di vita».
[…]
«Perché la vita di un topo non è assurda? Neanche l'ombra della luna lo è, ma ciò non implica affatto sforzi o scopi. Un topo, tuttavia, deve darsi da fare per sopravvivere. Egli, però, non è assurdo, perché gli mancano le capacità di essere cosciente di sé e di trascendersi che gli consentirebbero di rendersi conto che è solo un topo. Se avvenisse ciò, la sua vita diventerebbe assurda perché l'autoconsapevolezza non gli farebbe smettere di essere un topo, e non gli permetterebbe di essere superiore ai suoi sforzi topeschi. Portando con sé questa autocoscienza appena scoperta, egli dovrebbe fare ritorno alla sua vita meschina, ma frenetica, pieno di dubbi che è incapace di risolvere, ma anche di propositi che è incapace di abbandonare.
Dato che il passo trascendentale è naturale per noi umani, possiamo evitare l'assurdità rifiutando di fare quel passo e rimanendo completamente all'interno della nostra vita sublunare? Non possiamo rifiutare coscientemente perché per farlo dovremmo essere consapevoli del punto di vista che ci rifiutiamo di adottare. Il solo modo per evitare la rilevante coscienza di sé sarebbe o di non arrivarci mai o di dimenticarla – e nessuna delle due cose si può ottenere con la volontà».
Thomas Nagel, Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986 (traduzione di Antonella Besussi).

Che fare? (Riassumo malamente Nagel). Cancellare il proprio Sé mediante un ascetismo religioso? No. Suicidarsi? Nemmeno. Fare come Camus, ovverosia resistere, disprezzare, mostrare i pugni al mondo? Insomma, di troppa bile ci si sovraccarica. E allora? Nagel suggerisce che, una volta constatato che «l'assurdità è uno dei sentimenti più umani che ci riguardano: una manifestazione delle nostre caratteristiche più evolute e interessanti», anche se questo ci porta naturalmente a credere che niente, sotto questo cielo, ha importanza, «allora neppure ciò ha importanza, e possiamo così avvicinarci alle nostre vite assurde con ironia invece che con eroismo e disperazione». L'ironia, già. Ma che vuoto lascia in fin dei conti l'ironia. Anche se l'eco della nostra sottile risata invadesse le periferire della nostra galassia, le nostre mani sarebbero vuote, sole. E quindi? Insieme al riso, l'abbraccio. Leggiamo un Lucas d'annata:

È cominciato l'amore allorquando
una flebile voce radiofonica
annunciava: «Sì, ti sento, tanto»
nella tenera esclusività di un incanto.
Ti si scopre davanti agli occhi
e non sai se quello che leggi
è qualcosa che fugge o che resta
nella bolgia dei fatti. Ma
si sente nelle mani saldare
quella forza che dentro noi cercavamo
quella forza che manca
se isolata da questo contesto.
Pretesto per stringerti,
per abbracciarti, mentre
la pioggia che picchia sui vetri
accompagna la vita.
E son qui adesso, a farle i versi a quella
mentre ripenso ai tersi tuoi sguardi
che ti fan così...

Bella? Mi volevi dire bella? Ma fino a quando, per quanto tempo ancora apparirò, nella luce de' tuoi occhi come una stella? Farò una cosa: ti fotografo gli occhi che in questo istante mi vedono così; poi, un giorno, presentandoti il conto, domanderò: Sono la stessa?
Sì, se terrai gli occhi chiusi.


I tuoi capelli fanno coperta alle mie intenzioni, ai miei sogni. Tu scaldi le mie interpretazioni. Vedi, tu mi dài rifugio, mi fai entrare nelle tue insenature, mi regali il caldo del tuo respiro, la frequenza cardiaca percepita con la punta del mio naso. Io mi metto lì, e mi basta un occhio solo per vedere l'universo. E sento che non riesco a dormire perché contemplare la bellezza del tuo sonno, del tuo sogno, mi trasporta in una città nuova dove il senso dell'assurdo si spenge e comincia una vera illuminazione. Sub specie æternitatis. Resta così, non ti svegliare. Lasciami così, On the Waves of Love.

sabato 27 novembre 2010

Un paese con troppi poeti

Trovare un articolo di Adriano Sofri (lo leggete qui, se volete, che ancora su Repubblica online è a pagamento) è sempre un bene per la mente che, di primo mattino, cerca – molte volte invano – editoriali edificanti. Tuttavia, a margine della sua passeggiata intellettuale intorno al tema dell'originale protesta degli studenti universitari che si sono fatti scudo con cartoni a forma di libro, mi preme dire un paio di cose che contraddicono l'assunto sofriano che l'Italia sia, oggi, un paese senza poeti viventi che abbiano un'altissimo riconoscimento mondano e una significativa considerazione politica (contrariamente, per esempio, alla Grecia. Sofri trae questa informazione dalla lettura della raccolta della poesia greca del Novecento pubblicata da poco dai Meridiani-Mondadori ove si dice, appunto, che «la Grecia ha una fiducia “speciale” nella poesia»). Ecco questo paio di cose (ehm) pensate a margine:
  • Si dica quello che si vuole ma a capo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali oggi abbiamo un poeta; e lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri può essere effigiato di tale nomina se si considera la sua cospicua attività di paroliere di canzoni d'amore musicate dipoi dal valente chansonnier Apicella (considero Berlusconi poeta come Sofri considera poeta Edoardo Bennato - «E un altro poeta ha avvertito: “Sono solo canzonette”»).
  • «Al funerale di Pasolini […] Alberto Moravia, che non era uomo di scalpori retorici, gridò: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto, in un secolo”. Il poeta dovrebbe essere sacro, protestò Moravia. Aveva ragione». No, gentile Adriano, Moravia non aveva ragione.
    In primo luogo perché con Pasolini l'Italia non perse prima di tutto un poeta, ma un poeta e un romanziere, e un saggista, e un cineasta e, soprattutto, un pedagogo (nel senso migliore del termine) che spaventava il potere.
    In secondo luogo, perché non è vero che non ci sono tanti poeti nel mondo: ce ne sono anche troppi. Il problema è, semmai, che ci sono pochi lettori di poeti – e questo sì che è preoccupante, giacché non tanto i poeti salveranno il mondo, quanto i lettori di poesia non lo distruggeranno (ho, infatti, la presunzione di ritenere che dopo aver letto una lirica degna di questo nome, ogni umano sia impossibilitato a spargere male nel mondo. Mi piacerebbe sapere se Berlusconi, oltre a Rio bo, conosca per esempio anche la Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba).
    In terzo luogo, non è vero che il poeta dovrebbe essere sacro: giammai! il poeta deve essere dissacrante o non è, dacché – a mio avviso, naturalmente – la quintessenza della poesia è la desacralizzazione del mondo, è il punto di vista del singolo, dell'individuo di fronte al mondo, sia esso rappresentativo dello stupore che dello spavento, dell'amore come della rabbia, eccetera. Nessun vero poeta ha mai fondato una religione, dato che egli è immerso nel mondo, totalmente. La poesia è immanenza pura, e il poeta, anche immaginando trascendenze, non le trasforma mai in preghiera collettiva o in rituale (almeno, questo, nelle sue intenzioni). Checché se ne dica, da Dante fino a Pasolini, nessun poeta ha mai fondato una religione, né tantomeno una chiesa.

venerdì 26 novembre 2010

Spiegare un po' di cose

Ogni verme è un martire,
ogni passero soggiace all'ingiustizia,
dissi al mio gatto,
visto che non c'era nessun altro in giro.

Piove. Con tutti i loro eserciti immensi
cosa possono fare le formiche?
E la blatta sul muro,
come un camerirere in un ristorante vuoto?

Io scendo in cantina
a coccolare il topo in trappola.
Tu guarda il cielo.
Se piove, gratta alla porta.



Charles Simic, A Wedding in Hell, 1994


Lirica tratta da West of your cities, Nuova Antologia della poesia america, a cura di Mark Strand e Damiano Abeni, Minimum fax, Roma 2003

Dio che silenzio c'è stasera

Io. Pronto, Dio?

Dio. Si, sono pronto. Cosa vuoi a quest'ora prima di cena? Ho capito che sono, per certuni, uno e trino, e per certaltri una moltitudine, però non posso mica concederti di parlare con me tutte le sere!

Io. Capisco. Abbi pazienza, ma ho letto, su Avvenire¹, un brano della postfazione di Massimo Cacciari al libro di André Neher, L’esilio della parola, Medusa, Milano 2010 (pp. 238, euro 19,50, introduzione di Sergio Quinzio). Mi interesserebbe sapere cosa ne pensi di questi passaggi:

«La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore».
«Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de-finire “filosoficamente” come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo “tradirsi” in parola interpretante ri-vela se stesso»

Ecco, io vorrei semplicemente chiederti se è vero che il Silenzio, il tuo silenzio «parla».

Dio. Guarda questo “brano” cinematografico e fallo vedere anche a Cacciari. Divertiti. Sappi solo che, secondo Me, nella disputa verbale, entrambi i protagonisti hanno ragione.

Io. E di questo passaggio, cosa ne pensi?

«La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama, o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri-vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile».

Dio. Il punto, caro mio, è che questo mio silenzio è vero e non è vero, c'è e non c'è. Io ad esempio ora ti parlo, vero? Anche se non mi va, anche se preferirei fare qualcos'altro io parlo, io sto usando la tua voce per dire tutta una serie di cose che ti frullano nella testa e che supponi sia Io, Dio, a pensare e a dire. A te ti comoda avere in mente un'idea simile di Dio, tale da impedirti il radicale distacco dal concetto che mi definisce. Vedi, se io non ci fossi nella tua testa, ovvero se questa idea che tu ti sei fatto e ti fai su di me, non fosse nemmeno nata, allora il mio Silenzio sarebbe irrevocabile. Il problema non è dato tanto dalla mia esistenza o non esistenza, ma dal fatto che la mia invenzione possa permettere a certuni (i chierici di tutte le religioni) di incatenare certaltri (i devoti e quelli che sono sotto il tallone di una forzata devozione) nelle madrasse a cui si costringono o sono costretti nella vita quotidiana. La partita su di me è nata truccata. Se tu guardi in cielo una nuvola passare e ci vedi un volto o un paio di belle cosce, esse sono visioni tue e non devi correre al villaggio-globale e dire che hai visto Madonna (la Ciccone) in calze a rete. Mi comprendi? Possibile che al punto storico ove l'umanità è giunta, ancora vi siano moltitudini che sillabano preghiere su testi sacri risalenti a millanta anni fa, pensati e scritti sotto l'effetto di digiuni forzati, di schiavitù, o coi primi tentativi di fumarsi il cervello con l'oppio dei popoli? La vedi come la penso? Sono Io a pensarla così, il tuo Dio, che risponde alle tue chiamate anche se a quest'ora suole guardare il tgquattro per sputare in faccia a quel pandaro d'un bi-Fede, peste lo colga. Lasciami andare ora. Va' riposarti la mente, leggi qualche verso, trovalo, fallo conoscere.

Io. Grazie e buona cena.

Dio. Prego. Stasera mi aspetta un bel brodo primordiale.

¹Con un titolo simile, più che alla lettura, mi sembra un invito ad andare in bagno.

Il rovescio della vita

Io. Pronto Dio?
Dio. Sì, sono pronto. Dimmi figliuolo.
Io. Ti disturbo per una questione d'attualità legata alla decisione del Cda della Rai che «ha approvato un ordine del giorno firmato dal consigliere Rodolfo De Laurentiis e sostenuto dalla maggioranza, per far replicare, nell'ultima puntata di "Vieni via con me", il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano, le associazioni che si battono per il diritto alla vita rispetto a quanto è stato sostenuto in trasmissione sui casi Englaro e Welby».
Dio. Ah sì? E tu mi disturbi a quest'ora per queste cose? Fammi finire di vedere Santoro almeno!
Io. Scusami Signore, volevo solo sapere, secondo te, a cosa credono quelli del diritto alla vita.
Dio. Via, lo sai benissimo in cosa credono esattamente. Essi credono che la vita non sia un bene disponibile; soprattutto: disponibile dal singolo, dall'individuo, che non è, secondo loro, padrone di se stesso. In fondo, loro, quelli del diritto alla vita, difendono strenuamente i punti morti della vita, il punto A e il punto Z poiché credono che sia io, Dio, a insufflare la vita al momento del concepimento e ad aspirarla al momento della morte.
Io. E le cose stanno in questi termini?
Dio. Ma che sei rintronato anche te? Pensa un numero tra i 6 e i 7 miliardi. Fatto? Bene, credi che io a questo numero di esseri umani attualmente viventi sul pianeta abbia insufflato qualcosa? Cioè, io mi sarei messo lì, di buzzo buono, a soffiare vita in ognuno di voi, dal primo Sapiens all'ultimo nato di casa Savoia come se fossi un compressore? E poi mi sarei messo lì per ognuno di voi a recuperare il mio alito come se fossi un aspiratore?
Io. Ma allora come mai essi, nel tuo nome, si ergono a paladini del diritto alla vita altrui, e non pensano soltanto alla loro, di vita?
Dio. Perché loro, col mio nome, si sono costruiti – dall'alba dei tempi – una religione. Mentre tu – tu e tutti gli altri che mi prendete come un simpatico amico immaginario, o interlocutore celeste – col mio nome ci fate soltanto dei raffinati giochini intellettuali, specchio per l'allodole del vostro sfrenato individualismo. Fondate un partito, un movimento, una religione tout court: vedrete come in pochi anni diverrete anche voi legittimati a difendere il vostro buon senso.
Io. Ma io, noi detestiamo parlare al noi.
Dio. Per forza: voi siete il rovescio della vita.
Io. Buonanotte Signore. Grazie.
Dio. Buonanotte. Prego.

giovedì 25 novembre 2010

Malvino's version



Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi: altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.

Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.


Eugenio Montale, Le occasioni
Hai dimenticato date, cose, facce:
le hai lasciate chissà dove,
là rimangono come tue tracce.
Prova del nove?
Non sono morte, riposano.

Impilate negli scaffali dell’oblio,
fanno un solo faldone e non osano,
ciascuna fascicolata nel suo addio,
e mute, immobili, stanno trafitte da uno spillo,
ma a sfiorarle danno un trillo,
e quello ti risuona dentro. Robe vive.

Non rotte perse, ma possibili derive,
e non avresti mai creduto, vero?
Ricrediti: non sono morte.
Tutto nell’orma, intero,
è il passo fatto e la sua sorte.


Così con "La casa dei doganieri",
che andava letta in altro modo, forse.
Era fra le cose pensate morte,
viva d’un giorno che fu l’altrieri.
Ripristino un pristino Montale,
sulla traccia ritrovata dell'originale.


Luigi Castaldi, Un'occasione

mercoledì 24 novembre 2010

La casa dei puttanieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.


Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi: altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.


Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.


Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.


Eugenio Montale, Le occasioni
Tu non ricordi la casa dei puttanieri
a Palazzo Grazioli o nella nera
affollata magione d'Arcore o di sera
a villa Certosa dove Confalonieri
vi sostò indiscreto.


Mons. Sgreccia frusta da anni le mie mura
ma il suono vaticano non è più lieto:
la Mussola va impazzita e fa la dura
e la Carfagna offesa più non torna.
Tu non ricordi: aggiungere vergogna
alla memoria fragile finiana.


Io sono ancora il capo; ma s'allontana
lo stuolo di fedeli tra le lenzuola
spiegazzate senza tregua né pietà.
Sono ancora il capo; ma non ho più Scajola
e inizia a declinare la mia autorità.


Oh il mio Tremonti in fuga, dove m'accende
Lele Mora con una giarrettiera!
Il varco è lì? (La pillola – è urgente –
sennò non si rialza e mi riscende...)
Tu non ricordi la casa disonesta
menzognera. E io sono solo cartapesta.


Edoardo Montato, Le occlusioni




Chiedo venia per aver storpiato una delle più belle liriche del Novecento. Ma l'occasione era ghiotta e l'incipit irresistibile. Si accettano varianti: confido in quella di Giulio, auspico altresì quella di Luigi

Pigs on the Wing




If you didn't care what happened to me
And I didn't care for you
We would zig zag our way through the
Boredom and pain
Occasionally glancing up through the rain
Wondering which of the buggers to blame
And watching for pigs on the wing
You know that I care what happens to you
And I know that you care for me
So I don't feel alone
Or the weight of the stone
Now that I've found somewhere safe
To bury my bone
And any fool knows a dog needs a home
A shelter from pigs on the wing
Se non ti fossi curato di ciò che mi succedeva,
E se io non mi fossi curato di te,
Avremmo percorso a zig zag la nostra strada
Attraverso la noia e il dolore
Guardandoci ogni tanto sotto la pioggia,
Chiedendoci quale dei bastardi è da biasimare
E cercando con lo sguardo porci in volo
Lo sai che m'importa ciò che ti accade
E lo so che tu ti occupi di me
Così non mi sento solo
E non sento il peso della pietra
Ora che ho trovato un posto sicuro
Dove seppelire il mio osso
Ed anche uno scemo sa che un cane ha bisogno di una casa
Un rifugio dai porci in volo

martedì 23 novembre 2010

Alla mano tesa corrisponde un'altra mano

Quegli occhi sbarrati davanti a me. Di chi erano quegli occhi sbarrati che mi guardavano ma non ammettevano la mia presenza? Quegli occhi sbarrati davanti a cercare un'assenza. Occhi fissi, smaniosi di dire qualcosa, ma non potevano dire niente e si limitavano a un sorriso perso nel vuoto di una impossibile ironia. Quegli occhi, oh quegli occhi, se fossero durati più di un istante, se solo avessero espresso una minima parola, un sussurro, un barbaglio, un lieve sbattere di palpebre come fossero ali di farfalla. E invece no, quegli occhi se ne andarono, voltarono l'angolo, presero altra strada, volarono lontano dai miei occhi che t'amavano tanto...
Eppure...
Rifletti: se solo tu avessi potuto esprimere un desiderio in quell'istante, non detto, ma subitamente pensato e gettato via altrettanto subitamente per non essere invasa da un sogno impossibile – dimmi ch'è vero, dimmi che avresti voluto sgombrare la piazza di gente in modo da rimanere soli, io e te, sospesi, a guardarsi da fuori di noi, a baciarsi da dentro di noi sotto gli alti lampioni che illumivanano alberi e panchine. Tu dimmi se è vero, ed è vero, che avresti voluto affondare lo sguardo dentro di me, come stavo facendo io con te, di nascosto ma mica poi tanto...
Tu popoli ancora i miei sogni, i miei vissuti notturni dove si materializzano, per incanto, volti, luoghi, situazioni inaspettate. Non decifro niente, analizzo meno: prendo atto soltanto che spesso – non dico sempre, sarei un bugiardo – interpreti i panni della mia eroina preferita nei film gratuiti che il regista dei sogni gira per me tutte le notti: in essi ti muovi, agisci indisturbata e indipendente, e talvolta capita persino che ti concedi e mi trascini nel vortice d'amore. Sono i film peggiori, quelli che mi grattano via il benessere dell'alba, e disturbano poi i pensieri del giorno che si vorrebbero indipendenti, liberi dalla schiavitù di un amore perduto.

«“Nel fondo potremmo essere come in superficie, – pensò [Lucas], – però dovremmo vivere in un altro modo. E che significa vivere in un altro modo? Forse vivere assurdamente per stroncare l'assurdo, lanciarsi in sé con una tale violenza che il salto finisca fra le braccia di un altro. Sì, forse l'amore, però la otherness dura quanto dura una donna, ed inoltre solo per quanto riguarda quella donna. In fondo non esiste otherness, appena la piacevole togetherness. Certamente è già qualcosa...”. Amore, cerimonia ontologizzante, dispensatrice di essere. E per questo gli veniva in mente in quel momento ciò che avrebbe dovuto venirgli in mente fin dal principio: senza possedersi non esisteva possesso dell'alterità, e chi si possedeva davvero? Chi era di ritorno da se stesso, dalla solitudine assoluta che significa non fare assegnamento neppure sulla compagnia di se stesso, essere obbligato ad entrare in un cinematografo, in un postribolo o nella casa degli amici, in una professione assorbente o nel matrimonio per trovarsi almeno solo-fra-gli-altri? Così, paradossalmente, il colmo di solitudine portava al colmo di gregarismo, alla grande illusione della compagnia altrui, all'uomo solo nella sala degli specchi e delle eco. Ma persone come lui e tante altre, che accettavano se stessi (o che si rifiutavano, però a ragion veduta) entravano nel paradosso peggiore, quello di trovarsi forse alle soglie dell'alterità e di non poterle varcare. La vera alterità fatta di delicati contatti, di meravigliose compensazioni con il mondo, non poteva realizzarsi con un solo termine, alla mano tesa doveva corrispondere un'altra mano da fuori, dall'altro»¹.

¹Julio Cortázar, Il gioco del mondo, Einaudi, Torino 1969 (pag. 102. Traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini).  

lunedì 22 novembre 2010

L'immaginazione, delizia suprema


Il mio amore, la mia passione, la mia riconoscenza per Vladimir Nabokov è di lunga data. Avevo da poco cominciato l'università, ero innamorato (riccioli neri), quando in una trasmissione radiofonica di Radio Tre, Terza pagina, (chi era il conduttore già? Forse Alberto Castelvecchi divenuto poi un pregevole editore) venne recensita la nuova edizione de The Real Life of Sebastian Knight, edita da Adelphi. Mi precipitai in libreria, e fu devozione.
Adelphi ha pian piano riedito il pubblicabile di Nabokov. Tra l'altro i riccioli neri abitavano a due passi dalla tomba ove è sepolto l'écrivain con accanto la moglie Véra. Io ho guardato per molti anni (anche quest'anno) gli stessi panorami, gli stessi tramonti, percorso le stesse passeggiate au bord du lac di colui che, nell'Iperuranio, è lo Scrittore.
Non sono un feticista nabokoviano, per carità: l'amore sta al feticismo, come la libertà alla schiavitù. Il mio è un bene tranquillo, come quello che può tributargli un nipotino che balbetta sillabe incerte di fronte alla lingua della perfezione.
Da pochi giorni, dopo tanti anni che l'aspettavo (l'avevo solo letto in una brutta edizione degli Oscar Mondadori presa in biblioteca nella, non so quanto fedele, traduzione di Giovanni Giudici) è stato ripubblicato Speak, memory (Parla, ricordo, a cura di Anna Raffetto, traduzione di Guido Ragni). Sentite qua che attacco, sdraiatevi, sperate che il cielo sia sereno e che la luna offra una luce da sogno:

«La culla dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra. Sebbene siano una coppia di gemelli assolutamente identici, l'uomo, di regola, guarda all'abisso prenatale con più calma rispetto a quello verso cui è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci l'ora) […]
La natura si aspetta che l'adulto accetti i due neri nulla, a prua e a poppa, con la stessa imperturbabilità con cui egli accetta le straordinarie visioni intermedie. L'immaginazione, delizia suprema dell'immortale e dell'immaturo, andrebbe tenuta a freno. Per goderci la vita, non dovremmo godercela troppo.
A un tale stato di cose io mi ribello. Sento l'impulso di portare la ribellione all'esterno e di fare un picchettaggio nei confronti della natura. La mia mente ha fatto sforzi immani e reiterati per scorgere i più fiochi barlumi personali nelle tenebre impersonali che si estendono alle due estremità della mia esistenza. Che queste tenebre siano causate solo dalle pareti del tempo che separano me e i miei pugni contusi dal mondo libero in cui il tempo è assente, è una convinzione che volentieri condivido con il selvaggio più vistosamente dipinto. Ho viaggiato all'indietro con il pensiero – e il pensiero inesorabilmente si affievoliva man mano che procedevo – in regioni remote dove ho brancolato alla ricerca di una qualche uscita segreta per scoprire alla fine che la prigione del tempo è sferica e senza sbocchi. Tranne il suicidio, ho provato di tutto. Mi sono scrollato di dosso la mia identità per poter sgattaiolare, da spettro qualunque, in reami che preesistevano al mio concepimento. Ho sopportato mentalmente la compagnia degradante di romanziere vittoriane e di colonnelli in pensione che ricordavano di essere stati, in esistenze precedenti, schiavi incaricati di portare un messaggio lungo strade romane, o saggi sotto i salici di Lhasa. Ho rovistato nei miei sogni più antichi in cerca di soluzioni e di indizi – e lasciatemi dire subito che rifiuto del tutto il rozzo, abborracciato mondo di Freud*, fondamentalmente medioevale, con la sua stravagante ricerca di simboli sessuali (più o meno come andare a caccia di acrostici baconiani nelle opere di Shakespeare) e i suoi embrioncini incattiviti che spiano, dai rispettivi cantucci genetici, la vita amorosa dei genitori».

E poi uno dice il caso: Serendipità. Proprio ieri leggevo di Thomas Nagel il saggio La morte, contenuto nel suo Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986, (traduzione di Annalisa Besussi). Il saggio di Nagel è del 1970, mentre Speak, memory è del 1967. Sarei curioso di sapere se il filosofo morale americano si sia liberamente ispirato a Nabokov (e se Nabokov si sia ispirato a Lucrezio):

«Tutti noi, credo, siamo fortunati a essere nati. Ma […] non si può dire che non nascere è una sfortuna. Questo approccio fornisce anche una soluzione al problema dell'asimmetria temporale, indicato da Lucrezio. Egli osservava che nessuno prova turbamento quando medita sull'eternità che ha preceduto la sua nascita, e affermava questo per mostrare che deve essere irrazionale temere la morte, perché la morte è semplicemente l'immagine allo specchio dell'abisso precedente. Quello [?] non è vero, tuttavia, e la differenza tra i due spiega perché è ragionevole considerarli differentemente. È vero che il tempo che precede la nascita di un uomo, e il tempo che segue la sua morte, sono tempi in cui egli non esiste. Ma il tempo dopo la sua morte è un tempo di cui la sua morte lo priva. Si tratta di un tempo in cui, se non fosse morto allora, sarebbe vivo. Qualsiasi morte, quindi, implica la perdita di una parte di vita che la sua vittima avrebbe vissuto, se non fosse morta in quello o in qualsiasi istante precedente. Sappiamo perfettamente che cosa sarebbe stato per lui averla avuta invece che perderla, e non c'è alcuna difficoltà a identificare il perdente».

*Vedete? Nonostante io (ripeto) ami Nabokov non riesco a seguirlo del tutto nel suo odio viscerale verso Freud. La psicoanalisi non è adatta a lui, concedo: ma lui è un essere (scrittore) perfetto. Nel mondo delle imperfezioni, soprattutto delle imperfezioni mentali, Freud è ancora un valido sostegno per capire i traumi che devastano molti nostri congeneri (me incluso). Ma c'è da capirlo. All'epoca in cui scriveva, la psicoanalisi conobbe un successo crescente e si ebbe un'inflazione delle interpretazioni psicoanalitiche applicate. Si volle fare di Freud il passepartout che consentiva l'accesso a ogni recondito (come Marx spiegava l'economico). Purtroppo non è così; almeno: non così per tutti. Per esempio: per spiegare un Berlusconi i Tre saggi sulla sessualità bastano e avanzano.