Sulla
questione «voto palese o voto segreto» risparmiamoci l’excursus storico dalla
Grecia antica ai nostri giorni, e limitiamoci a considerare che, oggi, a lamentare
la decisione di ricorrere al voto palese lì dove era pratica corrente quello
segreto, decisione presa a maggioranza semplice dalla Giunta per il Regolamento
di Palazzo Madama, sono proprio quelli che, ieri, lamentavano l’intoccabilità
della Costituzione, chiedendone modifiche col voto a maggioranza semplice: gli
articoli della Costituzione non sono mica le Tavole della Legge, dicevano ieri,
e oggi, a sentirli, sembra che a portare giù dal Sinai il Regolamento del
Senato sia stato Mosè in persona. Non è la prima volta che i servi di Silvio Berlusconi mostrano
tenuta malferma su questioni di principio, e di certo non sarà l’ultima, ma è
che di principi ne hanno uno solo, la fedeltà al padrone. La questione di merito, in casi come questi, si riduce a
questione di metodo, e questa non può che risolversi nella presa d’atto dell’esito di un
voto. Prosaicamente: l’hanno preso in culo e devono farsene una ragione.
giovedì 31 ottobre 2013
martedì 29 ottobre 2013
lunedì 28 ottobre 2013
Bacino, ancora niente
Twitto
poco – dall’apertura dell’account ad oggi ho calcolato una media di 1,4 tweet
al giorno – e la ragione sta nel fatto che «in 140 battute entrano tre
splendidi endecasillibi o una scatarrata di insulti, ma non si riesce ad
argomentare un cazzo» (@lmcastaldi, 19.3.2012
– il primo tweet, mettevo le mani avanti). Sì, tra il certame in versi e la
rissa da suburra c’è anche la conversazione mondana, che spesso può essere
brillante anche solo monosillabando, concordo, ma quella non è il mio forte. O
c’è il link a quella strepitosa cosuccia che si è postata due minuti fa sul
proprio blog, non sarebbe un vero peccato se l’umanità se la perdesse? Tre o
quattro volte l’ho fatto anch’io, però provando subito dopo un certo imbarazzo,
e ho preferito accontentarmi che il post fosse segnalato da altri, quando capitava.
Poi ci sarebbe pure il commento televisivo in diretta, e non nego che può esser
pure divertente, ma almeno per me è sempre a un passo dal deprimente. Idem per
il ribattere ai tweet altrui, chessò – faccio un esempio – quelli di Roberto Formigoni: anche quando ti alza la
palla per darti l’opportunità di una micidiale schiacciata, e non c’è tweet che
non te ne alzi una, schiacci, rischiacci, rischiacci ancora, ma poi finisci per chiederti
«è più cretino lui a provocare o io a cascarci?». Twitter, insomma, non fa per
me. Non in scrittura per lo meno, perché in lettura lo considero un simpatico
spioncino. Simpatico, però pericoloso, perché può dare la stessa illusione di stare
a far sociologia che si può coltivare porgendo orecchio alle chiacchiere in metrò
o in fila al supermercato… Vabbe’, basta così, sennò prendo la tangente, in
fondo si trattava solo della premessa a un post che prende spunto da due scambi
di battute che ho avuto poco meno di un mese fa su Twitter.
Era la
sera di martedì 1° ottobre, tutto il social network vibrava nell’attesa di
quello doveva accadere l’indomani, e su cosa dovesse accadere sembrava non ci
fosse ombra di dubbio: Silvio Berlusconi avrebbe tolto la fiducia al governo,
questo avrebbe significato la spaccatura del Pdl, la fine del Ventennio… Figurarsi.
Figurarsi se a questa possibilità, che – occorre sottolineare – era pur sempre
soltanto una possibilità, Silvio Berlusconi non avrebbe messo riparo da par
suo. C’era solo un modo, ed era quello di non far cadere il governo, per
prendere tempo. Significava fare una micidiale figura di merda, peraltro
mostrandosi sconfitto due volte agli occhi del mondo, in casa e fuori. Il voto
a Palazzo Madama era solo di lì a poche ore dall’annuncio ufficiale che avrebbe
votato la sfiducia e i suoi fedelissimi lo avevano sottoscritto con parole di
fuoco. Il governo sarebbe caduto? Chissà. I cinque senatori a vita di fresca
nomina, qualche «responsabile», una dozzina di grillini… Poteva non cadere, e
allora la sconfitta sarebbe stata atroce. O poteva cadere, ma chi gli assicurava
che si andasse alle urne? Certo non il Quirinale. Dalle urne, d’altronde, chi
gli assicurava di non prendere legnate? E poi: avrebbe potuto ricandidarsi?
La Giunta per le elezioni e le
immunità del Senato avrebbe funzionato anche a Camere sciolte, e di lì a due o
tre settimane la Corte di Appello avrebbe emesso la sentenza sulla pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici. Poteva ricorrere in Cassazione anche su
quella, ma intanto, a Camere sciolte, non sarebbe stato più senatore e una
qualsiasi procura avrebbe potuto chiedere, e ottenere, un provvedimento di
custodia cautelare nei suoi confronti per una delle tante accuse che gli
pendono sul groppone. Che fare, dunque? Il governo, innanzitutto, non doveva
cadere. Questo gli avrebbe dato modo di congelare la scissione del Pdl che
sembrava essere cosa fatta con l’annuncio della costituzione di un gruppo
parlamentare da parte dei cosiddetti «governativi». Doveva scongiurarla. Doveva
prendere tempo. Solo così avrebbe avuto modo di rosolare le «colombe», evitando
per giunta di dover usare lo spiedo lungo che era servito per Gianfranco Fini. Non
c’era altra soluzione: doveva votare la fiducia al governo. Il resto si sarebbe
visto poi, ma votare la fiducia era indispensabile. Era un prezzo enorme? Lo
sarebbe stato per chiunque avesse avuto un minimo di dignità, anche solo due
grammi, ma la sola dignità di Silvio Berlusconi sta nella cura dei cazzi suoi.
Ecco,
per spiegare per quale ragione lo stupore generale del 2 ottobre poteva trovare
spiegazione solo nella piatta ottusità di quanti continuano a rimanere ogni
volta spiazzati dalle sue trovate solo perché usano la loro testa invece di
provare a ragionare con la sua, ci ho messo le oltre 2.500 battute spazi inclusi dell’ultimo capoverso. Ok,
sarò verboso, convengo, ma ognuno ha i propri limiti, e non sono riuscito ad
argomentare più sinteticamente. Dovendo ridurre il tutto a 140 battute
– erano le 22.00, la mattina dopo avevo la sveglia alle 5.00, un post su queste pagine mi avrebbe preso troppo tempo – potevo
far meglio di così?
Boh, non saprei dire. Anche a posteriori, non saprei dire. Sta di fatto che, anche a fronte di ciò tutto che Silvio Berlusconi ci ha mostrato di se stesso da quando è «sceso in campo» fino a quella sera, il tweet destò perplessità. Due perplessità. Una, espressa in modo garbato, rivelava il buon senso chi la sollevava, e il buon senso
– consentitemi la digressione, che piglio a prestito da Ortega y Gasset –
non viene mai meno al dovere di trattare il prossimo alla pari. Ma il buon senso è uno strumento efficace per prevedere le mosse di chi ha per solo movente la lucida disperazione di chi avverte il pericolo
–
reale o allucinato –
di aver tutto da perdere? Silvio Berlusconi è un criminale. O un malato. O entrambe le cose. Dinanzi ad un soggetto del genere la logica che regge il buon senso non può essere più efficace di quanto possa esserlo la conoscenza dell’anatomia felina nella gabbia di un leone che non mangia da una settimana.
Proprio perché non reggeva al buon senso, la previsione era probabile. E così i fatti si sono incaricati di renderla possibile fino all’inevitabile.
La seconda perplessità era espressa in tutt’altro modo. Sul fondo, riportato alla luce dalla frequentazione con gli Angelucci, era ben evidente la nascita in quel di Castellammare di Stabia, mentre tutto intorno ai margini dell’abrasione persisteva il sottile strato di smalto spennellato in quel di Londra.
Quasi un mese è passato. Silvio Berlusconi ha ormai ricompattato il partito. Pare sia intenzionato a candidare sua figlia alle prossime elezioni. Bacino, ancora niente.
sabato 26 ottobre 2013
venerdì 25 ottobre 2013
Francesco Bucci - Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante - Soc. Ed. Dante Alighieri, 2013
Dubbia
è la radice di ακρίβεια, che in Tucidide sta per diligenza, in Platone per
precisione, in Aristotele per rigore, nella
Bibbia dei Settanta per esattezza, e che arriva nel nostro lemmario dall’uso
che se ne fece nell’Ottocento tedesco, dove Akribie stava per la virtù del
filologo e dello storico che eccellono in meticolosità. Da noi divenne acribia,
e fu subito degradata a pignoleria, difficile capire se per quella nostra inclinazione
al pressappoco che nella cura minuziosa e assidua dei dettagli vede un ostacolo
alla comprensione intuitiva del tutto (dobbiamo questo cancro a Benedetto Croce), o se non fu piuttosto per come il
termine suona all’orecchio: non sentite un che di acre e di bilioso, sennò di borioso, nell’acribioso? Se
siamo costretti a sospendere la questione sul piano etimologico, perché ormai ci
è impossibile capire quanto discernere (άκρατος) e quanto assodare (βέβαιος) ci
fosse nell’ακρίβεια dei greci, non è vano porcela su quello della cosiddetta psicologia
morale, perché non c’è ombra di dubbio che, di là dai suoi risultati, l’acribia
ha un movente di natura etica, e infatti l’acribioso ha sempre un Über-Ich spietato, perciò raramente inefficace.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.
lunedì 21 ottobre 2013
Il sogno di parlare col papa
Il
sogno di parlare col papa è il ridicolo di certi atei, d’altronde il ridicolo
incombe su tutti, credenti e non credenti, sempre, perché è un infortunio della
vanità, e la vanità è una debolezza umana. Nel caso degli atei che sognano di
parlare col papa, la vanità sta nella presunzione di invincibilità dei propri
argomenti contro la fede, che già in se stessa reca un grave rischio di
infortunio, perché il miglior argomento contro la fede è l’indifferenza al
problema di Dio. L’infortunio vero, però, si realizza nel desiderio di voler
dar prova di tale invincibilità nel tenzone con chi si ritiene abbia i migliori
argomenti in favore della fede, e nel ritenere che questi sia il papa, qualunque
papa. Non è così, ovviamente, perché Tommaso d’Aquino era senza alcun dubbio un
osso più duro di Niccolò IV, e Blaise Pascal di Innocenzo X. Bene, ritenere
che, per il semplice fatto di essere assiso al vertice dell’istituzione che
custodisce e difende la fede, il papa abbia i migliori argomenti in favore dell’esistenza
di Dio, della sua incarnazione in Cristo, e via dicendo, è un implicito
riconoscimento dell’azione dello Spirito Santo nel corpo della storia. Non è un
caso, infatti, che il sogno di parlare col papa sia ricorrente anche in chi nutra
la certezza di riuscire a convincerlo circa la bontà della propria eresia o
della propria riforma.
Tolti i casi in cui l’ateo si procuri da vivere grazie
al suo ateismo e cerchi nella polemica diretta col papa un’occasione di
promozione pubblicitaria alla sua professione, il discrimine in materia sta
nell’asimmetria della finalità dell’argomentazione: dal papa all’ultimo dei
pretonzoli, e al più fesso dei credenti, chi crede vuol convertire chi non crede, a tutti i costi; gli argomenti dell’ateo, invece, sono per lo più
difensivi, e mirano a dimostrare che questa fregola è tanto più molesta quanto più
la sostanza del credo sia inconsistente e quanto più gli effetti della
conversione si rivelino sempre, in ultima istanza, deleteri.
Qui, però, occorre porre un distinguo sul «credere»,
che è termine insidioso, come dimostra il frequente uso del sofisma che
vorrebbe comunque «credente» («in altro», si è soliti dire) chi non crede
nell’esistenza di Dio, nella sua incarnazione in Cristo, e via dicendo. Il
distinguo sta nell’accezione che si intende dare a «credo»: se vuol dire «penso»,
«reputo», «ritengo», la fede non c’entra un cazzo, e il sofista andasse a farsi
fottere.
Trattandosi
di debolezza umana, possiamo dire che il ridicolo è tragicomico. Si pensi all’«ingenioso
hidalgo» che andava in giro con un catino di barbiere in testa credendolo
l’elmo di Mambrino, e lo si compari al «matematico impertinente» (Longanesi, 2005) che s’è fatto
dare pubblicamente del coglione da Ratzinger e, invece aprirgli il culo a
spicchi, ne mena vanto, oppure all’«uomo
che non credeva in Dio» (Einaudi, 2008) che al vicario di Cristo in terra ha offerto a gratis diverse pagine di pubblicità sul giornale che ha fondato, e ne va tutto fiero. In entrambi i casi, l’infortunio della vanità precede
dalla cattiva digestione di un mito: nel primo caso, fu il mito della Cavalleria a precipitare nel tragicomico il povero don Quijote de la Mancha; nel secondo
caso, è il mito di Voltaire che intrattiene carteggio con Papa Lambertini ad
aver giocato un pessimo tiro a Piergiorgio Odifreddi e a Eugenio Scalfari. D’altra
parte, chi ha studiato il fenomeno della Cavalleria sa bene che di nobile aveva solo un leggero strato di retorica in superficie. In quanto a Voltaire, anche lì si trattava di un tentativo di autopromozione.
In capo al post ho riprodotto uno scorcio di pag. 9 del numero di Panorama del 19 marzo 1970, a firma di Guido Calogero. Se non sapete chi fosse, possiamo cavarcela in meno di tre righe: in quanto a onestà intellettuale, Eugenio Scalfari dovrebbe fargli una pippa; in quanto a vastità di sapere e a profondità di pensiero, Piergiorgio Odifreddi non ne vale un pelo del cazzo. E tuttavia anche Guido Calogero era un uomo: anche a lui scappò il sogno di parlare col papa, anche se si trattava solo di un espediente retorico per riempire la paginetta della sua rubrica. Ve ne risparmio il contenuto, a grandi linee dirò che si trattava di una peroratio a Paolo VI, che due anni prima, con l’enciclica Humanae vitae, aveva gelato le speranze dei cretini che nel Concilio Vaticano II avevano intravisto chissà cosa. Vi offro solo il finale, per darvi la misura del ridicolo nel sogno di parlare col papa.
sabato 19 ottobre 2013
[...]
«Signore,
col pretesto di tenere un bordello,
vostra
moglie vende stoffe di contrabbando!»
Si
parva licet, Michele Santoro è passato dall’invettiva di Tacito al pettegolezzo
di Svetonio, che nel giornalismo è passo assai più lungo di quello che dalla
fermata d’autobus davanti alla Procura di Milano ha portato Paolo Brosio a Medjugorje, ed è passo
irreversibile. A questo punto è inutile dirgli: «Basta con le olgettine,
raccontaci il paese», il suo senso critico è irrimediabilmente sceso ai livelli
di Alfonso Signorini, di cui vuol essere la negativa fotografica. Che glielo dica Massimo
Cacciari o un coro greco di cassintegrati, fa lo stesso: si parva licet, in
Caligola vede ormai solo il vizioso, eventualmente il folle. Con ciò, l’imperatore
smette di essere problema politico e diventa questione morale, e le questioni
morali, si sa, amano andare fuori contesto, di là dai casi che le sollevano, si fanno apologo e, quando trovano una persona per darle antonomasia, si spersonalizzano... In fondo, il favore più grosso che Servizio Pubblico ha finora fatto a Silvio Berlusconi non è stato rilanciarlo alle ultime elezioni politiche, ma farlo diventare una categoria morale. Come il tributo a un monumento.
giovedì 17 ottobre 2013
Io sto con Gnocchi e Palmaro
Ho
rinunciato ad aprire una cartella di collazione degli atti e dei detti notevoli
di Bergoglio, sapevo fosse una fatica inutile, ci avrebbero pensato gli ultras
cattolici ai quali sta sul cazzo fin da quel «buonasera» di sei mesi fa, nel
caso avrei potuto attingere dalla cartella che aprirono quella stessa sera. Lì
dentro, giorno dopo giorno, hanno ficcato tutto quello che Bergoglio andava
facendo e dicendo, agitando nei loro cuori tutta la gamma delle emozioni dallo
sgomento allo sdegno. Li capisco, poverini, anche per loro Bergoglio non è che una bagascia,
e per chi ha un bisogno quasi biologico di stare inginocchiato davanti un papa
dev’essere un tortura indicibile sta lì col ginocchio piegato, ma senza poterlo
poggiare, perché al posto di un pontefice ci sta un esperto di marketing chiamato a rimettere in sesto la ditta.
Li capisco, perché sto in analoga condizione: ho un palmo della mano
destra sospeso in aria, pronto a mollare uno schiaffone, ma il cerone
sul volto del cattolicesimo post ratzingeriano è così abbondante che la mano vi
impatterebbe scivolando via, per giunta tutta impiastricciata, ci farei la figuraccia di chi scivola su una buccia di banana. Io, il senzadio con l’hobby del decostruzionismo, e loro, le pecorelle più candide nel gregge,
aspettiamo un altro papa e rimpiangiamo quello andato in pensione: loro per
poggiare il ginocchio, io per sferrare lo schiaffone.
Che
chiavica di papa, questo Bergoglio. Anche il papa più sifilitico che ci abbia
regalato il Medioevo o il Rinascimento sembra un Gigante della Fede al suo
confronto: la Tradizione era meglio conservata in una sua pustola che in questa
patetica messinscena del poverello d’Assisi che gira in scarpe da tranviere e con
borsone da veterinario. Il cattolicesimo non è questa melassa, è un orrido viluppo di bassissimi interessi coperto da un affascinante velo intessuto di sofismi. Ora arriva questo pretonzolo col sorriso à la Stan Laurel e con la zeppola à la Helenio Herrera e degrada il mostro a un cartone animato, bleah.
Perciò io sto con Gnocchi e Palmaro, i due licenziati in tronco da Radio Maria per aver detto che a loro questo papa non piace, argomentando con la più pura ortodossia, al confronto della quale le bubbole che Bergoglio ha sbaccellato a Scalfari e a Spadaro hanno dignità di eresiucole stortignaccole: il cattolicesimo
genuino è il loro, quello di Bergoglio è una volgare contraffazione per fottere
il mercato. Sto con Gnocchi e Palmaro, a loro va tutta la mia solidarietà, e con
loro levo al cielo la dolente preghiera: «Aridacce un puzzone».
[...]
Nel gran
discutere intorno ai funerali religiosi che le gerarchie ecclesiastiche hanno
negato a Erich Priebke mi pare non si sia dato il giusto rilievo al fatto che
il capitano delle SS fu battezzato nel 1948. Concedergli il battesimo, allora,
e negargli i funerali religiosi, oggi – che carognata!
Πολεμική τέχνη / 2
«Sapeste la sorpresa e l’emozione che si
provano nel
ricevere a casa propria un’inaspettata lettera di un Papa»
Piergiorgio
Odifreddi (la Repubblica, 24.9.2013)
«Buongiorno, Santità, sono sconvolto, non
m’aspettavo
che mi chiamasse… Posso abbracciarla per telefono?»
Eugenio
Scalfari (la Repubblica, 1.10.2013)
Alcuni
giorni fa mi sono intrattenuto sulla πολεμική τέχνη, ho detto che può essere
considerata come la continuazione del duello con altri mezzi, ma che, col
differire il fine di annichilire il nemico in quello di dimostrare che l’avversario
ha torto, perde l’equipollenza geometrica che ha col duello nel punto della
contestabilità dell’esito, perché l’argomentazione ha un limite insuperabile
rispetto a quello della forza bruta, che sta nell’aleatorietà del suo successo,
sicché puoi avere i migliori argomenti contro chi ne ha di pessimi, e usarli nel
modo migliore, ma questo non ti assicura affatto che la vittoria ti sia
riconosciuta da chi è stato chiamato ad arbitrare la contesa, tanto meno
dal soccombente, se pure chi
arbitra la contesa l’abbia dichiarato sconfitto: a colpi di randello non c’è
discussione, in tutti i sensi.
Oggi
vorrei soffermarmi su quello che in buona evidenza è un paradosso: se deporre
il randello per impugnare l’argomento è da considerare un salto qualitativo sul
piano antropologico, com’è che il nuovo strumento si rivela meno efficace del
vecchio? La logica che muove l’evoluzione, qui, non è in favore della soluzione
migliore? In altri termini: abbiamo deciso di rinunciare all’inequivocabilità
dell’esito di un contenzioso risolto a colpi di randello solo per ridurre il
numero di teste fracassate? Se così fosse, si dovrebbe dedurre che la logica
che informa l’evoluzione, qui, mira a salvare teste piuttosto che a selezionare
quelle migliori. D’altra parte, non sarebbero quelle migliori ad essere
selezionate grazie al randello. E dunque: a cosa mira questa evoluzione?
Levandole
il connotato teleologico che qui le abbiamo appioppato solo per dare un
significato motivazionale a quella che abbiamo chiamato «logica», potremmo dire
che sostituire argomento a randello sposta l’arbitrato dalla
«natura»
alla
«società»
(e
metterle tra virgolette come ho fatto con «logica» mi auguro lasci intendere il
connotato che appioppo ai due termini).
La polemica come continuazione del duello con altri mezzi, infatti, ha il suo
prodromo storico nel duello che si svolge nell’arena, dinanzi a un pubblico. Quando
il pubblico comincia a cambiare, l’arena si trasforma in piazza e poi in foro
tribunalizio: a quel punto il salto è compiuto, e il duello affida l’esito del
cimento a un’opinione
«sociale» che si arroga una prerogativa prima «naturale». Siamo al punto in cui il duello, ormai già polemica, è sotto la stessa norma che informa l’opinione pubblica del momento storico in cui si consuma la contesa: non può che consumarsi entro la sfera in cui è la stessa opinione pubblica a darsi norma. La retorica, qui intesa come tecnica dell’argomentazione, diventa lo strumento che nel formare un’opinione pubblica pre-giudica il contenzioso, sicché la polemica comincia a diventare sempre più spesso il modo per saggiare la forza dei contendenti sul piano della
«logica» che informa
la «società»: le teste fracassate dai randelli cedono il passo agli argomenti che hanno il difetto di essere poco persuasivi.
Qui credo che non sia superfluo ripetere ciò che ho scritto in un altro post. Un buon
argomento –
scrivevo –
deve essere corretto, valido e persuasivo; è corretto quando poggia
su premesse incontestabili, valido quando non incorre in tautologie o
contraddizioni, persuasivo quando risulta efficace. Non basta che sia solo
efficace, dunque, a renderlo buono, perché la persuasività si può ottenere
anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che
prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza; né basta che sia valido,
perché il rispetto della logica proposizionale non assicura un risultato
accettabile partendo da false premesse; tanto meno basta sia corretto, perché
anche partendo da premesse autoevidenti si può arrivare a conclusioni errate
alterando il procedimento attraverso il quale l’argomento viene a costruirsi. (Sul fatto che la «bontà» del «buon» argomento non debba intendersi come qualità
morale, e perché, e cosa implichi il fatto, rimando al post in questione.) Il punto sul quale credo sia utile soffermarsi è che un argomento, pur valido e corretto, non è detto che sia necessariamente persuasivo. A costo di tediare il mio lettore, ripeto ancora:
la persuasività si può ottenere
anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che
prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza. E di cosa «vive» il «sociale», se non di quelle premesse che riescono ad apparire ben salde in un determinato contesto storico? Cosa
«muove»
il «sociale», se non la ricerca della più convincente dissimulazione dell’utile nel giusto, del senso comune nel vero e dell’acconcio nel bello?
Il luogo in cui si consuma la polemica, dunque, ne prefigura in buona misura
l’esito. E le tesi che scendono nell’agone, ancorché male argomentate, non vi scendono mai sguarnite dell’arma persuasiva che i contendenti ritengono più forte. Perciò
– scrivevo –
l’argomentare racconta storia e carattere di chi argomenta, non già del Logos che si incarna in chi ne racconta l’incarnazione: la teoria dell’argomentazione non è l’esegesi di una narrazione mitica, ma il tentativo di decostruire la metafisica. E cosa vuoi decostruire del cattolicesimo, cretino, se nell’accingerti a polemizzare con un Papa ti sdilinguisci in carinerie?
[...]
lunedì 14 ottobre 2013
Sansepolcristi 2.0
Beppe Grillo
e Gianroberto Casaleggio hanno tutto il diritto di pretendere che i parlamentari
del M5S desistano da ogni iniziativa volta a modificare la Bossi-Fini: da
candidati hanno assunto l’onere di rispettare il vincolo di mandato e sottoscrivendo
il Codice di comportamento degli eletti si sono impegnati all’attuazione del
programma presentato agli elettori, che all’immigrazione non dedica neanche un
rigo. Questo, in quanto al metodo. In quanto al merito, invece, c’è da dire che
solo chi si ostina a considerare il grillismo come una mutazione in seno al
popolo della sinistra può concedersi il lusso di stupirsi per il solenne
cazziatone che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno riservato ai
senatori del M5S che in Commissione Giustizia hanno votato in favore di una
revisione del reato di clandestinità. È che il grillismo pesca elettori ed
eletti nel popolo della sinistra, ma ha poco o niente da spartire col
tradizionale patrimonio di valori della sinistra, se non con quella sinistra
che un secolo fa fu espulsa dal Partito socialista italiano per farsi fascista di
lì a qualche anno.
Rinnovo l’invito di qualche mese fa a comparare il programma
del M5S e quello di CasaPound, soprattutto ai punti relativi a Economia,
Welfare ed Europa: il minimo comune multiplo sta nel «socialismo» mussoliniano
del 1919. A scanso di fraintendimenti, però, sarà il caso di ribadire
che quel «socialismo» non è ancora
il fascismo del 1922, per quanto sia già lontano migliaia di anni luce dal solidarismo
internazionalista di Turati, Albertelli, Treves & c., e non è ancora il fascismo
del 1936, ma è già nazionalista, sciovinista e revanchista, e non è ancora il
fascismo del 1938, ma già ha un’idea di nazione che fonda sullo ius sanguinis. D’altra
parte, quando Mussolini è prossimo all’espulsione dal Partito socialista
italiano, fa parte dell’opposizione interna che viene detta della «sinistra
estrema»: il salto che spicca a destra prende lunga ricorsa da quel
massimalismo che ha vocazione più facinorosa che rivoluzionaria. Una banda di
pericolosissimi cialtroni che nella crisi dello Stato liberale troveranno il
terreno fertile per reclutare rabbia e paura.
È la stessa strada che tentano i sansepolcristi
2.0 del M5S, dunque non c’è affatto da stupirsi, tanto meno da scandalizzarsi,
che al momento siano costretti a lisciare il pelo alla bestia: la Bossi-Fini non si tocca, i sondaggi dicono che alla gente piace.
domenica 13 ottobre 2013
[...]
[I post
che ho dedicato alla Vocazione di San
Matteo del Caravaggio (1, 2, 3) mi hanno procurato l’immenso piacere di uno
scambio epistolare con un autorevole studioso di storia dell’arte nei cui
confronti ho sempre nutrito immensa stima. Non me ne ha fatto divieto, ma
eviterò di farne il nome, perché il fatto che mi abbia contattato per dare il
suo fin troppo lusinghiero avallo alle mie riflessioni potrebbe metterlo a
rischio di qualche speciosa molestia di rimbalzo. Se ne parlo, d’altronde, è
solo per dare una spiegazione al post qui sotto, che è stato scritto su suo espresso
invito, e che senza questa premessa potrebbe essere letto senza riuscire a coglierne il registro ironico, peraltro esplicito fin dal titolo: in una delle sue e-mail mi ha chiesto di produrgli un esempio di quelle
disavventure che capitano – avevo scritto in risposta al commento di un lettore – a «tanta critica d’arte, che, per
liberarsi dal rigore dell’analisi scientifica dell’opera (contesto storico,
tecnica, ecc.), vola per i cieli dell’interpretazione arbitraria» e «piega gli
elementi formali dell’opera d’arte alla concettuosità di chi la guarda», sicché
accade che «la tela deve adattarsi a ciò che l’occhio vede in essa». Quanto segue, con dedica, è l’esempio richiestomi.]
Il Tondo Doni come psicobiografia gay di Michelangelo
È opinione
corrente che la scena dipinta da Michelangelo Buonarroti nel Tondo Doni raffiguri Maria nell’atto di prendere il piccolo Gesù dalle braccia di Giuseppe
che glielo sta porgendo. Tutto sbagliato, si tratta esattamente del contrario: è
Maria che porge Gesù a Giuseppe. Questa lettura consente di liberare l’opera
dalla fredda analisi formale che la liquida come «punto di partenza del Manierismo» per
farne un vero e proprio diario dell’anima dell’artista.
Prima di passare a
considerare i significati che si sprigionano dall’opera se letta in questo modo,
diciamo subito che questa lettura non confligge con quanto è assodato sul piano
storico in relazione a ciò che ne spiega genesi e struttura. Se infatti la
scena starebbe a rappresentare il «dono» di Gesù che Giuseppe fa a Maria, in evidente
allusione al cognome del committente, Agnolo Doni, la lettura alternativa di
Maria che «dona» Gesù a Giuseppe non la contraddice.
Peraltro, le posture dei
tre personaggi della Sacra Famiglia sono compatibili con entrambe le letture,
anzi, quella alternativa qui proposta risulta ancora più convincente. Gli occhi di Giuseppe,
infatti, sono rivolti verso il «dono», com’è naturale in chi compia l’atto di
riceverlo, mentre in Maria, che lo sta «donando», analogo sguardo è
giustificato, dato il gesto di porgere il «dono» a chi è posto alle sue spalle, dalla
premura di verificare se la presa sia sicura.
Non è tutto, perché è evidente sotto il piede destro di Gesù un lembo della veste di Giuseppe, nella quale è verosimile che il piccolo stia per essere avvolto.
Non così nel modo in cui è raffigurata Maria, che in grembo ha un libro del quale si sarebbe liberata se stesse per accogliervi il bambino.
Che sia Maria a porgere Gesù a Giuseppe, dunque, oltre che possibile è assai più verosimile che viceversa.
Qui occorre rammentare che Michelangelo restò orfano di madre alla tenera età di sei anni: come non pensare al gesto della madre che prima di morire affida il figlio al padre? Si badi bene: il piccolo perde la madre mentre è in piena fase edipica. Non c’è bisogno di salire sullo scaletto per tirar giù dagli scaffali alti i classici della psicoanalisi per trovare conferma che qui siamo dinanzi ad uno dei quadri clinici che predispongono il soggetto ad una conversione nevrotica che possa sfociare in una scelta omosessuale. Bene, basta spostare lo sguardo alla scena rappresentata sullo sfondo del Tondo Doni per cogliere, nell’eloquenza simbolica del gruppo di efebi nudi, tutta la gamma dei correlati comportamentali dell’omofilia: dal gioco e dall’abbraccio che sono la solare rappresentazione della felice e innocente pederastia in Platone e in Virgilio,
al torvo cipiglio di sfida e alla presa che ghermisce la preda sessuale che caratterizza il desiderio fattosi ossesso.
Concludendo, e senza tema di essere smentiti, il Tondo Doni è la psicobiografia gay di Michelangelo.
[...]
«La
lettera va presa alla lettera»
Jacques
Lacan
Devo una risposta a Matteo Mainardi, che mi rimprovera di aver riproposto su queste pagine l’intervista
nella quale Gianfranco Spadaccia spiegava le ragioni del no radicale all’amnistia
del 1981: dice che il contesto era diverso da quello odierno, che a quei tempi
le patrie galere non erano sovraffollate come adesso, che allora l’amnistia era
la «presa per il culo» che il «sistema» usava «per non riformare se stesso». Si
tratta di un’obiezione che avrebbe un peso, se in quell’intervista Gianfranco
Spadaccia non motivasse il no radicale a quell’amnistia sulla base di una questione
di principio, anzi, di almeno tre principi, che definisce «temi caratteristici
dell’opposizione radicale». In pratica, il richiamo al fatto che la situazione
carceraria del 1981 fosse diversa da quella del 2013 è strumentale e surrettizio.
In tal senso, torna utile analizzare gli argomenti di Gianfranco Spadaccia. In
primo luogo, afferma che il problema
c’è, ma che i radicali non se ne
ritengono corresponsabili, dunque non si sentono chiamati a risolverlo, tanto
meno ricorrendo alla soluzione prospettata da chi l’ha causato. Non mette affatto in
discussione lo «stato di necessità», dunque, e tuttavia rigetta la proposta
dell’amnistia come soluzione. In secondo luogo, afferma che i radicali la
rigettano, perché non è soluzione strutturale, ed è un rimedio dall’effetto di breve durata. Infine, elenca i punti di una riforma del sistema penitenziario, e più in
generale del compartimento della giustizia, che dice alternativa al
provvedimento di clemenza.
Suppongo sia superfluo rimarcare le differenze con l’odierna
posizione dei radicali sulla questione, di qui la ragione del mio post, che era
una risposta all’accusa di incoerenza che i radicali rivolgono in questi giorni a Beppe Grillo: alcuni
anni fa si esprimeva in favore dell’amnistia e oggi è decisamente contrario. Ricorrendo alla stessa obiezione offerta da Matteo Mainardi per dare spiegazione dell’evidente
torsione subita dai «temi caratteristici dell’opposizione radicale», anche
Beppe Grillo potrebbe appellarsi alle mutate condizioni. Ovviamente si tratterebbe
di una lettura diametralmente opposta a quella odierna dei radicali, e ispirata
dai temi caratteristici dell’opposizione grillina, che non si fa alcuna fatica a riconoscere come diametralmente opposti a quelli odierni dei radicali, che hanno subito anch’essi
un’evidente torsione rispetto al passato.
Per inciso, inoltre, è da considerare che Detenuto in attesa di giudizio è del 1971 e offre uno spaccato del mondo carcerario italiano che non è meno infame di quello odierno. Cosa cambia, dunque? Per Matteo Mainardi, il fatto che
«oggi
siamo alla condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo». Sta insinuando che Gianfranco Spadaccia dovesse aspettare la condanna della Corte Europea per farsi un’idea sui diritti dell’uomo?
Il fatto è che, se una
questione di principio può farsi elastica a seconda del contesto, l’elasticità deve
essere concessa sia alla vacca sia al mulo. Poi, sì, possiamo entrare nel
merito e, a piacere, esprimere la nostra preferenza per la vacca o per il mulo,
ma questo non toglie che a entrambi puzzi il culo. Levando l’eccesso di colore
alla metaforetta, in entrambi i casi il principio si è adattato al contesto,
secondo quanto è parso conveniente: a Beppe Grillo oggi conviene fare il forcaiolo anche a discapito della sensibilità mostrata in passato riguardo alla condizione dei detenuti nelle carceri italiane; in quanto a Marco Pannella,
sull’amnistia si gioca il tutto per tutto, non avendo più nulla da perdere, e questo a discapito di quella che in passato era la soluzione strutturale al problema.
Ma a Matteo Mainardi devo
anche alcune delucidazioni che in futuro potranno essergli utili ad evitare
increspature al suo bel garbo.
Primo: la mia non è stata una «sparata». Consigliavo solo di «dare una guardatina in soffitta» prima di dare per
scontato che i «temi caratteristici dell’opposizione radicale» siano gli stessi
da sempre: uno solo, in realtà, è da sempre uguale a se stesso, immutabile e
costante, ed è l’opportunismo, spina dorsale di quella «durata» che esalta i
gregari e i famigli di Marco Pannella come
il semplice fatto che la Chiesa stia lì da due millenni
dà ai cattolici dà la certezza che Dio
esista veramente.
Secondo: il
presunto mio «antiradicalismo». Su questo punto, con infinita dolcezza, vorrei
far presente a Matteo Mainardi che io non sono affatto «antiradicale», anzi, mi
ritengo assai più radicale di lui. La ragione è semplicissima: lui sta ancora dietro
ad uno che ha corrotto il pensiero radicale ad una pratica di ipocrisia,
cinismo e opportunismo, io non più.
sabato 12 ottobre 2013
Aspetta concedendoti pazienza
In prossimità del congresso di Radicali italiani, ti sarai sentito rivolgere l’invito a iscriverti. Un consiglio: aspetta qualche anno.
Il
giorno che Marco Pannella tirerà le cuoia – e sarà sempre troppo tardi – l’aggettivo
«radicale» potrà finalmente liberarsi dalle aberranti accezioni che ha assunto negli
ultimi cinquant’anni diventando un termine che ormai esprime solo la variante
di un quadro nosografico, quello di una psicopatologia di gruppo dal profilo
settario e dalla leadership di tipo carismatico affidata ad un soggetto
seriamente disturbato.
Non sarà semplice, e ci vorrà molto tempo, ma «radicale»,
allora, potrà tornare a prendere il significato che ebbe con James Mill e
Jeremy Bentham, con Jules Ferry e Leon Gambetta, con Agostino Bertani e Felice
Cavallotti, con Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, per poi andare a smarrire il
suo senso originario nell’abbaglio delle fanfaluche capitiniane, nella scimmiottatura
della pratica gandhiana e da ultimo, non fosse bastato il lungo rimasticare i
rancidi avanzi del modernismo murriano, nel disseppellimento del Benedetto
Croce più putrefatto, quello del neoidealismo.
Fino a quel giorno, l’aggettivo
«radicale» resterà sequestrato, inservibile a dare un nome a quei democratici
che ritengono possibile coniugare liberalismo e socialismo, emendandoli di ciò
che li ha resi incompatibili nel XX secolo: fino a quando «radicale» sarà
sinonimo obbligato di «pannelliano», questa operazione sarà impossibile, ed è
per questo che augurarsi la morte di Marco Pannella esprime una tensione ideale
che va ben oltre l’auspicio della rimozione di un ostacolo fattosi
insuperabile.
Certo, dopo il funerale occorrerà darsi da fare per disperdere i
parassiti che gli sono cresciuti sotto le ascelle, ma incoraggia il dato di
esperienza: quando il cane muore, le zecche muoiono con lui o saltano su un
altro groppone.
Aspetta qualche anno, dunque. Aspetta concedendoti pazienza.
giovedì 10 ottobre 2013
mercoledì 9 ottobre 2013
[...]
I radicali hanno scoperto che Grillo era a favore dell'amnistia, un tempo, e per ragioni diametralmente opposte a quelle per le quali è contrario, oggi. Prima di lapidarlo, sarebbe il caso di dare una guardatina in soffitta.
Del più e del meno (più del meno che del più)
Giorgio
Napolitano invia un messaggio al Parlamento. Ne ha facoltà, lo prevede la
Costituzione: «Può inviare messaggi alle Camere» (art. 87). Sia chiaro: «può»,
nessuno lo obbliga. E infatti abbiamo avuto più Presidenti della Repubblica che
messaggi dei Presidenti della Repubblica alle Camere, sarà che l’iniziativa del
Quirinale non ha mai avuto alcun effetto vincolante, come dimostra l’ultimo dei messaggi
al Parlamento, una dozzina d’anni fa: lo inviò Carlo Azeglio Ciampi, aveva a
oggetto la necessità di un maggior equilibrio nel sistema dell’informazione, e
fece un buco nell’acqua, se ancora oggi siamo dietro al Botswana nella apposita classifica. Non che sia andata diversamente nei casi precedenti,
sarà per questo che il Quirinale ricorre al messaggio alle Camere quando
proprio non può farne a meno, in pratica quando vuole salvare la faccia coi posteri
e far scrivere agli storici: «Il Presidente della Repubblica fece tutto quanto
era in suo potere».
È il paradosso della cosiddetta Costituzione materiale: il
Quirinale esterna un giorno sì e l’altro pure, praticamente su tutto, spinge,
preme, fa ricattucci e dispettucci, incontra ufficialmente Tizio e ufficiosamente Caio, cova governi e detta l’agenda legislativa,
ma con l’unico strumento che gli è dato per farsi sentire non ottiene mai un
cazzo.
Qui, con il messaggio inviato da Giorgio Napolitano alle Camere, è in
questione lo stato delle carceri in Italia, una situazione vergognosa che in
sede europea ci ha fatto cumulare richiami, censure e sanzioni a righe, a
quadretti e a pallini, fino all’ultimatum che ha scadenza tra sei o sette mesi:
se la condizione dei detenuti resta disumana com’è, l’Europa ci fa un culo
grosso come una casa.
Condizione disumana da almeno tre lustri: non troppo
diversa, insomma, da quella che Giorgio Napolitano trovò nel 2006, quando fu
investito del suo primo mandato. E qui sorge spontanea la domanda: perché manda
il messaggio alle Camere solo adesso? Pare che anche adesso in Parlamento
manchino i numeri per un provvedimento di clemenza e, in quanto alle altre
soluzioni che prospetta, potrebbero esserci i numeri, ma pare manchi il tempo.
Vorrà si possa scrivere che «il Presidente della Repubblica fece tutto quanto
era in suo potere», non gli si può dar torto. In ogni caso, è evidente che il problema morale riceve dalle minacce di Strasburgo un considerevole aiutino.
D’altronde, bisogna essere onesti: Giorgio Napolitano non è mai stato insensibile al problema. E giustamente ci tiene a rammentarlo anche in questa occasione: «Com’è
noto, ho già evidenziato in più occasioni la intollerabilità della situazione
di sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari. Nel 2011, in
occasione di un convegno tenutosi in Senato, avevo sottolineato che la realtà
carceraria rappresenta “un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al
limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già
prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima
attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente
nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”».
L’accenno è al convegno
promosso dai radicali e al quale Giorgio Napolitano partecipò per far cessare l’ennesimo
sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, che ennesimamente minacciava di lasciarsi morire sotto il Palazzo, e il Palazzo, si sa, non vuole immondizia davanti al portone. In quella occasione, Giorgio Napolitano riconobbe
le catastrofiche condizioni in cui versa la giustizia in Italia e parlò di una
«prepotente urgenza» di soluzioni adeguate, possibilmente strutturali (fece
cenno a iniziative del Governo per l’ampliamento della capienza penitenziaria e
per il varo di norme che consentissero pene alternative alla detenzione in
carcere, stigmatizzando l’umoralità sociale perennemente oscillante tra
«ciclica depenalizzazione e ripenalizzazione»), «non escludendo alcuna ipotesi»
in grado di colmare l’«abisso» tra il dettato costituzionale e lo stato dei
fatti. Rammentò inoltre che più volte era «tenacemente intervenuto nei già trascorsi cinque anni di mandato su preoccupazioni ed esigenze relative sia
al superamento di gravi inadeguatezze e insufficienze del sistema giustizia in
Italia sia al rispetto degli equilibri costituzionali tra politica e
giustizia», ma che di più non poteva e dunque non voleva fare, riconoscendo i
meriti di Marco Pannella nell’aver sollevato la questione del sovraffollamento
carcerario, precisando che tale riconoscimento andava «al di là di tutte le
differenziazioni legittime rispetto a suoi giudizi o a sue iniziative». Come a dire: riconosco il problema, ma non strusciarti addosso, ché con la bava mi rovini il Caraceni. Il
termine «amnistia» non gli scappò neanche nella più allusiva delle possibili
perifrasi: si limitò a dire che «dalla politica devono venire le risposte», ma
rammentò che «la politica è debole e divisa, incapace di produrre scelte
coraggiose».
Tant’è, ma in quell’intervento Pannella lesse la promessa di un
appoggio alla sua battaglia, la sola via di uscita che era riuscito a trovare per venir fuori dal solito vicolo cieco in cui si era andato a infilare coi suoi folli rilanci.
Il solenne messaggio alle Camere arriva solo adesso. Per chi conosce Marco Pannella non c’è da stupirsi se ai
radicali è già stata data la consegna di considerare quello odierno il
risultato ottenuto grazie a due anni di insulti rivolti al Quirinale: da
«uomo di grande esperienza
interiore e di grande saggezza», l’indomani del convegno, alle peggiori
accuse e alle più pressanti molestie per due anni, con una breve tregua per la
nomina di Emma Bonino alla Farnesina, fino alla minaccia di denuncia per
tradimento della Costituzione, non più di qualche settimana fa, ma oggi – non c’è
da dubitarne – di nuovo «uomo di grande esperienza interiore e di grande
saggezza», non più «antropologicamente stalinista», non più «tecnicamente
criminale». Non c’è da scandalizzarsi, coi radicali funziona così. È perciò che
chi li conosce li evita.
Ma torniamo a Giorgio Napolitano. Le agenzie battono
la notizia che chiede al Parlamento un’amnistia. Non è così: prospetta «diverse
strade», e quella dell’amnistia è citata per ultima. Innanzitutto, indica come soluzione la
riduzione del numero complessivo dei detenuti «attraverso innovazioni di
carattere strutturale» («messa alla prova», pene alternative a quella
carceraria, riduzione dei casi in cui sia prevista la custodia cautelare in
carcere, «accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri
possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine»,
modifiche della «ex-Cirielli», «incisiva depenalizzazione d[i alcuni] reati»),
poi suggerisce «l’incremento della ricettività carceraria», che pure ritiene «insufficiente
rispetto all’obbiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla
sentenza della Corte di Strasburgo». In pratica, vi è un più che implicito
rigetto dell’amnistia come «soluzione strutturale», che è la bislacca tesi di Marco Pannella, come se le amnistie succedutesi al ritmo di una ogni tre anni, fino al 1991, avessero mai strutturalmente risolto un cazzo. E tuttavia, dicevamo, il messaggio alle Camere passa per essere un
invito al Parlamento a licenziare un provvedimento d’amnistia.
Questo accade
in una curiosa contingenza, quella nella quale ogni misura di clemenza corre il
rischio di sembrare necessaria solo adesso che Silvio Berlusconi è stato
condannato in via definitiva. Non c’è affatto da stupirsi, dunque, che l’«ostilità agli
atti di clemenza», che lo stesso Giorgio Napolitano non fa fatica a riconoscere
nell’opinione pubblica, dia segni
di subita recrudescenza da parte di chi sospetta – poco importa quanto a
ragione – che questa sia la via di fuga offerta a Silvio Berlusconi. Poco
importa quanto a ragione, perché il messaggio alle Camere arriva intempestivo.
Ce n’è per scontentare tutti, perfino i radicali, perché la soluzione dell’amnistia
è rubricata dal Quirinale a misura tampone, tutt’altro che a «soluzione
strutturale». Ma ai radicali conviene far finta di niente e incassare il
messaggio alle Camere come una vittoria. Non c’è da dubitare che sapranno
chiudere un occhio, assecondare l’impressione prevalente che Giorgio Napolitano
abbia chiesto al Parlamento l’amnistia, e solo l’amnistia, e così archiviare il
flop della raccolta delle firme per i loro dodici referendum: poco più di 150.000
firme – meno di un terzo di quante erano necessarie – per i sei referendum del
pacchetto «Cambiamo noi» e poco più delle 500.000 necessarie per gli altri sei
del pacchetto «Giustizia giusta», mentre il margine di sicurezza a fronte delle
immancabili contestazioni d’ordine burocratico è sempre stato fissato dagli
stessi radicali intorno alle 550.000 firme. Anche ammesso che la Corte di
Cassazione non abbia a sollevare eccezioni di legittimità, e in verità sui
primi due quesiti qualche dubbio è sembrato subito farsi strada, non v’è alcuna
certezza che le firme valide siano in numero necessario perché gli italiani
possano esprimere un parere almeno su sei schede referendarie.
Un flop che ha
dell’eclatante, se si pensa alla facilità con la quale in passato i radicali
hanno raggiunto l’obiettivo oggi mancato, ma che era da ritenersi largamente
previsto già in partenza, tenendo conto del crollo verticale di consenso che hanno
avuto negli ultimi anni. Mai così bassa la percentuale ottenuta alle ultime
elezioni politiche (0,19%), mai così basso il numero degli iscritti, mai così
aspre le polemiche interne riguardo alle questioni di sempre, ultimamente avvelenate
dalle conseguenze sempre più gravi dell’involuzione settaria di cui
l’area radicale soffre da almeno un quarto di secolo. D’altra parte, sul logorio di uno strumento come quello referendario era stato lo stesso Marco Pannella a insistere per anni: la voglia gli è tornata solo quando ha ritenuto necessario bilanciare a destra, col pacchetto «Giustizia giusta», l’apertura a sinistra che qualche scavezzacollo aveva azzardato col pacchetto «Cambiamo noi». Operazione riuscita: scavezzacollo bilanciato, anzi, annichilito.
Nel prossimo fine
settimana si terrà il Comitato nazionale di Radicali italiani, il soggetto
politico che nella cosiddetta «galassia radicale» ha dato sempre più evidenti
segni di insofferenza all’autocrazia di Marco Pannella, sempre più caso
clinico che problema politico. Per gli amanti del genere – necessario un
pizzico di perversione – si annuncia uno spettacolo imperdibile.
Per il
segretario ed il tesoriere di Radicali italiani, «siamo stati battuti da uno
Stato che ha impedito a milioni di italiani di firmare, fuorilegge anche
rispetto a una disciplina referendaria fatta apposta per sabotare le iniziative
dei cittadini a meno di non esser disposti a violarla. Ostacoli che conoscevamo
già in partenza ma che non siamo riusciti a superare. Questi referendum [i sei
del pacchetto «Cambiamo noi»] non si terranno anche perché non sono stati
voluti da nessuna componente della partitocrazia, quella progressista in
maniera più scandalosa di quella destra».
Un modo come un altro per rimuovere il
trauma: se si terranno gli altri sei del pacchetto «Giustizia giusta», è grazie
a Silvio Berlusconi. E anche se nessuno di questi sei referendum serve ad
alleggerire la sua condizione di condannato in via definitiva, il guaio è
fatto: agli occhi della «brava gente» i radicali sono ancor più «traditori» di
quanto lo fossero quando sedevano in Parlamento grazie all’ospitalità offerta
dal Pd nelle proprie liste; il consenso dato da Silvio Berlusconi alla proposta
radicale di un’amnistia assume lo stesso segno che prende il messaggio alle
Camere di Giorgio Napolitano. In pratica – va’ a capire quanto a torto e quanto
a ragione – gli eroi dell’antipartitocrazia appaiono all’opinione pubblica come
il catalizzatore dei più infami patti sottobanco della partitocrazia. Grazie a
Marco Pannella, ovviamente.
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