venerdì 29 giugno 2012

Dava fastidio alla mafia, punto.


Il suo nome è ormai da tempo nel pantheon laico di quanti vollero testimoniare a prezzo della vita il loro impegno contro la mafia, ma ora, a quasi vent’anni dalla morte, per Pino Puglisi arriva pure la beatificazione. Non stupisce che ci sia voluto tutto questo tempo, perché si sa che la Chiesa ha culo di pietra e passo lento. D’altronde, con tutti questi preti che stuprano bambini, riciclano denaro sporco e ai mafiosi non fanno mancare i sacramenti, neanche in latitanza, farne beato uno pulito conviene. Serve a dare una mano di bianco alla facciata, via, e poi è legittimo. Quello che stupisce, invece, è che don Puglisi venga beatificato perché martire «in odio alla fede», formula che rimanda a quel «sarete odiati in mio nome» che si legge in Mt 24, 9, in Mc 13, 13 e in Lc 21, 17. Qui sta il punto: don Puglisi fu ucciso da un non cattolico perché cattolico? Insomma, fu fatto fuori per questioni di fede o perché scassava la minchia ai fratelli Graviano come avrebbe potuto scassargliela un ateo, un musulmano o un confuciano?

Sì, non c’è dubbio che chi l’ha voluto morto non dovesse essere un buon cristiano. Nel suo covo, come quasi tutti i mafiosi, chi l’ha ucciso avrà avuto una Bibbia sul comodino e immagini di santi alle pareti, ma glissiamo sul paradosso, evitiamo di chiederci perché i mafiosi siano tutti  così attaccati, se non alla sostanza, almeno alla forma della tradizione cattolica: concediamo che la fede di chi ha ucciso don Puglisi non fosse autentica. Vale anche per la gran parte dei cristiani che quotidianamente cadono in altri peccati altrettanto mortali, ma concediamo che la religiosità di chi ha ucciso don Puglisi sia vuota di ogni genuino senso cristiano, e che cioè chi ruba, fornica e presta falsa testimonianza sia ancora sulla carta un cattolico, seppure peccatore, ma che questo non valga per i fratelli Graviano. Sì, ma questo basta per dire che don Puglisi è stato ammazzato «in odium fidei»? Basta a far di lui un martire della fede?

Via, non regge. I mafiosi non odiano la Chiesa, anzi. Difficile trovarne uno che non sia stato battezzato e che non battezzi i propri figli. Difficilissimo trovarne uno che non si sia sposato con rito religioso. Facilissimo, invece, trovarne di devoti. In generale, diciamo che, se possono, i mafiosi amano avere buoni rapporti col mondo ecclesiastico. Tra i correntisti dello Ior o nei loculi della Basilica di Sant’Apollinare cos’è più facile trovare, un ateo, un musulmano, un confuciano o un mafioso? E allora con quale faccia di culo si promulga che don Puglisi è stato assassinato «in odio alla fede»? Non è stato ucciso perché era un prete, ma nonostante il fatto che lo fosse. Dava fastidio alla mafia, punto.  


giovedì 28 giugno 2012

Uno sforzo di immaginazione

Fate uno sforzo di immaginazione, pensate all’Italia del 1870 e fate conto che di lì in poi le cose siano andate in altro modo: confisca di tutti i beni ecclesiastici, sgozzamenti di preti e frati, la Basilica di San Pietro rasa al suolo, il Papa-Re in esilio… Brutto, eh? Senza dubbio, ma è che sul finale il Risorgimento ha preso una brutta piega, Garibaldi si annoiava a Caprera, ai Savoia è venuto un cagotto e hanno anticipato di un’ottantina d’anni la fuga a Brindisi... Insomma, l’Italia è diventata repubblica e si respira un feroce laicismo… Brrrr...
Ora fate un altro sforzo e immaginate le conseguenze a distanza. Immaginate Sua Santità girovagare per il mondo in lungo e in largo, coperto di sola autorità spirituale, scalzo (ha le cipolle agli alluci che fanno una grande tenerezza), elemosinando a destra e a manca un tozzo di solidarietà per le persecuzioni che i suoi devoti subiscono in Italia (ogni tanto una suora si dà fuoco, ma le autorità italiane dichiarano che si è trattato di autocombustione mistica), distribuendo rosari a capi di stato, rockstar e bomber… Richard Gere, avete presente? Si è fatto tatuare lAddolorata in petto. Premio Nobel a Sua Santità, senza meno…
Suppongo non dobbiate sforzarvi troppo per immaginare che essere cattolico, o almeno dichiarare simpatie per il cattolicesimo, anche senza saperne un cazzo, sia diventata cosa fighissima – tranne che in Italia, ovviamente – ma che i cosiddetti principi non negoziabili abbiano giocoforza smussato i loro spigoletti aguzzi… Come fai a raccogliere simpatie a Hollywood se dici che le checche sono persone disturbate che hanno bisogno di essere curate? Devi essere carino, via. Cerca di non citare Manuele II Paleologo e, se ti fanno domande imbarazzanti, fai lo slalom. Per esempio: «Meglio evitare in linea generale le pratiche dell’aborto, della clonazione e dell’eutanasia. Però i casi sono specifici e vanno analizzati uno per uno» (AdnKronos, 27.6.2012). Così, infatti, ha detto Sua Santità.

Non parlo di Benedetto XVI, ovviamente, ma del Dalai Lama. Se quelle brutte bestie dei cinesi non l’avessero buttato fuori dal Tibet nel 1959, vi regnerebbe ancora. Era una teocrazia di stampo feudale, più o meno, e vi risparmio i dettagli orripilanti, rimando ai tre volumi di James Morris (Pax Britannica, 1992).
«I casi sono specifici e vanno analizzati uno per uno», bravo il nostro Tenzin Gyatso, sei inafferrabile come un’anguilla. Ma da chi? A chi spetta analizzare e decidere? Chi deciderebbe in Tibet, e come, se fossi ancora assiso in trono?

mercoledì 27 giugno 2012

[..]

Ci pensavo ieri sera, Roberto Benigni non mi ha mai fatto ridere. Dovrei indagare, ma non ho tempo.

Corrispondenze

Malvi’, senti questa. Spadaccia è andato a trovare Lusi in carcere a spiegargli perché Bonino ce l’aveva mandato: «Certe decisioni e certi voti sono sempre dolorosi, non solo per la ragione ovvia che riguardano e mettono in gioco la libertà di un parlamentare, ma perché nascono da una scelta difficile nel conflitto fra valori e principi a cui comunque si tiene, ma fra i quali bisogna scegliere quale privilegiare e quale sacrificare. Scegliere come? Con la responsabilità politica e con il senso di opportunità». Riesci a decriptare?
***


Non mi pare ci sia niente di oscuro, caro ***: certi principi avrebbero spinto a votare contro l’arresto, ma il senso di opportunità ha spinto a votare a favore. È gioco di squadra, e funziona, vedi il caso Papa: anche lì non c’erano esigenze cautelari che giustificassero l’arresto, ma i radicali votarono a favore, poi però l’andarono a trovare in carcere e l’opera di misericordia corporale conquistò un iscritto. Non mi stupirei se anche a Lusi venisse voglia di pigliar tessera radicale, non mi stupirei se iniziasse uno sciopero della fame al quale si unisse pure la Bonino, contro la barbarie della detenzione in attesa di giudizio. Se invece lo piglia lo sconforto e s’ammazza in carcere, tocca a Pannella saltare sul cadavere per gridare: «Amnistia, amnistia, amnistia!». E qui, infine, ci sarà lisi del conflitto fra principi e senso di opportunità.


lunedì 25 giugno 2012

«Manifestamente inammissibile»

Quattro giorni fa la Consulta ha rigettato come «manifestamente inammissibile» la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 194 che era stata sollevata dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto. Quattro giorni per riprendersi dalla mazzata e Avvenire manda il professor Francesco D’Agostino a lamentarsene in prima pagina: «Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti favorevoli che essa ha suscitato – scrive – si percepisce come si sia cristallizzata in Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194, un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione di gravidanza [a fondamento della quale c’è] la tesi che afferma il primato della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita)».
Il problema, dunque, è il primato della donna sull’embrione: è evidente che D’Agostino lo ritenga ingiusto. È altrettanto evidente, tuttavia che, laddove si realizzi un conflitto tra la salute fisica e psichica della donna e il prosieguo della gestazione (la condizione contemplata dall’art. 4 della legge 194), non consentire l’interruzione volontaria di gravidanza significhi negare il primato della donna sull’embrione, sì, ma solo per affermare quello dell’embrione sulla donna, tertium non datur.


Ora, la massima espressione del primato dell’embrione sulla donna si ha nel caso in cui una donna decida di non abortire anche laddove la gravidanza metta in serio pericolo la sua stessa vita. Decisione estrema, senza dubbio, ma estrema quanto quella di abortire, perché, ammesso e non concesso che gravida ed embrione abbiano pari dignità di persona, in entrambi i casi ne è sacrificata una.
Bene, parrebbe che la decisione di sacrificarsi pur di portare avanti la gravidanza sia legittima, ma non quella di abortire: in entrambi i casi sarebbe sacrificata una persona, ma nel primo caso non si pone alcun problema. Non per D’Agostino, per lo meno, né per Avvenire, che in questi casi non fa mai mancare il paginone di elogio alla santa che ha scelto di morire pur di portare a termine la gravidanza, anche quando la gravidanza non giunge a termine e insieme muoiono il feto e la gravida.
Ora, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 194 era stata sollevata dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto sull’assunto che l’embrione sia «un “essere” provvisto di un’autonoma soggettività giuridica della cui tutela l’ordinamento deve farsi carico»: ammesso e non concesso che lo sia, questa tutela è prioritaria rispetto a quella della donna che da una gravidanza possa trarre danno alla sua salute fisica e psichica? Se è questo che D’Agostino intende affermare, la tutela dell’embrione non può essere che a discapito della donna. Perché non dirlo chiaramente? Perché non dire chiaramente che, in presenza di conflitto, non deve essere data opportunità di scelta?


Non è  l’unica incongruenza ad emergere da questo editoriale. Dopo averci fracassato i coglioni per mesi e mesi sul fatto che la magistratura italiana stesse attentando ad una legge come quella che pone infiniti limiti alla fecondazione assistita, legge voluta dal Parlamento e confermata (diciamo così) da un referendum popolare, Avvenire si lamenta che non sia andato a buon fine l’attentato che un magistrato ha mosso alla legge 194?
La si ritiene legge ingiusta? Perché non sottoporla ancora a referendum? Che ci vuole a raccogliere mezzo milione di firme? «Nessuna forza politica italiana tra quelle che contano – lamenta  D’Agostino vuole riaprire la questione dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una questione così scottante». Dobbiamo ritenere che anche chi rinuncia a un nuovo referendum abbia paura di scottarsi. Un principio non negoziabile si arrende a una paura così meschina?  

giovedì 21 giugno 2012

Da senatore

[Sono contro la detenzione in attesa di giudizio e ritengo che Luigi Lusi non potesse inquinare le prove a suo carico, né reiterare i reati che gli vengono ascritti, in più poteva scappare e non l’ha fatto. Insomma, da senatore, avrei votato contro il suo arresto.
Da senatore, subito dopo aver sentito l’intervento di Emma Bonino, che annunciava il voto dei radicali in favore dell’arresto, avrei chiesto la parola e avrei detto quanto segue:]

«Senatrice, lei ha detto che “la più grande riforma che dobbiamo compiere, oltre a quella sulla giustizia, è quella sui partiti politici, perché è intollerabile che i fondi pubblici diventino privati, anzi privatissimi, appena arrivano nella casse del tesoriere”. Molto bene, condivido in pieno. Condivido anche il suo richiamo all’art. 49 della Costituzione e la sua denuncia allo stravolgimento che se n’è fatto: sono d’accordo con lei quando afferma che i partiti hanno subìto un pervertimento della loro personalità giuridica trasformandosi in “associazioni private, anzi privatissime”. Ben detto, davvero. Tuttavia, consenta, lei non viene dalla Luna.
Lei da anni, ormai da decenni, è un alto dirigente di un movimento politico, quello radicale, anzi molti dicono ne sia il numero due, anche se questo significa poco o niente con un numero uno come Marco Pannella. Complimenti in ogni caso, perché arrivarci e rimanerci deve esserle costato tanto. Bene, suppongo lei non ignori che il finanziamento pubblico arrivi anche alle casse del suo movimento.
Sì, è vero, vi siete fatti promotori di un referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, e una volta – una sola volta – avete anche restituito ai cittadini una parte del denaro pubblico che vi era stato elargito, in più spendete tutto il poco che vi arriva e ne date scrupoloso resoconto pubblico. E però, se lo faccia dire, questo denaro arriva nelle casse della Lista Pannella, un’associazione politica che non prevede la figura del tesoriere.
Si tratta di un’associazione politica della quale si può entrare a far parte solo “previa ammissione da parte dei soci” e che nel suo presidente ha “il responsabile politico”, “il rappresentante legale sia nei rapporti con i terzi che in giudizio”, “l’amministratore del patrimonio, con la responsabilità dell’apertura e della gestione dei conti correnti bancari e postali intestati all’associazione” e la persona che materialmente “riscuote il contributo finanziario dovuto a titolo di concorso alle spese elettorali ai sensi delle vigenti leggi”. Non mi sono inventato nulla: leggevo l’art. 4 e l’art. 7 dello statuto della Lista Pannella. Non le chiedo chi ne sia il presidente, mi pare superfluo.
Un partito? A me pare un’associazione privata, anzi privatissima. A me pare che con l’art. 49 della Costituzione da lei pocanzi difeso con tanta vibrante passione – chiedo scusa ai colleghi senatori e alla presidenza per l’eccesso di colore – la Lista Pannella ci si pulisca il culo da vent’anni.
Ora, lei dichiara che voterà a favore dell’arresto del senatore Lusi. Cosentino no, Lusi sì. Legittimo, ovviamente. Ma, la prego, si risparmi la lezioncina prequirinalizia. Grazie».

[E qui mi tacerei.] 

mercoledì 13 giugno 2012

«Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero»

«Ero piccolo, e non capivo granché di politica». Come se oggi, invece… Civati commemora Berlinguer nel 28° della morte e nel leggerlo trovo conferma che peggio dei rottamandi ci sono solo i rottamatori. Almeno i primi hanno capito, anche se troppo tardi e a fatica, che proprio Berlinguer è il peccato originario che li ha portati regolarmente fuori strada ad ogni svolta, per tornare ogni volta più malconci in carreggiata, ma accumulando sempre più ritardo e perdendo sempre più consensi.
Civati, no. «Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero». Vorrei vederlo nel Pci di allora, quando il dolce Enrico, in culo a ingraiani, amendoliani e cossuttiani, prima cambiava linea del partito dalla sera alla mattina e poi esigeva che la direzione ratificasse e il congresso applaudisse. Macché, Civati è convinto che «Berlinguer diceva, quando esprimeva un pensiero, “i comunisti pensano” o “sostengono” o “intendono”, che si capiva che voleva dire “noi comunisti”, mentre a noi manca il noi». Neanche la Mafai avrà letto, è evidente, e sì che il libricino era smilzo, poteva trovare due ore tra un film e una partita di calcetto, avrebbe capito che noi significava Berlinguer, Rodano e Tatò.
Il Berlinguer di Civati è un poster, un brivido lungo la schiena, un’emozione: non ha mai letto una sua relazione congressuale o un suo paginone su Rinascita, è evidente. Civati è rimasto al «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona», senza neppure riuscire a leggerci l’ironia che ci metteva Gaber. Come dire, «Berlinguer, ti voglio bene», facevi tanta tenerezza il braccio a Benigni, sei morto in modo così emozionante, ti ho visto su Youtube, non ho capito cosa dicevi, ma suonava così bene.
Dicevi che eravamo «diversi», e lo dicevi così bene che ci abbiamo creduto. Pensavamo che la macchina del partito girasse grazie alle sottoscrizioni che si raccoglievano alle Feste de lUnità e che quei tuoi strappetti dalla Casa Madre fossero delicati per non lacerarci il cuoricino. Siamo stati costretti a ricrederci, avremmo tanto bisogno di uno come te che riuscisse a farcelo credere ancora, se solo avessimo lanima bella di allora e il centralismo democratico.
«Quel volto, quella cultura, quella dimensione, non sono più tornate», piagnucola Civati, faccia da Postalmarket, lirismo alla Veltroni. E vaglielo a spiegare che quel volto, quella cultura, quella dimensione erano quelli di un Togliatti in sedicesimo. 

martedì 12 giugno 2012

Siamo alle solite

Nell’accingermi ad analizzare un articolo di Marco Tosatti («Adozioni omo, studio Usa» – La Stampa, 12.6.2012) devo confessare con un certo imbarazzo che vi giungo grazie a un rilancio di Pontifex.Roma, che ne riporta integralmente il testo e ringrazia il vaticanista per l’autorizzazione alla pubblicazione. Il titolo che sceglie Pontifex.Roma è «Adozioni omosessuali. Una nuova estensiva ricerca in Usa le condanna. Falsati gli studi precedenti, dicono gli esperti», che sintetizza in modo abbastanza fedele il sommario che Tosatti mette in apertura al suo articolo: «Un ampio nuovo studio sui bambini allevati da coppie dello stesso sesso ha messo in luce un disegno di risultati negativi in maniera significativa, che pongono serie questioni su lavori precedenti che sostenevano che le coppie omosessuali avevano risultati educativi simili a quelle eterosessuali». In via preliminare, dunque, è da evitare ogni rilievo al «blog cattolico non secolarizzato» tristemente noto per la sua militante omofobia: il problema sta tutto nell’articolo di Tosatti, che è un pessimo esempio di giornalismo.
«Un ampio nuovo studio sui bambini allevati da coppie dello stesso sesso – scrive Tosatti – ha messo in luce un disegno di risultati negativi in maniera significativa, che pongono serie questioni su lavori precedenti che sostenevano che le coppie omosessuali avevano risultati educativi simili a quelle eterosessuali». Prosa legnosa, da traduttore inglese-italiano di Google, com’è possibile verificare andando a recuperare l’articolo di Mark Regnerus, cui si fa riferimento, su Social Science Research. Ma il problema non è la prosa. Il problema è se lo studio di Regnerus «condanni» l’«adozione omosessuale» (Pontifex.Roma) o se in essa possa individuarsi causa specifica di un «disegno di risultati negativi» (Tosatti). Non resta che risalire alla fonte.
Pacifica presa d’atto che «same-sex couples have and will continue to raise children» e che «american courts are finding arguments against gay marriage decreasingly persuasive», con scrupolosa avvertenza che «this study is intended to neither undermine nor affirm any legal rights concerning such». Questa sarebbe la «condanna» dell’«adozione omosessuale»? Avevamo preliminarmente accantonato il titolista di Pontifex.Roma, adesso possiamo definitivamente mandarlo a cagare.
Ma veniamo al «disegno di risultati negativi» che troverebbero specifica causa nell’«adozione omosessuale».
«Do children need a married mother and father to turn out well as adults?», si chiede Regnerus. «No, if we observe the many anecdotal accounts with which all Americans are familiar. Moreover – precisa – there are many cases in the New Family Structures Study where respondents have proven resilient and prevailed as adults in spite of numerous transitions, be they death, divorce, additional or diverse romantic partners, or remarriage. But the New Family Structures Study also clearly reveals that children appear most apt to succeed well as adults — on multiple counts and across a variety of domains — when they spend their entire childhood with their married mother and father, and especially when the parents remain married to the present day». «Disegno» pressoché sovrapponibile, dunque, a quello di ogni altra serie di «risultati negativi» in ambito familiare, quand’anche la coppia sia eterosessuale.
Tosatti, allora, che ha letto? Ha letto l’abstract, distrattamente per giunta. Nel corpo del testo, per esempio, avrebbe trovato che «the New Family Structures Study is not a longitudinal study, and therefore cannot attempt to broach questions of causation». Soprattutto avrebbe trovato che «although the New Family Structures Study offers strong support for the notion that there are significant differences among young adults that correspond closely to the parental behavior, family structures, and household experiences during their youth, I have not and will not speculate here on causality, in part because the data are not optimally designed to do so, and because the causal reckoning for so many different types of outcomes is well beyond what an overview manuscript like this one could ever purport to accomplish». Non è tutto, perché Regnerus tiene a precisare: «I am thus not suggesting that growing up with a lesbian mother or gay father causes suboptimal outcomes because of the sexual orientation or sexual behavior of the parent; rather, my point is more modest: the groups display numerous, notable distinctions, especially when compared with young adults whose biological mother and father remain married».
Pretendere che Tosatti leggesse tutto l’articolo di Regnerus? Macché, gli sembrava di aver trovato una prova scientifica di ciò che suggerisce la fede. 

lunedì 11 giugno 2012

Il corvo


La fonte di Gianluigi Nuzzi «raccoglieva documenti, circolari, lettere, contabili bancarie in Vaticano e li studiava di notte nel suo studio privato, lontano da sguardi indiscreti» (pag. 7). Tutto farebbe credere che si tratti di Paolo Gabriele, aiutante di camera di Benedetto XVI, perché a casa sua sono state rinvenute tredici casse di documenti, in copia, raccolti nell’arco di circa sette anni. Ammesso che sia così, dove li ha riprodotti in copia?
Portare via tutte quelle carte dal Palazzo Apostolico, fotocopiarle comodamente a casa e poi riportarle indietro avrebbe comportato il serio pericolo di essere scoperto in uno di questi continui andirivieni. Non era un rischio enorme per chi si fosse posto il fine di «rendere pubblici certi segreti» per sentirsi «affrancato dall’insopportabile complicità di chi, pur sapendo, tace»?
Ne ha fatto copia in loco? Poco probabile che sia stata usata un’apparecchiatura fotografica o una fotocopiatrice portatile: in entrambi i casi la riproduzione dei documenti non sarebbe stata della qualità che si evince dalle copie che sono riprodotte nella seconda e nella terza di copertina del volume di Nuzzi (assenza di ombre, margini conservati, nessuna distorsione assiale, radiale o tangenziale, ecc.).
Nello studio di Benedetto XVI ci sono solo «una modesta libreria a ripiani, poltroncine basse, la scrivania in legno, due telefoni fissi, nessun cellulare» (pag. 9): poco probabile che uno dei due telefoni abbia una linea abilitata alla funzione fax e che da quella i documenti abbiano preso il volo (le comunicazioni con l’esterno, via fax e via e-mail, sono a cura di monsignor Georg Gänswein), poco probabile che accanto a quella libreria ci sia una fotocopiatrice.
Senza dubbio, tuttavia, i documenti che sono arrivati nelle mani di Nuzzi sono ottimamente riprodotti, frutto di un lavoro apparentemente eseguito in tutta tranquillità.
Tutto farebbe credere che il corvo sia Gabriele, dicevo, daltronde è reo confesso ed è stato trovato in possesso dei documenti resi pubblici da Nuzzi. Tutto farebbe credere, altresì, che il fine ultimo del corvo sia quello di portare a galla molta di quella «sporcizia» che il cardinal Joseph Ratzinger lamentava nella Via Crucis del 2005. Di certo cè che dal 2005 ad oggi, pur da una posizione che, in teoria, glielavrebbe consentito, non è stato capace di far troppa pulizia.
Non si deve essere troppo severi, però, perché spesso il Papa non può molto sulla Curia, in pratica. Anche Giovanni Paolo II, che pure aveva più polso, preferì disinteressarsene. Insomma, non vha nemmeno sfiorato il sospetto che a far gracchiare il corvo sia stato proprio Benedetto XVI?      

 

sabato 9 giugno 2012

Vedremo

Con un’ordinanza dello scorso 3 gennaio, il giudice tutelare del Tribunale di Spoleto ha sollevato il problema di costituzionalità dell’art. 4 della legge 194/1978, che consente «l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni [al]la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Al signor giudice è sembrato che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 18 ottobre 2011 riconosca già nell’ovocellula fecondata «un “essere” provvisto di un’autonoma soggettività giuridica della cui tutela l’ordinamento deve farsi carico».
Sarà il caso di rammentare che tale sentenza si limita a vietare la brevettabilità dell’embrione umano e ogni altra procedura che implichi il suo sfruttamento a fini industriali-commerciali, compresa la sua “distruzione” se finalizzata a tale impiego, ma al signor giudice sembra che «vietare la “distruzione” dell’“embrione umano” equival[ga] ad affermare il disvalore assoluto in ogni caso della perdita dell’embrione umano per consapevole intervento dell’uomo». Gli sembra, infatti, che in tale divieto vi sia l’«affermazione, nemmeno troppo implicita, della giuridica esistenza di un soggetto, l’“embrione umano” che, in ogni caso, deve trovare tutela in forma assoluta».
È di chiara evidenza che non si sia posto affatto il problema del perché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia deciso di usare il termine “distruzione”, che è riferito a cosa, invece che “omicidio”, che è riferito a persona. Altrettanto chiaro appare che la «tutela assoluta» così prevista per l’embrione non sia nel testo della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come molti organi di informazione hanno riportato in questi giorni, ma nell’interpretazione che il signor giudice le dà. «Se tale interpretazione non erra – scrive – sembra necessario farne diretta applicazione nel diritto interno allo Stato e porre d’ufficio la questione della compatibilità fra tale affermato principio e la facoltà prevista dall’art. 4 della legge 194/1978 di procedere volontariamente all’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni dal concepimento». Non è affatto in discussione, dunque, la minore età della gravida che faccia richiesta dell’interruzione volontaria di gravidanza, com’è nel caso di specie che ha dato occasione al signor giudice di sollevare la questione di costituzionalità – un’altra imprecisione nella quale sono incorsi molti organi di informazione – ma è in discussione il diritto della donna di poter interrompere una gravidanza che metta in serio pericolo la sua salute fisica o psichica, negandole ogni tutela in merito.
La mia impressione è che l’interpretazione del signor giudice erri, che in più sia speciosa e strumentale, costituendosi – poco importa quanto intenzionalmente – come ennesimo attacco a una legge approvata dal Parlamento italiano e confermata da una consultazione referendaria.
La Corte Costituzionale si riunirà il 20 giugno per decidere, vedremo. Tanto non c’è verso di convincere una donna a portare avanti una gravidanza indesiderata, tuttal più torneremo alla pratica degli aborti clandestini. Non c’è nulla di illegale che non sia possibile in Italia e, pagando, facilissimo. I ginecologi obiettori nel pubblico e abortisti nel privato incrociano le dita e fanno tutti il tifo per il signor giudice tutelare del Tribunale di Spoleto.  

venerdì 8 giugno 2012

La mafia, la politica, i poteri sporchi, insomma, la strategia della tensione

Fare entrare Giovanni Vantaggiato nella trama costruita a L’Infedele sarà assai difficile, ma la Procura s’impegni, sennò in una delle prossime puntate volerà l’insinuazione che sta depistando. 

mercoledì 6 giugno 2012

La Nazionale italiana va in visita ad Auschwitz


Il consiglio era: concentrazione in campo. Hanno capito: campo di concentramento.


lunedì 4 giugno 2012

[...]

«… mi copro col mantello il capo e più non sento,
e mi addormento, mi addormento, mi addormento…»



Se avessimo la sensibilità di un Filemazio alla vigilia del crollo dellImpero, leggeremmo nel passaggio di Venere davanti al Sole il sopraggiungere di un nuovo populismo, quello da «poveri ma belli», sul vecchio, quello da «ricchi ma cafoni».



Nulla di nuovo, in Vaticano

Nulla di nuovo, in Vaticano. Una dozzina d’anni fa si scoprì subito che il corvo era monsignor Luigi Marinelli. Non aveva resistito alla vanità di celarsi in anonimato dietro un anagramma del cognome: Millenari. Anche allora il corvo si disse portavoce di un gruppo di prelati mossi dall’urgenza di purificare il tempio: «L’alleanza di Dio con i poveri e gli umili è in contraddizione con l’arroganza di ogni potere… È venuto il tempo che la Chiesa chieda perdono a Cristo per le sue tante infedeltà e tradimenti dei suoi ministri, specialmente di quelli costituiti in autorità al vertice della gerarchia ecclesiastica».
Non si è mai saputo di chi fosse portavoce, il tempio continuò ad essere la fogna che è sempre stata da diciassette secoli in qua e rimane il sospetto che Via con vento in Vaticano (Kaos Edizioni, 1999) fosse solo lo sbocco di bile di un poveraccio che in Curia non aveva fatto carriera, un «sommergendo» che si era visto sorpassato da tanti «emergenti», «impuniti che hanno dalla loro parte la presunzione del perbenismo preconfezionato, in qualunque modo agiscano... cadetti di una scuderia alla quale è permessa lallegra esperienza di sorvolare lapprendistato per immettersi immediatamente nelle competenze dei livelli superiori» (pag. 146, cap. XII).
Libro zeppo di indiscrezioni, tutte molto imbarazzanti, ma Marinelli non faceva nomi, tutt’al più nomignoli, e solo chi era molto addentro ai cunicoli fognari poteva riconoscere, in quella galleria di incorreggibili viziosi e di spietati carrieristi, monsignor De Giorgi, monsignor Gugerotti, monsignor Gantin, monsignor Rigali e gli altri. Quasi ad uso interno, quel libro.
Anche allora si disse fosse per amore della verità, perché nei Vangeli sta scritto: «Oportet ut scandala eveniant». In realtà, nei Vangeli sta scritto tutt’altro: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono» (Lc 17, 1); «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo» (Mt 18, 7). Insomma, Gesù consiglierebbe al corvo di tacere, ma ogni tanto il corvo parla, e ogni volta imbecca un allocco che gli fa il favore di aiutarlo a regolare i suoi conti, a partita chiusa o a partita aperta.
Innegabile che stavolta il corvo abbia imbeccato Gianluigi Nuzzi a partita ancora aperta, innegabile che stavolta il tiro si sia alzato, tuttavia lo schema è sempre lo stesso: offrendo agli anticlericali una ghiotta occasione di polemica, si mira a suscitare un’ondata di sconcerto e di sdegno da parte del laicato cattolico e del basso clero. È lo sgambetto agli  «emergenti» al quale i «sommergendi» ricorrono in ultima istanza. Superfluo rilevare che quanti si nutrono dell’ideale di una Chiesa ripulita da ogni «sporcizia» temporale si fanno inconsapevole strumento di queste manovre.
La Chiesa è sempre stata così, non potrà mai essere diversa. Diciassette secoli di storia dovrebbero bastare a capire che è «semper renovanda», ma che in questo rimarrà sempre uguale. «Sarebbe poco serio riferirsi ai primi tre secoli [della sua storia], prendendoli a modello, per accusarla di essere diventata poi poco evangelica: non vi è dubbio, infatti, che i cristiani siano caduti spesso  in tentazione [dal IV secolo in poi], ma è altresì vero che prima di Costantino questa tentazione non ebbe modo di presentarsi... Appena la Chiesa ebbe ottenuto la libertà religiosa, la tentazione del potere si trasformò in una realtà che avrebbe accompagnato costantemente lesistenza dellistituzione ecclesiastica»: non è un suo nemico a dirlo, ma un autorevole studioso della sua storia, padre Juan Maria Laboa, fondatore della rivista Communio (Momenti cruciali nella Storia della Chiesa, Jaca Book 1986 - pag. 291). Dimentica di dire che anche prima di acquisire la libertà religiosa le coltellate tra i suoi membri più autorevoli non sono mai mancate, basti rammentare il modo in cui san Paolo regolò i suoi contrasti con san Pietro.
Il problema non è la «sporcizia» che si annida nella Chiesa, il problema è che la Chiesa è inemendabilmente sporca, come lo è necessariamente ogni piramide gerarchica che in cima abbia unentità autocratica. Tanto più inemendabilmente sporca, in questo caso, perché questa struttura si vuole a immagine del corpo mistico del Cristo vivente. Del tutto naturale che ogni tanto in quel ventre soda un borgorigma e ne esca un peto. Star lì a dire che puzza di brutto è un esercizio vacuo. Questa è la risposta a quanti mi hanno chiesto perché finora non mi ci sono applicato.

sabato 2 giugno 2012

venerdì 1 giugno 2012

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Il sintomo più eloquente del degrado della vita politica italiana è insorto nel momento in cui la realtà ha superato la satira in iperbole e i politici hanno accostato, prima, e sorpassato, poi, le parodie che ne caricaturizzavano i tratti salienti. Le gerarchie ecclesiastiche non sono state da meno e da qualche tempo sono di casa, perfettamente a loro agio, nei più malevoli luoghi comuni anticlericali. Quando Michele Serra, per esempio, scrive che «nessuno, nei palazzi vaticani, sa esattamente perché trama, ruba lettere, origlia dietro le tende, versa gocce di veleno in ogni bicchiere incustodito», ma «lo fa solo per rispettare usanze antichissime, le cui origini di perdono nella notte dei tempi», sicché «un papa tradizionalista come Ratzinger non può non cogliere l’omaggio alla tradizione, e apprezzarlo» (l’Espresso, 23/LVIII – pag. 11), siamo a una satira che fotografa la realtà senza alcuna forzatura umoristica. 

A parte, ma perché Michele Serra è così brillante su la Repubblica e su l’Espresso, ma fa tanto cagare quando scrive testi per la tv?