L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) rileva un dato incongruente nella compilazione delle schede di dimissione ospedaliera delle gravide che hanno partorito con taglio cesareo: il numero dei feti in presentazione anomala, una delle indicazioni al parto per via chirurgica, è più alto di quanto statisticamente atteso, sicché nasce il sospetto che in molti casi la diagnosi di presentazione anomala sia fasulla e serva a giustificare il ricorso al taglio cesareo anche quando il parto potrebbe essere espletato in modo «naturale». Si profilerebbe il reato di truffa ai danni dello stato, che sborsa 2.457 euro per un taglio cesareo e solo 1.139 euro per un parto spontaneo, con un aggravio di spesa quantizzabile tra gli 80 e gli 85 milioni di euro ogni anno. Tuttavia parrebbe che allo stato non stia a cuore solo il portafoglio, ma pure la salute della donna, che col taglio cesareo sarebbe messa a rischio in misura assai maggiore di quanto accada col parto «naturale». Donde si tragga questo dato, e quanto sia significativo al fine di lanciare l’allarme, non è dato sapere. In realtà, gli studi statistici non mettono in rilievo alcuna sostanziale differenza di rischio per la donna tra parto spontaneo e taglio cesareo, anzi, per quanto attiene alla morbilità del nascituro, il parto per via chirurgica sembrerebbe addirittura un po’ più conveniente rispetto a quello «naturale». Si sbandierano, è vero, dei dati che vorrebbero il taglio cesareo 37 volte più pericoloso del parto spontaneo, ma si omette che è relativo a complicanze di pertinenza urinaria, di entità non più grave a quella che si riscontra nella cateterizzazione. Sospetto per sospetto, viene da pensare che la tutela della salute delle donne sia solo la foglia di fico a coprire la pur legittima tutela delle casse dello stato. Quando si fa spending review, d’altronde, star dietro al portatore d’handicap per vedere se non sia per caso un falso invalido è più facile che tagliare privilegi alle caste e qui parliamo di 80-85 milioni di euro ogni anno, che fa quanto costano 250 auto blu. Non vorrei essere frainteso: personalmente penso che sarebbe giusto fare entrambe le cose. Di fatto, però, tra le due, risulta sempre più facile la prima rispetto alla seconda, e dunque sia, discutiamo di questo enorme numero di tagli cesarei che sarebbero effettuati anche quando le gravide potrebbero partorire in modo «naturale», senza altra ragione – pare – che il furto di denaro pubblico.
Prima di tutto, però, penso che sia necessario un inciso per spiegare perché metto le virgolette a «naturale». È presto detto: «natura» è termine sommamente ambiguo. Se, infatti, il parto per via vaginale è da considerare «naturale», il taglio cesareo sarebbe da considerare «contro natura». Ma questo non vale anche per ogni altro intervento medico che tenda a correggere un evento «naturale» com’è la malattia o a dilazionarne quanto più possibile un altro, altrettanto «naturale», com’è la morte? Non sto dicendo che la gravidanza o il parto spontaneo siano da intendere come momenti patologici: dico che al pari di ogni evento parafisiologico, anche la gestazione e il parto possono presentare momenti di patologia che il medico è chiamato a risolvere con artifici miranti a correggere la «natura», quando questa sembra opporsi a ciò che è da considerare desiderabile. Il punto è un altro: a chi spetta la decisione e a chi tocca assumersene la responsabilità?
Forse sarà il caso di ricorrere a un esempio. Anche la riduzione chirurgica di una frattura, quando si suppone che la sua riparazione spontanea possa procedere in modo insufficiente o irregolare portando ad esiti indesiderati, è da considerare «contro natura». In senso stretto, anche un tutore è artificio innaturale e, in generale, potremmo dire che si ricorre sempre ad una pratica «contro natura» quando in campo clinico prende corpo la supposizione che, a lasciar fare alla «natura», il risultato non sarebbe soddisfacente. E tuttavia, di fronte a una frattura ridotta chirurgicamente, non è mai possibile avere la certezza che lo stesso risultato, se non migliore, si sarebbe ottenuto lasciando fare alla «natura». Per meglio dire, sui grandi numeri è possibile discutere e trarre qualche conclusione, perché si tratta di inferire dati che in campo clinico indirizzano la supposizione in un senso o in quello opposto, ma il singolo caso non offre mai l’assoluta certezza che la scelta scartata fosse la migliore, perché non si presta mai a controprova.
Così è anche per il taglio cesareo: sui grandi numeri è possibile supporre che in molti casi sia stato inutile e che lo stesso risultato desiderato si sarebbe ottenuto col parto spontaneo, ma sul singolo caso è impossibile dimostrarlo. In pratica, è impossibile considerare inutile la riduzione chirurgica di una frattura che abbia dato buon esito: si può supporlo, ma senza poterne avere certezza.
Ovviamente parliamo dei casi in cui tutto vada bene, quando l’osso torna a posto, non importa se grazie a un semplice tutore o grazie a un intervento chirurgico di riduzione. Nel nostro caso, stiamo parlando dei casi in cui il parto vada a buon fine, spontaneo o no che sia, lasciando fuori dalla discussione quelli nei quali madre e/o figlio abbiano riportato un danno dall’espletamento di un parto spontaneo, lì dove un taglio cesareo avrebbe potuto evitarlo, o viceversa, ammesso sia possibile esserne assolutamente certi.
Tuttavia una differenza c’è nel parallelo tra taglio cesareo e riduzione chirurgica di una frattura, perché l’ortopedico a differenza dell’ostetrico arriva alla decisione di intervenire chirurgicamente sulla base di elementi clinici che solo assai di rado vengono messi in discussione dal Ministero della Salute. Di fatto, il numero di riduzioni chirurgiche delle fratture ossee è andato assai aumentando negli ultimi decenni, ma nessuno solleva il sospetto che dietro ci sia una frode. Non è così col taglio cesareo, dove si dà per altamente probabile che la causa stia nella malafede del medico che l’ha considerato necessario. Nel caso in oggetto, però, e stiamo parlando dei dati riscontrati dall’Agenas, cioè della probabile falsificazione di diagnosi di anomala presentazione fetale, si tratta di un falso che è praticamente impossibile accertare una volta che il feto sia venuto alla luce. Che fare, allora, per evitare la truffa?
Non vedo altra soluzione che in un apposito organo dello stato che avalli o no la decisione di un taglio cesareo che il medico abbia eventualmente concertato con la gravida. Insomma, un apposito timbro di autorizzazione all’intervento chirurgico. Questo dovrebbe valere non soltanto nei casi in cui l’indicazione al taglio cesareo sia stata posta da una anomala presentazione fetale, ma in tutti i casi in cui è altrettanto possibile una diagnosi fasulla. In pratica, lo stato dovrebbe assumersi in pieno la responsabilità di decidere al posto del medico il modo in cui una donna deve partorire e, già che ci troviamo, il modo più conveniente di trattare una frattura ossea. Quanto costerebbe? Se costasse meno di 80-85 milioni di euro ogni anno, sarebbe conveniente. Ma, ammesso pure che lo fosse, sarebbe lecito? A me pare che verrebbero lesi alcuni diritti della donna e l’autonomia professionale del medico. D’altronde non sarebbe la prima volta che lo stato italiano sia chiamato a interferire sulla vita sessuale e riproduttiva dei suoi sudditi, perché non arrivare al punto da mettergli in mano anche la decisione che fino ad oggi è stata del medico, ma che comunque trovava realizzazione solo col consenso della donna? A qualcuno fa paura che sia lo stato a decidere la modalità del parto? Può farsela passare pensando al fatto che il fine sarebbe il bene pubblico, come accade sempre, d’altronde, quando lo stato avanza l’amorevole pretesa di prendersi cura dei propri sudditi, risparmiando loro tutte quelle fastidiose decisioni che implicano l’esercizio della libertà e della responsabilità. Oppure? Se non in questo modo, che potrebbe trovare qualche ostacolo nella nostra Costituzione, come può porsi argine all’alta percentuale di tagli cesarei oggi effettuati in Italia? Le statistiche dicono che siamo i primi in Europa. Non potendo liberarci troppo in fretta di ben più infami primati, non vogliamo provare a far diminuire il numero di tagli cesarei? Sì, ma come?
Tra chi sente l’urgenza del problema – un po’ tutti, tranne le donne che hanno partorito con un taglio cesareo – nessuno sembra avere una soluzione: lamentano «l’inarrestabile medicalizzazione di un evento naturale come il parto» (Assuntina Morresi su Avvenire di sabato 19 gennaio, e come argomento non porta altro che l’aver «partorito tre figli per vie naturali», affermando che il «diritto al parto senza dolore è quantomeno discutibile»); denunciano quello che sarebbe uno «scandalo nazionale» (Roberto Volpi su Il Foglio di martedì 22 gennaio, che approfitta dell’occasione per lagnarsi dell’eccesso di attenzioni diagnostiche in gravidanza, che rappresentano «un fattore di rischio per chi deve mettere al mono un figlio»); addirittura paragonano il taglio cesareo a una «mutilazione genitale femminile» (Angiolo Bandinelli nei suoi senescenti sproloqui nei forum radicale); ma nessuno sa dire quale alternativa ci sia.
Chi può impedire ad una donna che non voglia partorire spontaneamente di optare per il taglio cesareo? Chi può contestare la condotta clinica di un ostetrico che in questo o quel caso decide che il taglio cesareo è da preferire al parto spontaneo? Soprattutto, come si può impedirlo? Non si sa, nessuno azzarda una proposta. E dire che, una volta trovata, andrebbe bene pure per mettere un freno a piercing e tatuaggi.