Ho sempre avuto una grande passione per i film che parlano della morte.
Lo so, la frase può risultare particolarmente macabra, ma non lo è. Così come, in realtà, non sono macabri i film che trattano questo tema. Anzi, per quanto possa sembrare strano, spesso sono film traboccanti di vita. La morte mi fa paura, certo, ma questo non mi impedisce di volerla conoscere più da vicino, nei limiti del possibile. Non a caso, la mia serie TV preferita di tutti i tempi è Six Feet Under di Alan Ball, che come molti di voi sapranno è la storia di una famiglia che gestisce una funeral home a Los Angeles. La morte è molto, molto presente. Perché queste persone, con la morte, ci campano: ogni puntata inizia con un morto, ci sono cadaveri che vengono preparati per le veglie, e cari estinti che parlano con i loro parenti. Ma tutto questo non impedisce alla serie di essere travolgente e pulsante di vita
Ho sempre trovato molto inadeguato il rapporto del mondo occidentale con la morte, e considerato i popoli orientali mille anni avanti rispetto a noi nella gestione del gran finale. Qualche settimana fa ho visto in DVD un film giapponese che ha confermato le mie convinzioni (sia sull’ottima qualità delle opere che parlano di morte che sulla superiorità degli orientali nel trattare questo tema). Si tratta di Okuribito di Youjirou Takita, vincitore quest’anno dell’Oscar per il miglior film straniero. Il titolo significa, letteralmente, colui che accompagna.
Questo film è una vera delizia (unico neo, forse, il finale leggermente mieloso), ed è un condensato di tutto quello che amo sfrenatamente del Giappone e dei Giapponesi: la discrezione, la compostezza, l’eleganza nei gesti, la parsimonia nelle parole, la delicatezza nei propositi, l’amore per la bellezza (che si traduce in ogni cosa, persino nelle tazze in cui bevono il té), l’ironia sottile, l’understatement un po’ naïf, e la dignità come valore assoluto. Non so se state pensando ad un paese e un popolo che sono esattamente l’opposto...
Il modo in cui i cadaveri vengono lavati, vestiti e truccati di fronte ai parenti contriti dal dolore, è un momento di umanità cosi alta che si fa quasi fatica a guardare. Inevitabile pensare che in Occidente una cosa del genere sarebbe impossibile. La prima volta che Daigo affronta da solo la prova del Nokanshi, si trova in una situazione che ne è l’esempio perfetto: mentre sta lavando il corpo di una ragazza, si rende conto che c’è “qualcosa” che non dovrebbe esserci. Preso alla sprovvista, mantiene la calma ma riesce a catturare discretamente l’attenzione di Sasaki-san, che sta supervisionando, e a sussurrargli all’orecchio le parole “ha quella cosa...”. Il capo, con altrettanta discrezione, prende il suo posto, finisce il lavoro e poi, rivolgendosi con estrema gentilezza ai parenti, domanda: gli occhi, di che colore li volete truccare?
Da cui risulta evidente che è molto, ma molto meglio morire da trans in Giappone, che non nel nostro paese.
Ne approfitto per ringraziare pubblicamente il mio amico Giorgio Amitrano (il miglior traduttore di letteratura giapponese che abbiamo in Italia), al quale devo la visione di questo film (e di tanti altri che un intero post non riuscirebbe ad esaurire): arigatou gozaimasu, sensei!
n.b. Ho scelto di farvi vedere il trailer giapponese perché è molto più bello di quello "confezionato" per gli occidentali. Se volete, su You Tube trovate quello sottotitolato.