Ho letto questa mattina la notizia della sua scomparsa.
E' stata una cosa molto brutta, sapere che lei non è più qui insieme a noi.
E' stato, come spesso mi è accaduto in questi ultimi anni nei quali ho visto scomparire gran parte dei registi e degli attori che amo, come perdere un pezzo di qualcosa che credevo sarebbe stato lì per sempre.
Ma il per sempre non esiste, se non al cinema.
E benché Godard affermi che il cinema è filmare la morte al lavoro, non c'è come l'immagine di un film a rendere immortali le persone.
Lei, per me, sarà sempre come la prima volta che l'ho vista, sulla terrazza di un hotel di Hiroshima, con uno yukata estivo addosso, fiorato e leggero, e una tazza di tè fra le mani.
E lei non può certo saperlo, ma quella sua passeggiata in un giorno estivo del 1959, ha cambiato per sempre la mia vita.
E' stato guardando lei e il paesaggio che aveva intorno, che ho cominciato ad amare segretamente e in maniera del tutto sproposita il Giappone.
E' stato guardando lei e Eiji Okada camminare lenti nella notte , bere in un bar, e parlarsi dopo l'amore, in quel bianco e nero sontuosamente splendido, che ho cominciato a capire la bellezza del cinema, la sua supremazia sulla vita reale, e il mio rincorrere senza speranza ma anche senza sosta la bellezza di quei momenti.
Avrei sempre voluto ringraziarla, per questo, e una volta avrei anche potuto farlo per davvero, ma non ho avuto il coraggio di avvicinarla, e ancora oggi non non riesco a capacitarmene (io, che parlo anche con i muri, io, che non ho vergogna di niente e nessuno!).
Era il Febbraio di quattro anni fa, e mi trovavo nella lounge della Prima Classe di Air France all'aeroporto Charles De Gaulle (il motivo per cui me ne stavo in un posto simile sarebbe troppo lungo da spiegare) in attesa di un volo per Los Angeles. Lei era in attesa dello stesso volo. Partivamo tutte e due per partecipare alla cerimonia degli Oscar, io ovviamente per sbaglio, lei invece perché candidata al premio come Miglior Attrice Protagonista per il film Amour di Michael Haneke (che io, lei ora lo saprà, non ho amato per niente, ma quanto l'ho trovata eccezionale, e coraggiosa, e incredibile, ad accettare una parte simile a 86 anni).
La sera prima aveva vinto un Cèsar, per lo stesso ruolo, e io volevo farle i complimenti per quello e farle gli auguri per l'Oscar (aveva vinto anche uno Zazie D'Or, a dire il vero, ma questo mi sembrava più trascurabile).
Lei era lì seduta, tranquilla, c'era una persona con lei, una sola, e avrei potuto avvicinarmi facilmente e dirle qualcosa, ma non l'ho fatto. Mi sono limitata ad osservarla da poca distanza.
Forse erano troppe le cose che avrei voluto dirle, forse pensavo che lei mi avrebbe guardato strano, forse non me la sono sentita di incontrarla fuori da uno schermo, come se rischiasse di sgretolarsi davanti ai miei occhi al solo contatto con l'aria.
Ma ho rivissuto quel momento nella mia testa molte volte. Lo faccio spesso, quando mi capita di avere dei comportamenti che non riesco a capire, e riviverli mi aiuta ad immaginare un finale diverso, come se potessi avere una seconda chance, come se potessi cambiare il passato.
E allora in questo finale alternativo io vengo verso di lei, Emmanuelle, e ci guardiamo per un pochino, non tanto, e poi sento la mia voce che le dice una sola frase, l'unica possibile:
Tu me tues, tu me fais du bien.
E lei fa un piccolo cenno con la testa per dirmi che ha capito, e mi sorride, e io mi volto, e me ne vado felice.
E' così che mi piace pensare che riesco a dirle grazie.
Bon Voyage, Madame Riva!
Sua devota,
Zazie