Siete di quelli che non hanno più fiducia nel cinema?
Di quelli che pensano che ormai a Hollywood si facciano solo film in 3D pieni di effetti speciali, morti ammazzati, dialoghi privi di spessore e attori capaci soprattutto di mostrare bicipiti e sorriso smagliante?
Se appartenete a questa categoria, allora ecco qua il film che fa per voi. Il film nato per smentire le vostre certezze, il film creato per dimostrarvi che, nell'anno di grazia 2011, il cinema è ancora capace di osare l'inosabile, di stupire, di farci sognare, ridere, piangere, e credere, anche solo per due minuti due, signoriesignore, che il mondo è un posto meraviglioso. Come? Semplice, con un film muto (!) e in bianco e nero (!): The Artist.
Girato a Hollywood (e sognato da anni) dal regista francese Michel Hazanavicius, questo film ha visto la luce grazie al coraggio e alla lungimiranza di un giovane produttore, Thomas Langmann (che non è nuovo ad operazioni arrischiate, basti pensare che c'era sempre lui dietro le quattro ore di biografia del criminale francese Mesrine). Presentato in competizione all'ultimo Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio (meritatissimo!) per la miglior interpretazione maschile, assegnato a Jean Dujardin. L'attore e il regista sono alla loro terza collaborazione. In Francia, hanno sbancato il botteghino e ricevuto elogi dalla critica per i loro film OSS 117, Le Caire Nid d'Espions e OSS 117, Rio ne répond plus, che sono in pratica una ridicolizzazione dei film di James Bond, con ambientazioni rigorosamente '60s. Film deliziosi e leggeri, che suonano ora come un bel preludio al loro ultimo lavoro. Del quale fa anche parte Bérénice Béjo, compagna del regista nella vita reale, e già protagonista con Dujardin del primo OSS.
The Artist racconta la parabola discendente di George Valentin, star del cinema muto alla fine degli anni '20, incapace di rendersi conto che l'avvento del cinema sonoro gli distruggerà prima la carriera e poi la vita. A differenza di Peppy Miller, una ragazza che passa da semplice comparsa nei film di Valentin a star del cinema parlato nel giro di pochissimo tempo. Tra i due scatta subito una forte attrazione, ma Valentin è sposato e i due non possono coronare il loro sogno d'amore. Soltanto quando l'attore, in miseria, verrà abbandonato da tutti (moglie compresa), Peppy potrà andare in suo soccorso e offrirgli una seconda occasione di vita.
The Artist, lo confesso, mi è piaciuto da morire fin dai titoli di testa, in perfetto stile RKO. Il regista non può capire quanto lo ammiri per il coraggio che ha avuto: l'idea che qualcuno faccia un film muto nel 2011 è semplicemente meravigliosa (mi ricordo un solo altro esempio negli ultimi anni, ed è quello di Juha di Aki Kaurismaki, ma in tutt'altro stile). E la cosa ancora più incredibile è che il pubblico lo segua: il film in Francia, sappiatelo, è già campione d'incassi. La verità è che ci si dimentica dopo un minuto che è iniziato, che questo film è senza dialoghi. Perché si rimane immediatamente catturati dalla storia, dalla bellezza delle scene, della luce, della musica, e dalla bravura degli attori (Jean Dujardin è magnifico: ha la classe, il carisma e il portamento di un moderno Clarke Gable). The Artist è amore per la magia del cinema (e del cinema toutcort) che trasuda da tutti i pori dello schermo, è un omaggio sentimentale (sincero e disarmante) a Hollywood e ad universo lontano che racchiude in sé gli elementi essenziali del nostro immaginario collettivo. E' come se, guardando The Artist, ritrovassimo l'innocenza perduta, e ci rendessimo conto di quanto ci fosse mancata. Per me, il momento più bello, è senza dubbio quello dell'innamoramento tra George e Peppy: i due stanno girando la scena di un ballo, dove si devono incrociare, ballare allacciati per pochi istanti e poi separarsi. Ma la scena deve essere ripetuta continuamente, perché c'è sempre qualcosa che non va: i due ridono, sbagliano i tempi, rimangono abbracciati troppo a lungo. Insomma l'amore racchiuso in quattro, semplicissime scene. Alla fine del film, il pubblico (sala stracolma di uno dei più grandi cinema di Parigi) è scoppiato in uno spontaneo, fragoroso applauso. Come se fossimo a Hollywood nel 1927, e non al Gaumont Opéra nel 2011.
Tutto sembrava possibile, persino mettersi a baciare qualcuno sotto la pioggia all'uscita del film, pretendendo di essere ancora in un mondo perfetto: silenzioso, e in bianco e nero.
domenica 30 ottobre 2011
domenica 23 ottobre 2011
The Hour
Sono una di quelle persone per cui la vita senza serie TV non avrebbe più senso.
Ed è così dalla più tenera infanzia. Sono cresciuta a pane e sceneggiati BBC. Quando ero piccola, la RAI era talmente illuminata da avere il coraggio di trasmettere praticamente tutto quello che si produceva in Gran Bretagna. Negli anni della gioventù, ho assunto dosi massicce di Upstairs, Downstairs, The Duchess of Duke Street, The Avangers, The New Avengers, The Survivors, George and Mildred, Doctor Who, Sapphire and Steel, How green was my valley, All creatures great and small e chi più ne ha più ne metta, oltre ad ogni trasposizione televisiva possibile ed immaginabile dei romanzi di Jane Austen, delle Sorelle Bronte e di altri classici inglesi (con Brideshead Revisited a svettare lassù, nell'alto dei cieli).
In questi ultimi anni, gli americani sembrano non solo aver imparato la lezione dei maestri, ma averli di gran lunga superati. Tutto quello prodotto da HBO è praticamente un capolavoro assoluto, senza contare le innumerevoli perle rare sparse sugli altri canali d'oltre oceano. Tuttavia, gli inglesi sanno ancora il fatto loro, e non perdono nessun colpo: The Office di Ricky Gervais è talmente avanti che fa quasi paura, la comicità politicamente scorrettissima di Little Britain è da urlo, l'irriverenza di Queer as Folk ha fatto scuola, l'idea geniale che sta alla base di Life on Mars crea dipendenza. Non è forse un caso che tutte queste serie TV siano state rubate e rifatte dagli americani (non so con quali risultati, a dire il vero, perché non ho mai avuto voglia di guardarle). L'anno scorso, gli inglesi ci hanno regalato una perla rarissima: Downton Abbey, uno sceneggiato che segue in parallelo le vicende di una famiglia artistocratica dei primi del novecento e quelle della loro servitù. Impossibile trovarci un difetto: la sceneggiatura (di Julian Fellowes, già autore di Gosford Park) è bellissima, i dialoghi intelligenti e divertenti, gli attori di una bravura eccelsa (Maggie Smith ha appena vinto un Emmy Award per il suo ritratto della matriarca stronza ed irresistibile). Insomma, ve ne consiglio vivissimanente la visione (in questo momento in Inghilterra sta andando in onda la seconda stagione).
Da un po' di tempo a questa parte, invece, sentivo parlare di un altro prodotto della TV britannica, che mi incuriosiva molto perché veniva definito come la risposta inglese a Mad Men. Così, quando sono passata da Londra, ho comprato a scatola chiusa il cofanetto di The Hour, sei episodi che raccontano il dietro le quinte di una trasmissione della BBC negli anni 50. Scritto da Abi Morgan (sceneggiatrice di Brick Lane, The Iron Lady e Shame), The Hour si concentra su tre personaggi: la giovane produttrice Bel Rowley (l'ottima Romola Garai), il suo miglior amico e angry young journalist Freddy Lyon (l'eccezionale, come sempre, Ben Whishaw), e il presentatore bello e ambizioso Hector Madden (il bravo Dominic West, che molti ricorderanno in The Wire). E' il 1956, siamo in piena guerra fredda, c'è la crisi del Canale di Suez, e i tre si trovano rispettivamente a produrre, scrivere e presentare una nuova trasmissione di approfondimento della BBC, chiamata appunto The Hour. Ben presto, tuttavia, i tre si troveranno anche coinvolti in una storia di spionaggio e morti ammazzati che non avevano previsto.
Il primo episodio, dico la verità, non mi aveva entusiasmato: mi sembrava un po' lento, non particolarmente avvincente, dai contorni persino un po' sbiaditi, ma mi sono detta che comunque valeva la pena di continuare a guardarlo. Ed ho fatto bene. Non so dirvi esattamente a che punto, ma The Hour mi ha conquistato in maniera subdola e inaspettata. Ad un certo punto, tra il secondo e il terzo episodio, ho capito che l'unica cosa della quale mi importava durante la giornata, era quella di tornare a casa e vedere come andava avanti la storia. Ho provato ad analizzare le ragioni di questo improvviso amore ma, come per tutte le cose irrazionali di questo mondo, mi sono resa conto che sono difficili da spiegare. Voglio dire, al di là delle evidenti qualità del prodotto: ben scritto, ben girato, con attori fantastici, insomma con gli ingredienti classici di un'ottima serie TV.
Quel qualcosa di speciale, forse, risiede nella quintessenza del being british, nell'understatement puro e duro. In The Hour le cose non sono mai urlate, mai spettacolari, mai particolarmente glamorous, mai sopra le righe, ma sono a volte solo accennate, a volte spiegate in maniera chiara e sobria, a volte semplicemente lasciate all'intelligenza dello spettatore. Anche l'ambientazione anni 50 ha una qualità completamente diversa rispetto a quella di Mad Men: qui è tutto più povero, più invernale, con una patina di quotidiano, di guerra fredda, di kitchen-sink drama, di tazze di té, di pioggia che scende abbondante ed implacabile.
Oddio... avrei voluto che non finisse mai.
Come ha scritto di recente il New York Times nella sua recensione: peccato solo che quest'ora non duri qualche minuto di più...
Ed è così dalla più tenera infanzia. Sono cresciuta a pane e sceneggiati BBC. Quando ero piccola, la RAI era talmente illuminata da avere il coraggio di trasmettere praticamente tutto quello che si produceva in Gran Bretagna. Negli anni della gioventù, ho assunto dosi massicce di Upstairs, Downstairs, The Duchess of Duke Street, The Avangers, The New Avengers, The Survivors, George and Mildred, Doctor Who, Sapphire and Steel, How green was my valley, All creatures great and small e chi più ne ha più ne metta, oltre ad ogni trasposizione televisiva possibile ed immaginabile dei romanzi di Jane Austen, delle Sorelle Bronte e di altri classici inglesi (con Brideshead Revisited a svettare lassù, nell'alto dei cieli).
In questi ultimi anni, gli americani sembrano non solo aver imparato la lezione dei maestri, ma averli di gran lunga superati. Tutto quello prodotto da HBO è praticamente un capolavoro assoluto, senza contare le innumerevoli perle rare sparse sugli altri canali d'oltre oceano. Tuttavia, gli inglesi sanno ancora il fatto loro, e non perdono nessun colpo: The Office di Ricky Gervais è talmente avanti che fa quasi paura, la comicità politicamente scorrettissima di Little Britain è da urlo, l'irriverenza di Queer as Folk ha fatto scuola, l'idea geniale che sta alla base di Life on Mars crea dipendenza. Non è forse un caso che tutte queste serie TV siano state rubate e rifatte dagli americani (non so con quali risultati, a dire il vero, perché non ho mai avuto voglia di guardarle). L'anno scorso, gli inglesi ci hanno regalato una perla rarissima: Downton Abbey, uno sceneggiato che segue in parallelo le vicende di una famiglia artistocratica dei primi del novecento e quelle della loro servitù. Impossibile trovarci un difetto: la sceneggiatura (di Julian Fellowes, già autore di Gosford Park) è bellissima, i dialoghi intelligenti e divertenti, gli attori di una bravura eccelsa (Maggie Smith ha appena vinto un Emmy Award per il suo ritratto della matriarca stronza ed irresistibile). Insomma, ve ne consiglio vivissimanente la visione (in questo momento in Inghilterra sta andando in onda la seconda stagione).
Da un po' di tempo a questa parte, invece, sentivo parlare di un altro prodotto della TV britannica, che mi incuriosiva molto perché veniva definito come la risposta inglese a Mad Men. Così, quando sono passata da Londra, ho comprato a scatola chiusa il cofanetto di The Hour, sei episodi che raccontano il dietro le quinte di una trasmissione della BBC negli anni 50. Scritto da Abi Morgan (sceneggiatrice di Brick Lane, The Iron Lady e Shame), The Hour si concentra su tre personaggi: la giovane produttrice Bel Rowley (l'ottima Romola Garai), il suo miglior amico e angry young journalist Freddy Lyon (l'eccezionale, come sempre, Ben Whishaw), e il presentatore bello e ambizioso Hector Madden (il bravo Dominic West, che molti ricorderanno in The Wire). E' il 1956, siamo in piena guerra fredda, c'è la crisi del Canale di Suez, e i tre si trovano rispettivamente a produrre, scrivere e presentare una nuova trasmissione di approfondimento della BBC, chiamata appunto The Hour. Ben presto, tuttavia, i tre si troveranno anche coinvolti in una storia di spionaggio e morti ammazzati che non avevano previsto.
Il primo episodio, dico la verità, non mi aveva entusiasmato: mi sembrava un po' lento, non particolarmente avvincente, dai contorni persino un po' sbiaditi, ma mi sono detta che comunque valeva la pena di continuare a guardarlo. Ed ho fatto bene. Non so dirvi esattamente a che punto, ma The Hour mi ha conquistato in maniera subdola e inaspettata. Ad un certo punto, tra il secondo e il terzo episodio, ho capito che l'unica cosa della quale mi importava durante la giornata, era quella di tornare a casa e vedere come andava avanti la storia. Ho provato ad analizzare le ragioni di questo improvviso amore ma, come per tutte le cose irrazionali di questo mondo, mi sono resa conto che sono difficili da spiegare. Voglio dire, al di là delle evidenti qualità del prodotto: ben scritto, ben girato, con attori fantastici, insomma con gli ingredienti classici di un'ottima serie TV.
Quel qualcosa di speciale, forse, risiede nella quintessenza del being british, nell'understatement puro e duro. In The Hour le cose non sono mai urlate, mai spettacolari, mai particolarmente glamorous, mai sopra le righe, ma sono a volte solo accennate, a volte spiegate in maniera chiara e sobria, a volte semplicemente lasciate all'intelligenza dello spettatore. Anche l'ambientazione anni 50 ha una qualità completamente diversa rispetto a quella di Mad Men: qui è tutto più povero, più invernale, con una patina di quotidiano, di guerra fredda, di kitchen-sink drama, di tazze di té, di pioggia che scende abbondante ed implacabile.
Oddio... avrei voluto che non finisse mai.
Come ha scritto di recente il New York Times nella sua recensione: peccato solo che quest'ora non duri qualche minuto di più...
mercoledì 12 ottobre 2011
Drive
Something is rotten in the State of California, and if it is a Danish
guy to declare it, you should believe him, especially if his name is Nicolas
Winding Refn.
The no-name hero of his movie Drive lives in LA and works as a stuntman during
the day and as a getaway driver of crimes at night. And he is very good at what
he does. All the rest, it’s a mystery: no family, no friends, and apparently no
past life. He is a solitary and silent man. One day, he meets by chance Irene,
a young neighbour, and her little children Benicio, and his existence is
transformed. When Irene’s husband comes back home from jail, it is easy for the
driver to accept of being involved in a dangerous hold-up: it is just by doing
so that the criminals, to whom Irene’s husband owes money, will leave the
woman and her son alone. Useless to say, things will be a bit more complicated than
expected…
This is the movie of the consecration for Winding Refn, a Danish angry
young man (he was born in Copenhagen in 1970) who is considered one of the most
original and interesting talents of European cinema. He built his reputation
through tough and personal movies like the trilogy Pusher, the chilling thriller
Fear X and two movies of stylized violence like Bronson and Valhalla Rising,
often using as his alter ego the more-than-amazing Danish actor Mads Mikkelsen.
Awarded of the Best Director Prize at the last Cannes Film Festival, Drive is surely
less uncompromising and more mainstream than all his other movies, but it is by
far the most enjoyable one.
For somebody who doesn’t have a driving licence (apparently he failed
the test 8 times), Winding Refn has an incredible ability of showing the beauty
and the thrilling sensation you can feel seated at a four wheels. American
cinema is packed with spectacular and often unbelievable scenes of car racings,
but the ones filmed here have a more subtle and simple taste. The filmmaker
doesn’t want to show off; he just wants us to enter into the driver’s universe in
a smooth but gripping way. I really like the silent characters of Winding Refn
cinema: like the One-Eye of Valhalla Rising, the driver lives his life more through
images than through words. He is watching carefully what’s going on, often a mystical
witness of the absurdity of life, inhabited by a wisdom that puts him on a
different level. As many silent, charismatic and solitary heroes of American
cinema (Clint Eastwood, are you there?), the driver played so wonderfully by
Ryan Gosling has the astonishing quality of being redeemed by love but haunted
by violence.
To the surprise of many, I will dare to define Drive as an incredibly romantic movie. In this sense, the elevator scene is the most beautiful and pivotal one: in an elegant, almost old-style slow motion, the man turns to kiss Irene, suddenly illuminated by a perfect light, and his arm protects her from the presence of a third presence in the elevator. The person is a criminal, and after few seconds he will be knocked down by the animal and brutal violence of the same man. The representation of violence in Winding Refn movies, clearly influenced by the cinema of Martin Scorsese, Brian De Palma and Michael Mann, has Kitanesque’s nuances: is rapid, merciless and stylish (with forks, instead of chopsticks, in the eyes). Another essential element of Drive is the music, in various moments invading the screen like a real form of life, expressing things like a dialogue would do.
To the surprise of many, I will dare to define Drive as an incredibly romantic movie. In this sense, the elevator scene is the most beautiful and pivotal one: in an elegant, almost old-style slow motion, the man turns to kiss Irene, suddenly illuminated by a perfect light, and his arm protects her from the presence of a third presence in the elevator. The person is a criminal, and after few seconds he will be knocked down by the animal and brutal violence of the same man. The representation of violence in Winding Refn movies, clearly influenced by the cinema of Martin Scorsese, Brian De Palma and Michael Mann, has Kitanesque’s nuances: is rapid, merciless and stylish (with forks, instead of chopsticks, in the eyes). Another essential element of Drive is the music, in various moments invading the screen like a real form of life, expressing things like a dialogue would do.
And then the cast: I already declared my love for Ryan Gosling in my
post about Blue Valentine (http://leblogdezazie.blogspot.com/2011/04/new-york-trilogy-blue-valentine.html), so I don’t have much to add on this. His career
choices are simply perfect. The other brilliant presence in the movie is the
one of Bryan Cranston, the cherished actor of the TV series Breaking Bad, who
masterfully built his character in just few scenes. Also the villains are not
bad: Albert Brooks and Ron Perlman are scary and magnetic in the right way. On
the female side, Christina Hendricks (the Joan of Mad Men) has a too short role
to say something interesting about her, while I have to make here a declaration, and not a loving one, about Carey Mulligan: I can’t stand her. Since the very first time I saw her on
screen I asked myself why this girl is considered a good actress. She pretends
to be deep but she is not, she pretends to have a complete range of expressions
but she doesn’t, she wants to look smart but she just looks unbearable. Her way
of acting is unbelievably boring, and I mean, she is not even stunningly gorgeous (quite
the opposite, as a matter of fact). Why is she on a silver screen? Maybe I am missing the point, but can
somebody explained me why is she becoming so famous and why is she working with such good film-makers? All this remains a mystery to me.
Should I finally make up my mind and get the driving license I never even tried to have?
I asked myself at the end of the movie. Well, if Ryan Gosling is giving private driving lessons, I promise: I will serioulsy think about that...
Should I finally make up my mind and get the driving license I never even tried to have?
I asked myself at the end of the movie. Well, if Ryan Gosling is giving private driving lessons, I promise: I will serioulsy think about that...
venerdì 7 ottobre 2011
Pellegrinaggi
My Beautiful Laundrette by Stephen Frears - 1987 |
Ovviamente, già che c'ero, ne ho approfittato per andare per librerie, che a Londra sono di una bellezza straziante. Ed è così che in un piccolo e delizioso bookshop di Notting Hill, Lutyens & Rubinstein, sono incappata in un volumetto sulle Film Locations di Londra. L'ho sfogliato e poi subito comprato, e quando sono tornata a casa dall'amico che mi ospitava, l'ho mostrato tutta fiera: Guarda che bello, così adesso posso andare a vedere dove hanno girato Alfie, Darling, Dirty Pretty Things, The End of the Affair, Nil by Mouth, Naked, Wonderland ecc. ecc. Lui mi ha guardata sorpreso, senza capire, e mi ha spiazzato con una semplice domanda: Perché ci vai?
Mi sono resa conto di non avere una risposta, e per una semplice ragione: io quella domanda non me la sono mai fatta. A me sembra nell'ordine delle cose, andare a vedere dove hanno girato un film. Lo considero normale, anzi, più che normale: giusto. E' un po' come chiedere ad un credente: Perché vai in chiesa? Perché vai alla Moschea? O in Sinagoga? Replica ovvia: Perché lì c'è quello che cerco, quello in cui credo.
Così, mi sono messa a ripensare a tutti i pellegrinaggi laici e cinematografici che ho fatto nella vita. E mi sono resa conto, in ordine sparso, di essere andata nei seguenti luoghi:
La città di Rochefort, dove Jacques Demy ha girato Les Demoiselles de Rochefort (1967)
La spiaggia di Dinard, in Bretagna, dove Eric Rohmer ha girato Un Conte d'été (1996)
La casa situata al 2302 West 25th Street di Los Angeles, ovvero la Fisher & Sons Funeral Home di Six Feet Under (2001-2005), la meravigliosa serie tv HBO scritta da Alan Ball
Ad ogni modo, i posti più strani in cui sono stata, in effetti, si trovano a Londra.
Per un film che ho amato moltissimo, The Crying Game di Neil Jordan (1992), un giorno di tanti anni fa ho fatto un lunghissimo giro nella zona di Hoxton Square: avevo letto che in Coronet Street, ad esempio, si trovava il famoso bar (Metro) dove si svolgono le migliori scene del film. Oggi Shoreditch è diventata una zona super trendy ma all'epoca, vi assicuro, non lo era per nulla.
Ma la Palma d'Oro della location più assurda, lo ammetto, l'ho vinta il giorno in cui mi sono spinta al n° 11 di Wilcox Road, South Lambeth, all'epoca un postaccio davvero infame, per vedere la Laundry in cui avevano girato My Beautiful Laundrette di Stephen Frears (1987).
E, notate bene, sapevo benissimo che quella lavanderia a gettoni non esisteva più, e forse non era mai esistita se non nel film, ma io ci sono andata lo stesso. E sono stata lì, a fare foto ad una delle vie più brutte di Londra, ad un negozio che non ricordo nemmeno cosa fosse, ma non importava. Perché era lì che erano stati, lì che Johnny e Omar si baciavano, lì che venivano picchiati, lì che si amavano, lì che fregavano la Thatcher. Insomma, era lì che si trovava il mio personale luogo di culto.
Me la sarei quasi sentita di mettermi in ginocchio a pregare.
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