Continuavano a piacermi le stesse cose che mi piacevano prima che tutto chiudesse.
Continuavo a pensare a quanto sarebbe stato difficile non vedere la mia famiglia e i miei amici, a non fare la valigia per andare da qualche parte nel mondo, a non girellare tra i banchi delle brocantes nelle strade parigine, e a non sedermi in una sala buia davanti ad uno schermo gigante.
Ho soprattutto continuato a pensare che la vita nei film è sempre meglio di quella reale. Non avevo certo bisogno di un confinamento per esserne certa, ma tant’è.
Per cui, in maniera del tutto prevedibile, lunedì 22 Giugno ero davanti al mio cinema preferito di Parigi che riapriva quel giorno le sue porte:
Il Cinéma des Cinéastes è un cinema indipendente a due passi da Place Clichy. Mi piace perché ha una programmazione geniale, perché la sala più grande è una delle più belle che ci siano in città, e perché al primo piano c’è un bistrot carino e davvero perfetto per quando vuoi bere o mangiare prima o dopo un film.
Non eravamo in tanti, quel giorno, al massimo una ventina: c’eravamo io e la mia amica Giulia e altre persone che, come noi, avevano sofferto di questa mancanza più di quanto fossero disposti ad ammettere. Io per la verità lo avrei ammesso senza problemi.
Un’ossessione è un’ossessione, c’è poco da fare.
Ci guardavamo sorridendo con l’aria di quelli che fanno parte di una setta segreta la cui parola d’ordine sarebbe ovviamente Fidelio (persino per me che trovo Kubrick un po’ troppo freddino).
La cosa davvero speciale è che il gestore del cinema insieme ad alcuni rappresentanti dell’ARP (la Société civile des Auteurs Réalisateurs Producteurs) sono venuti a darci il benvenuto.
Hanno esordito dicendo: Siamo felici di vedervi, ci siete mancati!
Dalla sala si è levato un coro: Anche voi!!!
Proprio mentre stavano parlando, si è aperta la porta ed è entrata una signora dall’aria particolarmente felice. Ha guardato noi, ha guardato loro, e poi si è messa a dire a gran voce: Scusate se vi interrompo ma… ma quanto è bello essere di nuovo al cinema??!
Vabbé, era da non credere, sembrava proprio la scena di un film.
Noi siamo tutti scoppiati a ridere ed è partito l’applauso.
Insomma eravamo proprio felici (io mi sono anche un po’ commossa).
E poi la sala è diventata buia e ho ritrovato intatta quella sensazione che mi assale sempre ad ogni visione, in quell’istante preciso che non è più oscurità ma non è ancora cinema: la sospensione di possibile meraviglia, la rapida attesa di un altrove forse straordinario in cui si sta per entrare.
Da quando hanno riaperto i cinema, ammettiamolo, la programmazione non è un granché.
Tutti stanno aspettando l’autunno per far uscire i film “importanti”. Nel frattempo, hanno fatto riuscire tanti film che erano fuori al momento del lockdown, cosa che non mi ha aiutata perché io al cinema ci sono andata fino al giorno prima che chiudessero e quindi avevo già visto quasi tutto quello che mi interessava.
Comunque sia, sono molto felice dei primi film che ho già visto in questo periodo.
Il secondo film del post-confinement è stato una certezza, perché amo il lavoro di questo regista da tantissimi anni e so di andare sul sicuro, con lui. Si tratta dell’argentino Marco Berger, e del suo Un Rubio (Un Biondo, titolo francese Le Colocataire), una storia d’amore tra due ragazzi che condividono lo stesso appartamento e che vivono la loro sessualità in segreto. Quello che adoro dei film di Berger è che sono film semplicissimi, fatti di pochissimi elementi, pochi dialoghi, pochi gesti, pochi luoghi, con i quali però riesce ad ottenere la massima resa. Nel senso che questa essenzialità crea un’attenzione irresistibile, una tensione palpabile, e ogni movimento, ogni parola, diventano importanti. E poi pochi sono in grado come lui di rendere sullo schermo il desiderio nascosto, l’attrazione nascente, e il profilarsi di un sentimento che spesso deve essere non rivelato perché impossibile o troppo complicato da vivere.
Berger ha una sensibilità unica che è un vero piacere ritrovare sempre intatta sullo schermo.
Dall’Argentina sono passata a Brooklyn con il film Lingua Franca (titolo francese: Brooklyn Secret) di Isabel Sandoval, storia di una trans filippina (senza documenti in regola) nell’America di Trump.
Scritto, diretto, interpretato e montato dalla Sandoval, il film non è autobiografico ma la regista si è ispirata a quanto personalmente vissuto dopo la sua trasformazione da uomo a donna (avvenuta alla fine del suo secondo film, Lingua Franca è la sua terza opera). Film non perfetto ma di grande carica emotiva, non lascia mai indifferenti e fa capire molto bene l’angoscia di chi vive in situazioni precarie nell’era Trump.
Infine, sono stata ad un’anteprima dell’ultimo film di François Ozon: Eté ’85 (Estate 85), storia d’amore con tragedia tra due ragazzi nell’estate, appunto, del 1985. Mah… che volete che vi dica? Ozon è un regista che amo un film sì e uno no, ma è raro che lo trovi straordinario. Questa era la volta del film no. Purtroppo ho detestato dal primo momento l’atmosfera del film ma soprattutto la faccia e il modo di recitare di uno dei due attori, Benjamin Voisin (nuovo idolo delle folle qui in Francia). A parte un paio di momenti carini e la faccia di Valeria Bruni Tedeschi davanti al nudo di un fanciullo, un film che ho dimenticato nel giro di due minuti. E no, non è mai un bel segno. Ma non importa, l’importante è essere tornati al cinema.
L’importante è essere rinati.