domenica 25 settembre 2016

Juste la fin du monde

A volte mi capita di avere un comportamento strano, quando amo tantissimo qualcosa.
Mi succede che, dopo aver passato anni a difendere strenuamente quella cosa, a parlarne a tutti, a magnificarla, a spiegare perché io la trovi così meravigliosa, mi viene voglia di mollare il colpo. 

Di pensare: e vabbé, che sarà mai, non amatela, non ho più la forza di difenderla. E, in casi estremi, addirittura di cedere: forse hanno ragione gli altri – mi dico. In fondo non è poi così speciale, questa cosa qui, perché dovrei darmi tanta pena per salvarla agli occhi della gente? E allora, a quel punto, spero quasi che quella cosa mi deluda, che faccia un danno, un disastro, insomma qualcosa di irreparabile per cui possa diventare più semplice non amarla più.
Ma non succede quasi mai. Perché alla fine sono costretta ad ammettere che quella così lì mi piace perché la trovo bellissima e necessaria, e che non me ne frega niente di quello che pensano gli altri. E in quell'istante 
provo una sensazione impagabile di leggerezza, e la certezza assoluta di sapere che se anche facesse schifo al resto del mondo, io continuerei ad amarla. 
Xavier Dolan, per me, è quella cosa lì.
Anni che la meno a tutti: quanto mi piaccia, quanto lo trovi geniale, quanto i suoi film mi emozionino e mi sconvolgano, quanto adori il fatto che faccia tutto lui, sceneggiatura-regia-costumi-musica-montaggio ecc. ecc. 
Quando, all’epoca dell’ultimo Festival di Cannes, ho letto le critiche che stroncavano quasi all’unanimità il suo ultimo film, Juste la fin du Monde (che ha però vinto il Grand Prix du Jury), mi sono detta che basta, che non me la sentivo più di difenderlo contro tutto e tutti. E ho sinceramente sperato che il suo film fosse una schifezza, che mi facesse orrore, che lo trovassi ripugnante.
Che ingenua. Ho pensato tutto questo senza fare i conti con la cosa più ovvia, il motivo per cui amo questo regista: il suo talento smisurato e il suo coraggio creativo.

Basato sulla pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, un autore francese morto nel 1995 di AIDS a soli 38 anni, il film racconta il ritorno in famiglia, dopo ben 12 anni di assenza, di Louis, un giovane scrittore teatrale. Il motivo per cui Louis ritorna a vedere la madre, la sorella minore Suzanne, il fratello maggiore Antoine e sua moglie Catherine, è annunciare la propria morte. Nel corso del pranzo e del pomeriggio che trascorrerà con loro, tutti i conflitti rimasti sopiti per anni torneranno a galla. Come riuscire a fare un discorso tanto difficile quando la comunicazione in famiglia sembra impossibile?
Xavier Dolan non è mai dove te lo aspetti.
Se qualcuno pensava di vedere un film simil-Mommy rimarrà profondamente deluso: qui Dolan cambia totalmente registro, e dallo strabordamento dei sentimenti passa al loro congelamento. Si parla sempre di famiglie, sempre di madri, sempre di rapporti tra esseri umani e della difficoltà a gestirli, ma qui il problema è portato all'eccesso, spinto ad un punto dove finora non si era mai addentrato. Un punto di rottura dove nessun rammendo è più possibile. Con la maturità di qualcuno che sembra avere il triplo dei suoi anni e almeno il doppio dell'esperienza, il regista, sorta di Antonioni moderno, esplora la mancanza totale di dialogo, l'incapacità di esseri appartenenti alla stessa famiglia di dirsi le cose più importanti, di dirsi la verità, immersi in un blablabla costante e privo di senso, avvolti da un eccesso di diniego, paura e rifiuto dell'altro. In un pranzo che dovrebbe essere di riconciliazione e ritrovamento, la famiglia si dilania, si sbrana vicendevolmente, si accusa di eventi di un passato remoto che risorge come un rigurgito di bile, lasciando tutti tramortiti per le troppe urla, il troppo odio, l'impossibilità di perdono e comprensione reciproca.
Il prodigio di Dolan è quello di usare la macchina da presa come testimone privilegiata di questo massacro. I protagonisti sono filmati quasi esclusivamente in primi piani enormi, fissi, come se allo stare soli sullo schermo corrispondesse la loro solitudine estrema, e anche quando sono in due, uno è sfuocato e l'altro no, due persone che si parlano senza dirsi niente, ciascuno immerso nel proprio delirio. In quella che per me è la scena più bella del film, i fratelli fanno un viaggio in macchina che diventa ancora più asfissiante, ancora più estremo nello spazio angusto dell'abitacolo, mentre uno sbraita e l'altro cerca di raccontargli qualcosa che sia comprensibile ad entrambi, in un tentativo fallito di riprendere un linguaggio comune che ormai non esiste più .
Dolan, e lo fa anche grazie ai cinque attori straordinari che ha scelto per interpretare questi personaggi scomodi, riesce ancora una volta a portarci in un luogo sconosciuto, inesplorato, riesce ancora una volta ad alzare l'asticella un po' più in altro, viene a dare forza a chi per un attimo aveva pensato di cedere, a dare coraggio a chi ama e difende il suo cinema.
Insomma Dolan, se non ci fosse, bisognerebbe proprio inventarlo.

mercoledì 21 settembre 2016

One more time with feeling

If, for most people, July 14 is Bastille Day, for Australian singer and composer Nick Cave July 14 simply is, by far, the worst day of his life.
On that date in 2015, his son Arthur, 15 years old, after having tried for the first time LSD with a friend, completely unaware of what he was doing, fell off from the top of Ovingdean Gap's cliff, near Brighton, where the Caves live.
Nick Cave, his wife Susie and Arthur's twin brother Earl, had all to face this immense and utterly cruel tragedy.
In December of the same year, Cave asked his friend Andrew Dominik, the New-Zealander film-maker who signed movies like Killing them softly and The assassination of Jesse James by the coward Robert Ford, to film the studio recording of his new album, Skeleton Tree. The idea was to avoid to make the promotion of it, since Cave felt unable to talk about it with journalists.
Filmed in black-and-white and colour, in both 3D and 2D, One more time with feeling contains more than the album, though. It is a real documentary: between the songs, Cave talks about what is happening in his life since what he called "the trauma".
Largely improvised, these parts shape bit by bit a new image of Nick Cave. A shattered human being who struggles to find a way to keep going, incredibly frail and love needing.
It is almost unbearable to witness Cave's pain, as well as the one of his wife Susie.
Always extremely dignified, but at the same time not afraid to show how difficult could be to outlive a person they both immensely loved.
There is a scene particularly heartbreaking. In front of the camera, Susie, standing, shows a painting made by Arthur and tells the story behind it, while Nick seats at her side. At a certain point, she looks at him and whispers: "I don't know if I can tell this without crying" and Cave looks at her in such tender way, saying nothing, just shaking his head, in a gesture full of love and despair.
A strange and very particular object, this is a film that Cave’s fans will not forget very easily.
I personally started to adore Nick Cave twenty years ago, at the time of his album The Boatman’s Call, that I consider a pure gem. Since then, I bought every record, went to every concert I could. The one he made at the Olympia in Paris in June 2008 is, until today, the best concert I’ve ever been.
That his son had to die trying LSD, seems to me particularly cruel. As if drug, unable to take Nick’s life (a notorious addict for many years), finally won over him through Arthur. 

As Cave said several times in the movie, there is the person he used to be before and there is the new person he is now, after the tragedy. The body is the same, but the soul is completely different. He knows he will never get over it, but he is trying his best to survive.
And I guess Cave found a way to survive (besides, clearly, through the love of his family and friends), through his work, his music.
The songs of Skeleton Tree are desperate, magnificent and necessary.
It will be a pity to miss them (even if, as you could easily guess, they’re not exactly cheerful).

When the movie was over and the audience, already in tears, was about to leave the cinema, a song on the end credits gave us the final blow. It was Deep Water, a Marianne Faithfull song, lyrics by Marianne Faithfull, music by Nick, Arthur and Earl Cave, in a version recorded a while ago and sung by the two twins:
I’m walking through deep water
I have no time to lose
I’m walking through deep water
There’s nothing left to choose
This little heart of mine
Got loaded up with chains
The world just swirls around me
The water makes its claim
I’m walking through deep water
Trying to get to you
Who will calm my fears?
Who will drive my tears away?
Who will calm my fears?
Who will drive my tears away?

You don't have to look any further to find the most heartbreaking movie of the year.

lunedì 19 settembre 2016

mercoledì 7 settembre 2016

Divines

Un fatto è certo: i film che vincono la Caméra D'Or (il premio per la miglior opera prima) al Festival di Cannes, sono quasi sempre dei grandi film. 
Qualche esempio negli anni: Stranger than paradise di Jim Jarmusch, Toto le Héros di Jaco Van Dormael, Me and You and Everyone we know di Miranda July, Samson and Delilah di Warwick Thornton e, su tutti, Hunger di Steve McQueen. Stare per la prima volta dietro la macchina da presa e riuscire a creare un film speciale, importante, e che faccia la differenza, è ancora più difficile per un absolute beginner.
Si intuisce, dietro queste opere, un desiderio incredibile di riuscire a dire tutto quello che si ha da dire (casomai non ce ne fosse un'altra, di occasione), una spinta creativa di potenza superiore, una libertà e a volte un'ingenuità che ne fanno un prodotto a cui si vuole bene da subito in maniera spontanea e totale.
Il film che ha vinto quest'anno la Caméra D'or rientra perfettamente nella categoria: Divines della regista francese (di origine marocchina) Houda Benyamina.
Dounia e Maimouna sono due ragazze della banlieu parigina. La prima vive con la madre (spesso ubriaca e di facili costumi) in una baraccopoli stretta tra l'autostrada e degli orrendi palazzoni HLM, e Maimouna proprio in uno di quei palazzoni con dei genitori super religiosi (il padre è l'imam della Moschea locale). Entrambe sanno che il futuro non ha in serbo un granché, per loro, e Dounia decide di passare all'attacco chiedendo lavoro a Rebecca, la pusher più famosa e cazzuta del quartiere. Le ragazze se la cavano bene e cominciano a fare un po' di soldi, e Dounia si innamora di un ballerino, che osserva danzare di nascosto nel retro di un teatro, dove lei custodisce quello che guadagna. Ma la fortuna, ad un certo punto, smette di girare per il verso giusto. E la vita chiede un prezzo altissimo da pagare.

Negli ultimi anni non sono mancati, qui in Francia, film sulle periferie parigine, e uno dei più incisivi aveva già come protagoniste un gruppo di ragazze (Bande de Filles di Céline Sciamma), Divines però ha quel qualcosa in più che fa la differenza. Un eccesso di vitalità che deborda da ogni particella dello schermo, che qualche volta rasenta il prosaico e qualche volta il sublime. La cosa irresistibile è il desiderio sfrenato di Dounia di emanciparsi dalla realtà di miseria in cui vive. E’ talmente chiaro che questa possibilità non gliela darà la scuola (la scena divertente ma lucidissima in cui Dounia deve far finta di essere la receptionist di una qualsiasi ditta, come se il massimo a cui le ragazze di periferia possano ispirare fosse proprio un lavoro di questo tipo), e talmente chiaro che il modo più rapido (anche se non indolore) di riuscire a fare soldi sia buttarsi in loschi traffici. 

Divines è una sorta di La Haine al femminile 20 anni dopo, con l'aggravante che niente sembra essere migliorato, per la gente delle banlieu: Fin qui, tutto male, per parafrasare  il famoso tormentone del film di Kassovitz. 
Nel film della Benyamina, se non altro, si assiste ad una sana inversione di ruoli: il leader più tosto e carismatico  è Rebecca, una ragazza nera che sembra uscita da Goodfellas, furba e impietosa, regina incontrastata dello spaccio di droga del quartiere, e con uno stuolo di uomini a sua disposizione. La dolcezza, l’amore e l’unica altra alternativa possibile allo schifo che c'è intorno, ovvero l’arte, sono invece incarnati da un uomo, il ragazzo di cui Dounia si innamora, un banlieusard come lei che però ha trovato nella danza la sua via di fuga. 
Divines è un film durissimo che lascia poche speranze (per non dire nessuna) ma che regala momenti straordinari: le scene di danza filmate dall’alto, il “finto” viaggio in Ferrari, l’amicizia “à la vie à la mort” delle due ragazze. E' un film potente fatto di lacrime e sangue, dietro il quale si indovina la forza prodigiosa di una regista in lotta con il mondo. 
Storico il suo discorso-fiume quando ha ritirato il premio a Cannes: militante, cazzuto, un po' esagerato, anche un po' troppo lungo, ma pieno di sincerità ed entusiasmo. Una vera boccata d'aria fresca in mezzo a tutti gli speech sempre più standardizzati.
La prima cosa che ha fatto salendo sul palco, è stato ringraziare il suo produttore. Utilizzando una frase del suo stesso film, gli ha urlato: Merci Marc, t'as du clito! (Grazie Marc, hai del clitoride!).
In effetti, di avere soltanto le palle, non se ne può proprio più!   

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