El Clan di Pablo Trapero (Argentina)
Se pensate di venire da una famiglia disfunzionale, tranquilli, dopo aver visto questo film la rivaluterete di sicuro.
Basato su una storia vera, El Clan riporta le gesta (ahimé non eroiche) di Arquimedes Puccio, sua moglie e i suoi cinque figli. Nei primi anni ’80, dietro una facciata di rispettabilità, il padre è a capo di una banda che rapisce giovani rampolli delle famiglie ricche di Buones Aires: gli ostaggi vengono nascosti in una stanza di casa Puccio fino a quando non viene pagato il riscatto, dopo di che, vengono ammazzati senza alcuna pietà. Padre e madre sono evidentemente e silenziosamente d’accordo, i figli un po’ meno: alcuni sono piccoli e non si rendono bene conto di cosa succede, un altro fugge perché non ce la fa più a sopportare la situazione e altri due decidono più o meno consciamente di dare una mano al padre nella gestione degli “affari di famiglia”.
Film quasi alla Scorsese ma senza il senso di colpa che rode dentro e senza la minima ombra di redenzione finale, El Clan rapisce (è il caso di dirlo) per il racconto compatto e scorrevole di questo mostro senza pietà, il padre dei Puccio. Freddo, crudele, manipolatore, in grado di ingannare il mondo grazie ad un’aria rispettabile e quasi innocente, capace di rimproverare ai figli di non essere abbastanza riconoscenti di “tutto quello che fa per loro”, insomma un essere umano davvero orrendo. Attraversato da uno humor nero piuttosto irresistibile, il film ha il pregio di rivelare al mondo (pare che in Argentina sia già molto famoso) un attore straordinario, Guillermo Francella.
Right Now, Wrong Then (Un jour sans, Un jour avec) di Hong Sang-soo (Corea)
Giustamente considerato l’Eric Rohmer de noantri coreani (del Sud), Hong Sang-soo torna, dopo quel piccolo gioiello di Hill of Freedom, con un’altra delle sue storie così ordinarie da diventare straordinarie. Un regista di film indipendenti (ma guarda, chissà a chi si è ispirato?), arriva da Seoul in una piccola cittadina di provincia per partecipare alla proiezione di un suo film seguito da dibattito. Arrivato per sbaglio un giorno prima, visitando un templio si imbatte in una bella fanciulla, una pittrice, con la quale inizia a chiacchierare. Dopo aver preso un caffé insieme, la ragazza gli mostra il suo atelier e i suoi lavori, poi vanno a cena e si ubriacano un po’, e finiscono la serata nel locale di alcuni amici della ragazza. Il regista flirta da morire con la pittrice senza grande successo e si ritrova alla proiezione del suo film di pessimo umore e con la voglia di litigare con tutti.
Ecco, questa è la prima parte del film. La secondo parte è esattamente la stessa storia ma, grazie a scarti minimi di dialogo e situazioni, il finale sarà diverso.
Idea già vista, direte voi, certo, ma questo regista ha un modo tutto suo, pieno di una grazia impacciata e incantevole, di raccontare le cose, e anche il coraggio, piuttosto raro, di far bella mostra delle umane debolezze. Insomma, una vera delizia. Consigliatissimo.
Astenersi quelli che “la mia signora ci vuole la trama!” (e in premio un bacio di Zazie a chi coglie questa citazione).
Room di Lenny Abrahamson (US)
Una ragazza poco più che ventenne festeggia il quinto compleanno di suo figlio Jack chiusa in una stanza. Non si tratta della stanza di una casa, ma del capanno di un giardino, nel quale è stata rinchiusa 7 anni prima da un uomo che l'ha rapita, l'ha violentata (e continua a farlo) e ha trasformato la sua vita in un incubo. Jack è il figlio di questo bruto, dal quale per quanto possibile lei l'ha sempre tenuto lontano, un bambino che non ha mai conosciuto niente altro, nella vita, che le quattro pareti del capanno e il resto del mondo attraverso le immagini della TV. Quando, con un furbissimo stratagemma, il bambino riesce a fuggire e a far liberare anche sua madre, i due si ritrovano per la prima volta insieme nel mondo là fuori. E le cose non saranno facili né per la madre né per il figlio.
Storia agghiacciante e soggetta ad altissimo rischio strappa-lacrime, Room si rivela invece un film di grande impatto emotivo grazie ad una solidissima sceneggiatura, all'idea vincente di far vivere il film attraverso gli occhi di Jack e alla bravura dei due attori protagonisti: Brie Larson nella parte della madre (fresca di Oscar per questo ruolo) e, soprattutto, il piccolo Jacob Tremblay in quella di Jack. Attore di soli 9 anni con all'attivo già 15 film, riesce ad esprimere una vastissima gamma di emozioni, paure e sentimenti con una sottigliezza e una precisione tali da lasciare letteralmente strabiliati.
Come non fosse candidato anche lui all'Oscar, quest'anno, resta per me un grande mistero.
Brooklyn di John Crowley (Ireland/US)
Tratto dal romanzo di Colm Tóibin e sceneggiato da Nick Hornby, Brooklyn è la storia di Ellis, una ragazza che negli anni '50 lascia Enniscorthy, piccola cittadina del sud-est dell'Irlanda, per andare a lavorare a New York. Qui, mentre fa la commessa di giorno e la studentessa di sera, conosce Tony, un italo americano. Quando le cose sembrano mettersi bene, Ellis riceve dall'Irlanda la terribile notizia che la sua unica sorella è morta e la madre è rimasta sola. Sposatasi in gran segreto prima di partire, una volta in Irlanda Ellis si ritrova in preda al dubbio. Un ragazzo del posto, ricco e carino, si mette a farle la corte, ci sono nuove opportunità di lavoro e la madre vorrebbe che lei restasse lì. La decisione che deve prendere per il suo futuro, non sarà impresa facile.
Film dall'impianto classico e sorretto da un'ottima regia, Brooklyn si ricorda soprattutto per la sua atmosfera. Permeato da un senso costante di nostalgia, di cose perdute, perennemente in bilico tra l'energia e la modernità di New York e la solidità e le vecchie (e a volte brutte) abitudini di un'Irlanda rivolta al passato, le immagini ci trascinano lentamente ma inesorabilmente nel dilemma di Ellis. E' questa maniera sottile, questo mai sbandierato tormento a rendere Brooklyn un film piuttosto speciale.
Per il completo gonna+golfino+occhiali da sole+borsetta di paglia che sfoggia Ellis nella scena di Coney Island, io personalmente sarei pronta a lasciare uno stipendio.
The Revenant di Alejandro González Iñarritu (US)
E insomma dopo mesi di trepidante attesa, ecco il film che tutti aspettavamo di vedere.
Il nuovo Iñarritu (a distanza di un anno appena dall'exploit di Birdman), il film grazie al quale Leonardo Di Caprio è finalmente riuscito a ricevere la tanto agognata statuetta, l'opera d'arte per cui stuoli di attori e tecnici hanno trascorso mesi d'inferno, tra gelo e natura inospitale, pur di catturare la magia di luoghi incontaminati e la luce del sole al tramonto attraverso le fronde degli alberi (stesso cinematographer di Tree of Life, a posto così).
Ecco, tutto questo gran daffare per raccontare la storia di una comunissima e banale vendetta, quella di un uomo a cui hanno ammazzato un figlio e che, pur di riuscire a far fuori il colpevole stronzo, nell'ordine, sopravvive a: l'attacco mostruoso di un'orsa grizzlie alta due metri e mezzo, la nuotata (sempre mezzo morto) tra rapide d'acqua gelida che manco un'atleta olimpionico, la traversata di non si sa quanti chilometri di terra innevata mangiando due bacche e un animale morto che fa asado perché hey, noi uomini veri accendiamo il fuoco pure con due pietruzze, la caduta da un'altezza inimmaginabile con cavallo appresso nella cui carcassa, dopo lo schianto al suolo, si nasconde per stare al calduccio e almeno quattro attacchi degli indiani con archi e frecce. Bene, e quando trova il colpevole che fa? Lascia decidere della sua sorte l'entità che è lassù nell'alto dei cieli. Che, dovesse risorgere oggi, un paio di domandine a Iñarritu secondo me le farebbe.
L'unica cosa bella del film è la musica di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto.
Fate voi.