Provo a mettere qui un po’ di pensieri e ricordi, perché in fondo questa storia va spiegata e raccontata. Perché voglio ricordarla così come l’ho vissuta in questi anni, che sono stati quasi fin da subito, dall’inizio, una lunga attesa, una lunghissima corsa contro il tempo. E ormai la corsa è finita, Prof. Nel 2006, studente al terzo anno di medicina, mi iscrissi ad un seminario che mi interessava parecchio, ché volevo fare il neurochirurgo e lì si parlava di aneurismi cerebrali. Una parte del seminario era riservata al trattamento degli aneurismi con tecniche endovascolari, di radiologia interventistica, e io manco sapevo cosa fosse. Arrivasti a seminario iniziato, poco prima che toccasse a te: casco della moto in mano, giubbotto di cuoio; sembravi il fratello maggiore di Stefano Accorsi, pensai. Beh, l’aria era un po’ quella.. Sta di fatto che nel giro di un’ora mettesti in campo una lezione elegantissima, e per me la neurochirurgia finì nel cesso; ho sempre fatto scelte drastiche, impulsive, sopratutto riguardo le cose più importanti, gli snodi della vita. E lì ho fatto la mia scelta; ricordo che mi informai, che chiesi in giro cosa bisognava fare, quale percorso, per arrivare a fare ciò che ci avevi mostrato, e fu così che scoprii che avrei dovuto fare il radiologo. Diedi pochi mesi dopo l’esame, e cominciai a frequentare il reparto, ma fui assegnato a seguire un settore che era quanto di più lontano potesse esistere da quello di cui tu ti occupavi, e ti persi pure un po’ di vista, anche se tutti sapevano che ero lì per tutt’altro. Passarono tre anni, durante i quali diedi anche l’esame di neuroradiologia, e lì scoprii che ti ricordavi il mio nome (ci eravamo mai parlati, prima?) e che forse sapevi qualcosa di me, dei miei interessi..non lo so, non l’ho mai saputo, e a sto punto non lo saprò mai. Arrivò il momento di preparare la mia tesi, e fu lì che mi decisi, e credendo di essere un perfetto sconosciuto, preoccupatissimo, chiesi di poterla fare con te. Me lo ricordo come fosse ieri: un sorriso, ti sedesti su un tavolino vicino alla TAC e rivolto verso di me dicesti “bene, mi fa molto piacere, Federico, voglio investire su di te”. Una frase fatta, sospettai, devo essere onesto. Ma allora nemmeno ti conoscevo personalmente, avresti potuto essere uno dei tanti, che però diversamente da molti faceva un lavoro figo. Ho capito nel giro di poco, quanto c’era di più. Qualche settimana più tardi ero in viaggio col mio camper, da post-terremotato, per un week end a Peschici, e decidemmo di fermarci su un autogrill a San Salvo. Combinazione, eri fermo lì anche tu. Notasti una lamiera che si stava sganciando da quel cesso di camper che mi portavo dietro, rientrasti per dirmelo, e mi salvasti la vacanza. Tre giorni dopo presentavi al cinema movieplex il tuo primo romanzo, e venni con la mia copia per farmela autografare, tanto ormai ero chiaramente quello che si definirebbe un “fanboy”. La tua dedica ancora oggi è una promessa: “ti ho salvato la vacanza, ma rischi che ti rovino la vita”. Ironico, come sempre. Mi sono laureato il 22 ottobre del 2010. Partii per un week end a Trieste per festeggiare, ed ero sull’autostrada, di ritorno, (il 25) quando mi chiamarono per dirmi cosa era successo. La tua malattia, la sua gravità, insospettabile.. stavi benissimo e fu un colpo per tutti, te compreso. Mi raccontarono che finita la TAC, e conosciuto il risultato, continuasti a lavorare, come se nulla fosse. Ed è allora che, se possibile, da mito sei diventato leggenda. E non ti ho più mollato, maledicendo gli anni persi ad assecondare scelte lavorative che altri avevano preso per me. E’ lì che è cominciata la grande corsa. In questi cinque anni abbiamo cominciato a sospettare che ce l’avresti potuta davvero fare. Certo, morivo di paura ogni volta che dal tuo studio mi chiamavi giù in risonanza per chiedere se c’era posto per te, per un controllo. Se c’era posto. Si, perché uno come te chiedeva sempre il permesso. Così come tutte le volte che chiamavi esordivi con “Federico, ti disturbo? sei in ospedale? volevo chiederti una cortesia – oppure – puoi salire nel mio studio?” come se avessi potuto davvero essere altrove, a pensare ai fatti miei o non avere tempo per aiutarti in ciò di cui potevi avere bisogno, in quelle cose in cui potevo esserti – stranamente – utile. Insomma morivo di paura, per quello che avrei potuto trovare, al pensiero di ciò che avrebbe significato. E comunque non è mai successo, nonostante tutto. Per il resto, per tanti anni della tua malattia non abbiamo mai parlato apertamente, ovviamente sapevi che sapevo. E quando pochi mesi dopo divenne possibile operarti, la sera prima di partire per andarti a ricoverare tenesti un concerto, al termine del quale comprai il CD. Non ci siamo salutati di persona, ma ti ho inviato un messaggio, dicendo che l’autografo me l’avresti fatto al ritorno, facendoti l’in bocca al lupo e che facevo il tifo per te. Ancora conservo la risposta, e la conserverò per sempre: “grazie Fede. sei grande. a presto”. Le settimane che seguirono furono scandite dall’arrivo di tue notizie da quegli amici e colleghi che vennero a trovarti in ospedale. Che ci raccontavano di quanto fossi forte, che tutto era andato bene. Che la corsa poteva continuare. E continuò. In questi anni ne abbiamo fatte davvero tante: articoli, lavori scientifici, capitoli di libri, congressi, mi hai inserito dovunque potevi inserirmi, ti ho indegnamente sostituito tutte le volte che non potevi essere da qualche parte. Onorato e preoccupato al tempo stesso, ogni volta che mi annunciavi un impegno che volevi affidarmi, dicevi di volerlo fare perché cercavi di inserirmi, di farmi fare un curriculum degno, che un giorno ti sarebbe piaciuto farmi avere un posto da ricercatore. E sarebbe piaciuto anche a me restare legato al tuo nome, alla tua umanità nel lavorare, al tuo modo di incazzarti ed avere sempre fretta di fare tutto per il meglio. Mi avrebbe fatto piacere seguirti e crescere sotto il tuo controllo e la tua guida. Sorrido se penso a tutte le volte che ci mettevi ansia perché eravamo lenti, disattenti, e non vedevamo i pericoli che tu vedevi; anche in sala angiografica. Quando ti ho visto prendere in mano la situazione e salvare tante vite. E questo ti ripagava di tutto. Di tutti gli anni che hai dedicato a questa disciplina, a tutto quello che hai costruito con le tue mani a L’Aquila. Quei momenti davano a te e danno a noi oggi la forza di sopportare tutte le volte che invece, nonostante l’impegno, le cose vanno male. Anche se a costo di una tristezza che negli anni si accumula a tristezza. Ho sempre pensato che quel velo di tristezza che traspariva nei tuoi modi fosse il fardello di cui, inevitabilmente, un medico della tua umanità si fa carico nel corso di una vita in cui l’impegno non sempre può bastare a far andare bene le cose. Ci vuole culo. E tu non ne hai avuto quanto ne meritavi. Gli anni passati hanno segnato un lento, quasi impercettibile declino fisico. Ma la testa c’è stata sempre, fino alla fine. Solo due settimane fa, dall’ospedale, ancora a metterci fretta per consegnare dei lavori, che quando me li hai affidati dovevano essere tra i tanti che avremmo ancora dovuto fare insieme e che già mi avevi preannunciato. E invece saranno gli ultimi. Lo sospettavo, che sarebbe andata così, e difatti non avevo nemmeno voglia, per la prima volta, di portarli a termine. Sono fatto così, i romanzi che mi piacciono di più a un certo punto li leggo troppo lentamente, per paura del momento in cui arriverò a leggere l’ultima riga e saranno finiti. Per lo stesso motivo non ho mai voluto finire di leggere il tuo perché farlo, nel 2010, mi faceva pensare che – non lo so – finirlo subito sarebbe stato come affrettarmi inutilmente prima del tempo. Adesso posso leggerlo, ma già so che lo farò ancora più lentamente che se ci fossi ancora; leggerò il tuo romanzo considerandolo, in ogni riga, una piccola dose di ricordo e ci ricorrerò tutte le volte che ne sentirò il bisogno. Mi sembra impossibile che tutti noi non potremmo più mandarti a qualsiasi ora le foto di un caso assurdo, di cui non capiamo nulla, e restare in attesa della tua risposta, che per noi era, a ragione, oro colato. Mi sento, ci sentiamo, spersi, disorientati. Ieri notte al pronto soccorso eravamo in tantissimi, e mentre la città festeggiava l’adunata degli alpini eravamo al lavoro. Ho pensato che la cosa migliore che possiamo fare è applicare ciò che hai fatto in tempo ad insegnarci, e difendere quello che hai costruito. Ma non mi sento in grado. C’era ancora troppo da farci insegnare, e meritavi di avere il tempo necessario per farlo e per goderti tutto il resto. In questi giorni ho ricevuto tanti messaggi, da persone conosciute per lavoro e poi perse di vista, che hanno pensato a me sapendo (come?) quanto fossi legato a te; e mi sembra assurdo, dal momento che ho vissuto questo rapporto umano e professionale tendendomelo sempre per me, ché non volevo farmi parlare dietro, ed assurdo perché c’è chi ha più diritto di me di addolorarsi, in modo e per ragioni diverse, ed è a loro che penso oggi.
L’altroieri mi sono deciso poi a venirti a trovare un’ultima volta, per provarti a dire grazie per tutto quello che hai fatto, che hai significato e significherai sempre per me. Se ce l’ho fatta, è stato solo grazie ad Alessandra Splendiani, che era con me.. ed ha avuto più coraggio di me ad iniziare un discorso che mi sembrava crudele farti, e che comunque spero tu abbia potuto comprendere ed apprezzare nel suo valore umano. Il mio rapporto con te è stato costellato di cose non dette a parole, di momenti in cui avrei voluto dire quanto leggendario sei per me, che non ho detto perché non volevo sospettassi che fossi un leccaculo.. ché quelli lo so, ti sono sempre stati sul cazzo. Sento, però, che tutto quello che non ti ho detto mai a parole, in qualche modo lo hai saputo. Lo spero tanto. Non ho mai nemmeno avuto il coraggio di darti del tu, anche se mi sarebbe piaciuto togliere quella distanza, quella formalità. Sta di fatto che ci lasci molto, e che a noi resta il debito che mai avremmo potuto saldare con te. Non abbiamo avuto nemmeno, però, il tempo di provarci. A pensarci bene, non avresti potuto chiamarti in altro modo: eri davvero il Massimo che potevamo chiedere. Ciao Prof, spero che esista un aldilà, avremo un sacco di cose da dirci, e tu nuove canzoni da farci ascoltare.
Ti voglio bene.
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