FedVal’s review published on Letterboxd:
Un sole cocente che non sembra dare tregua. Il calore della polvere del deserto. Lo sferragliare del metallo ritorto e surriscaldato.
Sono queste le principali sensazioni che scatena il quarto capitolo della saga inaugurata dal regista George Miller nel 1979.
Una premessa piuttosto poco originale (questo rimane un film sulla fuga, sulla vendetta e sulla redenzione nel quale si gioca una battaglia tra gatto e topo tra un sadico tiranno e un gruppo improvvisato di eroi) funge da ossatura per un’allucinante sinfonia sensoriale (soprattutto dal punto di vista sonoro, visivo e, addirittura, tattile) che attanaglia lo spettatore allo schermo. La fotografia é rovente come il clima arido dell’ambiente mentre il montaggio é acuto e tagliente come l’acciaio che si piega e si deforma. Questo é anche un film sul corpo e sulla metamorfosi a cui é soggetto per adeguarsi ai cambiamenti che lo circondano. Uomini che diventano bestie, animali selvaggi che lottano per la sopravvivenza. Corpi malati che hanno bisogno di una guida, un riferimento, un Alpha che determini le loro esistenze. Questa dicotomia é ben rappresentata dal malvagio Immortan Joe e dall’imperatrice Furiosa, dalle spose-schiave dell’antagonista e dalle “molte madri”, custodi di ció che é rimasto di buono nel mondo. Si scontrano il maschio (dominante, impetuoso, deciso a perseverare questo stile di vita attraverso la procreazione, ossia il costante bisogno di riprodursi e portare avanti questa discendenza auto-distruttiva. Esso é il simbolo di quella forza bruta esercitata non solo attraverso la soggiogazione, ma anche con i veicoli e le armi pesanti) e la femmina (combattiva, coraggiosa, determinata. In essa alberga il seme della vita, la chiave per un nuovo mondo al posto di quello ormai lasciato in balía del caos). Questa é dunque una battaglia tra le vie della violenza e della compassione, della crudeltà e della misericordia, tra le correnti di pensiero di una dinastia tossica e un’altra più marcatamente “umana”. Ed é la battaglia che affronta il Max Rockatansky di Tom Hardy (più rigido e monolitico che mai), dilaniato da traumi e sensi di colpa e in cerca di una qualche forma di redenzione.
Il senso di epica e l’atmosfera di un poema eroico abbondano in questo film. Soprattutto se si considera il cosciente bisogno di dimostrare il proprio valore in battaglia (quello che i greci chiamavano “areté”. Guardarsi l’Iliade per comprenderlo), anche attraverso il proprio sacrificio. Per un mondo senza più punti di riferimento basta attingere alla dimensione del mito, della leggenda e della propaganda per rincuorare un popolo che non ha più niente da perdere mentre é alla costante ricerca di qualcosa per cui lottare, una via a cui ambire.
George Miller dunque si supera e ritrova alla fine una sua forma, una nuova sostanza in cui si fondono sia il digitale che l’artigianale. Lo spettatore non può che “ammirare” e gioire estasiato.
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A scorching sun that doesn't seem to give respite. The heat of desert dust. The clank of twisted, overheated metal.
These are the main sensations triggered by the fourth chapter of the saga inaugurated by director George Miller in 1979.
A rather unoriginal premise (this remains a film about escape, revenge and redemption in which a cat and mouse battle is played out between a sadistic tyrant and an improvised group of heroes) serves as the framework for a hallucinating sensorial symphony (especially from a sound, visual and even tactile point of view) that grips the viewer to the screen. The photography is as hot as the arid climate of the environment while the editing is sharp and sharp like steel that bends and deforms. This is also a film about the body and the metamorphosis it undergoes to adapt to the changes that surround it. Men who become beasts, wild animals fighting for survival. Sick bodies that need a guide, a reference, an Alpha that determines their existence.
This dichotomy is well represented by the evil Immortan Joe and Imperator Furiosa, by the antagonist's slave-brides and by the "many mothers", guardians of what is left of good in the world. The male clashes (dominant, impetuous, determined to persevere this lifestyle through procreation, i.e. the constant need to reproduce and carry forward this self-destructive lineage. It is the symbol of that brute force exercised not only through subjugation, but also with vehicles and heavy weapons) and the female (combative, courageous, determined. In her lies the seed of life, the key to a new world in place of the one now left at the mercy of chaos). This is therefore a battle between the ways of violence and compassion, of cruelty and mercy, between the currents of thought of a toxic dynasty and another more markedly "human" one. And it is the battle that Tom Hardy's Max Rockatansky faces (more rigid and monolithic than ever), torn apart by trauma and guilt and looking for some form of redemption.
The sense of epic and the atmosphere of a heroic poem abounds in this film. Especially if we consider the conscious need to demonstrate one's value in battle (what the Greeks called "areté". Look at the Iliad to understand it), even through one's sacrifice. For a world without points of reference, it is enough to draw on the dimension of myth, legend and propaganda to hearten a people who no longer have anything to lose while is looking for something to fight for, a path to aspire to.
George Miller therefore surpasses himself and ultimately finds his own form, a new substance in which both the digital and the artisanal merge. The spectator can only "witness" and rejoice in ecstasy.