Whamageddon, perso.
Negli anni il filone natalizio ha imparato ad amplificare e sovvertire le aspettative sui film di genere, e Carry-On è più di ogni altro il titolo che quest'anno è risucito a sorprendermi.
Ethan Kopek (Egerton) sogna di diventare un poliziotto, ma è solo un addetto alla sicurezza aeroportuale. L'arrivo di un figlio lo spinge a chiedere una promozione e viene messo alla prova per guadagnarsela al controllo bagagli durante la Vigilia di Natale. Così facendo finisce inconsapevolmente per finire nel mirino di uno spietato terrorista (Bateman) e la sua rete criminale: se non eseguirà i suoi ordini, le persone a lui più vicine moriranno.
Il nuovo film di Collet-Serra ha tutte le carte in regola per far felici i fan degli action thriller: ritmo serrato, suspense, tensione, azione e colpi di scena... ed anche se potrebbe fermarsi qui perché sarebbe più che sufficiente, osa molto di più. I personaggi sono molto sfaccettati, le sottotrame e gli intrecci pregevoli, e la combinazione di atmosfere comiche sullo sfondo natalizio contribuiscono a creare momenti divertenti, dolci e sorprendenti che stemperano la tensione e permettono allo spettatore di empatizzare con i protagonisti della storia. I punti più forti del titolo sono senz'altro due: la dinamica di complicità e studio tra Ethan, l'eroe che deve ancora sbocciare ed il Viaggiatore Misterioso che instilla in lui il seme del dubbio manopolandolo in una guerra psicologica; e le ispirate sequenze action coreografate in maniera creativa, fresca e intelligente, il cui apice viene raggiunto dalla splendida scena in auto.
Carry-On meritava una release cinematografica, ma visto che sulla carta per gli Studios un gioiellino del genere avrebbe potuto anche non vedere mai la luce, goderselo su Netflix è già qualcosa.
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Dovevamo capirlo dal fatto che Sony avesse fatto trapelare online la notizia della chiusura del fallimentare Sony Spider-Man Universe il giorno della vigilia dell'arrivo di Kraven Il Cacciatore nelle sale che avesse smesso di crederci, quando nemmeno lo Studio che ha dato i natali ad alcuni dei titoli più discutibili degli ultimi anni (dalla saga di Venom a Morbius, passando per Madame Web) si affanna a smentire a mezzo stampa il fallimento del suo progetto supereroistico, vuol dire che ormai non importa più a nessuno.
Per questo spiace per Taylor-Johnson, che ci crede disperatamente al punto da risultare il protagonista più carismatico, fascinoso e credibile del suo universo fin qui e Chandor, che qualcosa di carino lo sperimenta pure giocando con l'azione, ma la cruda verità è che questi sono gli unici punti a favore di un film mediocre che fallisce su tutta la linea: e quella che poteva essere una storia accattivante diventa l'ennesimo minestrone action e caciarone che vorrebbe raccontare la storia di una famiglia disfunzionale che alla terapia preferisce un safari di caccia e per cui è impossibile empatizzare con ciascuno dei suoi membri (Crowe ormai alla deriva) le cui azioni vengono spesso messe a schermo in quel modo perché altrimenti la storia non si muoverebbe. Storia che risulta talmente semplice eppur lontanissima dai fumetti, da necessitare di venire annacquata e riempita di lungaggini e depistaggi per riempire un minutaggio che risulta assurdamente lungo.
130 milioni di dollari di budget... e non sentirli. Sul fronte tecnico il film è il punto più basso mai raggiunto dall'SSU: dal montaggio tagliato con l'accetta che spesso muove la narrazione da una situazione all'altra senza alcun filo logico, a stacchi su sequenze action bruscamente interrotte che poi riprendono in altre location lasciando vuoti narrativi enormi; fino alla pessima post-produzione con una CGI criminale: nessuno degli animali a schermo sembra vero, persino il sangue è stato aggiunto digitalmente non sporcando mai corpi e vestiti e restando scollato dalla scena. Le sembianze del villain una volta trasformato popoleranno i vostri incubi... e non nel modo in cui probabilmente gli addetti ai lavori speravano.
Svogliato, lungo, generico e poco ispirato. Così verrà ricordato l'epitaffio dell'universo di Spider-Man di Sony... che per qualche strano motivo, Spider-Man nelle sue storie non l'ha mai voluto.
]]>"Sotto Chiave", questo significa dal latino il termine "Conclave", assemblea generale dei cardinali che si tiene nell'omonima sala in cui devono eleggere il successore del Papa. Isolati dal mondo esterno per evitare influenze, le più importanti figure della Chiesa Cattolica si ritrovano segregate lì fino a quando la maggioranza non avrà espresso la sua preferenza, ed è qui che comincia la nostra storia: alla morte del Papa, il Decano Thomas Lawrence (Fiennes) viene chiamato ad amministrare la votazione, e quello che sulla carta sembrava una semplice mansione di rito dall'esito scontato diventa ben presto una vera e propria guerra politica in cui i principali esponenti non esiteranno a combattersi a vicenda.
Tra i più papabili (passatemi il gioco di parole, perché ammettetelo, è divertente) figurano: il Cardinale Adeyemi (Msamati) che diventerebbe il primo Papa nero; il Cardinale Tremblay (Lithgow) che sembrerebbe la scelta ideale ma un'indiscrezione dietro le quinte suggerirebbe abbia qualcosa da nascondere; il Cardinale Bellini (Tucci) anticonformista, tollerante, progressista e il favorito; ed il Cardinale Tedesco (Castellitto) che per contro desidera cancellare i passi avanti fatti dalla Chiesa per abbracciare un'idea più tradizionalista e retrogada. Il Vaticano tuttavia ha occhi e orecchie dappertutto e nei corridoi si stagnano cospirazioni, complotti, tradimenti e scandali pronti a ribaltare la prospettiva dello scrutinio di votazione in votazione portando alla luce scioccanti verità e segreti inconfessabili. La potenza dell'adattamento dell'omonimo romanzo di Robert Harris, è insita nel suo spietato realismo: ognuna delle situazioni dei protagonisti raccontata nella pellicola è riconducibile ad un fatto di cronaca realmente accaduto o a storie arrivate alla ribalta di stampa e media e a cui il pubblico non faticherà a credere; da questo punto di vista il film di Berger è estremamente cristallino e rispettoso agli occhi dello spettatore nel modo in cui si pone alla narrazione: nonostante sentiamo il popolo di fedeli esultare, applaudire o sbuffare davanti l'ennesima fumata nera al termine della votazione di turno, o ci venga accennato cosa sta succedendo fuori dalle mura del Conclave, il regista ci tiene 'reclusi' insieme ai Cardinali, e anche se dipinge i lati più oscuri, tenebrosi e marci degli uomini non si prende mai gioco della Fede (emblematica la frase: "Non nutro dubbi nei confronti di Dio, ma della Chiesa"), raccontandoci i conflitti e le difficoltà di un uomo investito da una responsabilità decisamente più grande del peso che potrebbe portare da solo sulle proprie spalle. Sebbene non vi siano momenti action nella pellicola -l'unico presente lo vedete già nel trailer e non spetta a me contestualizzarlo- il ritmo e la tensione sorprendentemente non calano mai: esattamente come ci ha abituati Sorkin abbiamo infatti una dinamica molto funzionale sorretta interamente dai personaggi che, spostandosi da un salone all'altro, dalla mensa alle camere d'albergo non fanno che parlare, confrontarsi, mentirsi e insidiarsi per tutto il tempo.
I set portati in scena per quanto gargantueschi e spettacolari sono pochi e ciclicamente ci vengono riproposti, la storia ruota attorno a cinque personaggi eppure per le due ore di durata non si ha mai la sensazione di claustrofobia ne si respira il bisogno di altri personaggi per offrire maggior respiro alla narrazione, tutto è calibrato in maniera millimetrica offrendo suspence, tensione, mistero e pericolo. La regia è totalmente votata ai suoi protagonisti ed è scandita in alcune scene chiave -memorabili le varie votazioni e gli scrutini- dall'evocativa colonna sonora di Bertelmann capace di restituire pathos e dramma con gli splendidi violini. Una fotografia cupa e desaturata mettono ulteriormente in risalto le vesti rosse e gli orpelli dorati contribuendo a creare ancora di più disparità con le atmosfere esterne ben più luminose. Bravissimo Fiennes nel mostrare i dubbi e i conflitti interiore dell'uomo e della figura ecclesiastica, profondamente espressiva la Sorella Agnes della Rossellini, casereccio, caciarone e sopra le righe il Tedesco di Castellitto capace di rubare la scena e strappare un sorriso ogni volta che è a schermo.
Curioso notare che Conclave sia il film più politico dell'anno, pur non trattando la politica; ma il viaggio che racconta permette di offrire allo spettatore occasionale che magari ignora determinate dinamiche quanto sia complessa l'operazione di voto, accompagnandolo in un viaggio che seppur con qualche ingenuità ci porta verso un finale che può sembrare prevedibile, ma per l'appunto lo "sembra" soltanto. Perché se c'è una costante all'interno della narrazione è che niente e (soprattutto) nessuno è come sembra.
]]>Che bello ricongiungersi alla Comencini, e che bello vederla omaggiare il suo papà.
Il Treno dei Bambini, adattamento dell'omonimo romanzo dell'Ardone, si ambienta nella Napoli distrutta del dopoguerra, epoca in cui le famiglie più in difficoltà mandavano temporaneamente al Nord i propri pargoli per farli sopravvivere ai mesi più freddi con l'aiuto dei comunisti. In questo scenario inizia la storia di Amerigo (Cervone) che viene mandato dalla mamma (Rossi) a Modena nella speranza di dargli tutto ciò che lei purtroppo non può. Dopo un'iniziale diffidenza complice una tutrice schiva e non portata alla maternità (Ronchi) ha inizio un coming of age in grado di regalare al bimbo sogni e speranze che non pensava di poter neanche immaginare.
Il racconto piuttosto didascalico nella narrazione si manifesta potente nell'esecuzione della storia dal duplice punto di vista delle madri estremamente diverse l'una dall'altra: da una parte quella partenopea già orfana di un figlio, concreta e disillusa; e dall'altra quella che non ha nemmeno pensato a costruirsi una famiglia a seguito della tragica scomparsa del suo compagno che l'ha portata a votarsi completamente alla causa politica, colta, impegnata e ambiziosa. Entrambe sono vittime di un retaggio patriarcale con una abbandonata dal marito e l'altra persino schiaffeggiata e presa sottogamba dai compagni uomini. C'è poi la dimensione infantile, più tenera e genuina in cui gli scambi culturali e dialettali portano a scenari realistici nella maggior parte del tempo, cadendo solo occasionalmente nella retorica dei bimbi che parlano come adulti con frasi che non appartengono alla loro età.
Si tratta di un progetto delicato in grado di offrire momenti di genuino divertimento, dramma e commozione: complici un cast diretto davvero in stato di grazia, una regia lineare ma efficace, una colonna sonora essenziale e plasmata sui personaggi e lo sfondo storico di una finestra temporale specifica che riescono a raccontare ed esplorare con sensibilità e attenzione le sfumature dell'amore più autentico: quello che per altruismo lascia andare e quello che per salvezza sboccia e fiorisce.
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Se negli anni "90 eravate dei bimbi ricorderete bene la tendenza Disney dell'epoca di prendere grandi classici d'animazione che hanno sbancato al box office per spremerli come limoni tramite film dedicati al mercato homevideo o serie per il piccolo schermo, il cui scopo fosse esclusivamente vendere nuovo merchandise ispirato alla licenza originale. Questi progetti di norma erano noti principalmente per due motivi: il primo era il drastico calo qualitativo (dovuto alla riduzione del budget per la diversa distribuzione), il secondo era l'idea di espandere la mitologia ben oltre la storia originale introducendo nuovi personaggi che potessero offrire trame collaterali ad ampio respiro ma spesso molto meno impattanti dei titoli originali. Ecco, Moana 2 è vittima dello stesso processo contestualizzato però all'epoca moderna: quindi ecco avere un cast corale talmente poco approfondito da essere persino celato in corso di campagna marketing ed una storia televisiva con delle sottotrame che non grida solo "ehi, sono una serie TV!" ma sfacciatamente rincara la dose aggiungendo "E sono solo una prima stagione!" Fortunatamente sul fronte tecnico il discorso cambia drasticamente con un glowup letteralmente a qualsiasi aspetto (meno quello musicale, ma ci ritorneremo) al punto da risultare forse il più bel e curato film Disney da qualche anno a questa parte, in grado di rivaleggiare con la sorella Pixar. La vera domanda è: sarà sufficiente a salvare il tutto?
Oceania 2 riprende da dove si era concluso il primo film, con Vaiana ora navigatrice esperta e prossima ad assumere un incarico importante. Proprio durante la cerimonia di iniziazione la ragazza ha la visione di una profezia futura... una missione da compiere che la porterà sostanzialmente a fare esattamente la stessa cosa che ha fatto nel primo film: lasciare la sua terra natia per imbarcarsi in un viaggio che la vedrà ricongiungersi -per nostra fortuna- col Semidio Maui, qui più serio, eroico e con un indole da mentore in grado di restituire un grande senso di forza senza snaturare la componente comedy e umana, decisamente più riuscita. Ovviamente questo è solo l'incipit di un viaggio, che, esattamente come con il precedente rivelerà non poche sorprese, ma anche in questo caso molte delle tappe sono le medesime: l'incontro/scontro con i pirati, peripezie nella navigazione, posti pericolosi da esplorare alla ricerca di qualcuno/qualcosa, il naufragio che porta a incontri e rivelazioni... in cui salta immediatamente all'occhio la natura televisiva alla base della storia. Infatti ogni circa 20/25 minuti abbiamo un cliffhanger con uno stacco e il cambio di obiettivo e location, con tanto di posizionamento strategico delle canzoni e dei numeri musicali con la media di uno a puntata; evidenziando una palese struttura episodica. A differenza del primo film dove Vaiana è sempre a schermo salvo sporadici momenti in cui Maui parla con i suoi tatuaggi, in questo sequel ci sono momenti dedicati ai comprimari e alcuni brevi salti temporali tra una scena e l'altra come a volersi dedicare al nuovo "roster" di protagonisti. Lo spettatore più grandicello però non è stupido: il primo film aveva una chiosa netta e definitiva, ma sin dalle prime battute a suon di retcon capiamo invece che ci si trovi di fronte ad un mondo ripensato che reinventa la sua mitologia, la geografia e anche la stessa protagonista, che, per continuare con future storie -che sono ovviamente previste, telefonate- è stata costretta a diventare qualcun altro, altrimenti avrebbe sempre sfigurato dinnanzi a Maui, che ancora una volta si conferma il VERO mattatore del franchise.
Character design e animazioni conservano la riconoscibilità del primo film ma migliorano tutto ciò che è migliorabile: io stesso in corso di campagna marketing avevo evidenziato una pelle fin troppo "gommosa" rispetto alla bellezza che circondava i personaggi sotto ogni aspetto, cosa che in tutta onestà nel film non ho ritrovato. La vera bellezza stavolta non è da cercarsi in costumi esotici e tatuaggi: pori, ricrescita della barba, rughe, occhiaie e persino venature decorano i nostri personaggi con fisica dei capelli, rendering di piante, spiagge e rocce mai così vivide, luminose e colorate. Incredibili le onde e la resa dell'acqua, da lasciare a bocca aperta tanto sembri realistico e quanto risulti risonante in un film in cui l'oceano giochi un ruolo così importante. Musicalmente salvo una canzone invece il film è clamorosamente sottotono e poco ispirato, e devono essersene resi conto visto che nel film viene usata ben tre volte compresi i titoli di coda. La regia di Miller, Hand e Derrick Jr. è meno solida di quella di Musker e Clements ma se non altro è più contemporanea riuscendo nel compito di essere meno dispersivo -il sequel inizia decisamente prima rispetto il suo predecessore- e con un ritmo più bilanciato e sostenuto anche nella gestione delle atmosfere comedy ed action. Però se avevo avvertito il primo film inutilmente lungo, in questo secondo si percepisce qualcosa sia stato tagliato con l'accetta per adattarsi dal minutaggio televisivo allo screentime della sala: dal ruolo del villain (non pervenuto) al viaggio di maturazione dei comprimari che a un certo punto senza alcun coinvolgimento a schermo supera un brutto momento perché sì.
Se Moana 2 fosse stata la prima stagione di una serie animata su Disney+ alla luce di questa realizzazione tecnica sarebbe potuta diventare anche una delle più belle sorprese della stagione, ma, siccome arriva come un film per il cinema quasi una decade dopo l'originale viene percepito come l'inizio del "Vaiana Cinematic Universe"... e no, chi vi scrive non ne sentiva proprio il bisogno.
Meglio di Wish, ma proprio non ci siamo.
]]>Rewatch tattico alla vigilia del sequel.
Già all'epoca non rimasi particolarmente entusiasta dalla visione del primo film di Oceania in sala, perché se avevo amato la componente esotica di costumi, tatuaggi, musica e le reference alla mitologia polinesiana, sul fronte del ritmo ricordo nitidamente di averlo percepito profondamente incostante.
Questo rewatch sostanzialmente conferma entrambe le impressioni con me perdutamente innamorato della mitologia, le location, degli splendidi colori caldi e delle atmosfere in cui i protagonisti si muovono... ma ancora più annoiato dai momenti dispersivi che sono molteplici (da qui la mezza stella in meno in questo randevu): dall'inizio che pare interminabile con Vaiana impegnata in diverse attività quotidiane sull'isola in gag che si trascinano e ripetono, a lungaggini durante la navigazione con interazioni volte a reiterare la rivalità/sfiducia tra lei e Maui; per non parlare della tensione dello scontro con Tamatoa completamente distrutta prima dalla commedia e poi dalla musica. Probabilmente questo susseguirsi di contesti situazionali sorrette da gag slapstick potrebbero far leva sul pubblico dei più piccini -che è anche il target di riferimento, quindi bene così- ma dal punto di vista dell'esecuzione ad occhi più navigati il film risulta molto invecchiato, al punto che a fine corsa si pensa che questa storia avrebbe potuto comunque essere raccontata sacrificando anche una ventina di minuti dal cut finale.
Però ciò che ancora oggi funziona benissimo è il Maui di The Rock: irresistibile mattatore assoluto che va sovvertendo le aspettative degli spettatori a seguito della leggenda tramandata nel flashback iniziale che debutta con quella che è una delle migliori (se non la migliore) canzone del film. Il suo arrivo rende tutto più frizzante offrendo nuovi spiragli sulla personalità di Vaiana, mettendo in moto gli eventi della trama e bilanciando con più equilibrio i toni della pellicola con avventura, commedia, azione, dramma e il viaggio dell'eroina. Sul fronte tecnico la regia di Musker e Clements non è tra le più indimenticabili, ma riesce a valorizzare il mondo e i suoi protagonisti perché Moana è ancora gradevolissimo, ma le aspettative nei confronti del seguito restano decisamente più alte visto cosa ha raggiunto con la sorella Pixar tanto con il rendering di capelli, pelle e tessuti in Inside Out 2, quanto nella fisica e il realismo dell'acqua con Elemental. La vera sfida però sarà rendere altrettanto memorabili le canzoni, in quella che sulla carta originariamente sarebbe dovuta essere una serie TV e non un film per il cinema.
Se andrà bene o meno, ci riaggiorniamo domani.
]]>Il 2024 verrà ricordato come l'anno in cui i trailer non rendono giustizia ai film che dovrebbero valorizzare, perché quello che sembrava l'ennesimo coming of age prescolare è molto più di così: Spellbound - L'incantesimo non è un film d'animazione, ma una seduta di terapia.
Nel mondo di Lumbria, la famiglia reale da più di un anno non ha incontri pubblici tanto con gli altri regnanti quanto col suo stesso popolo. Il perché è presto detto: il Re (Bardem) e la Regina (Kidman) sono stati trasformati in giganteschi mostri senza ragione da un incantesimo e le cariche più alte del regno per evitare tumulti tengono tutto nascosto. Nel bel mezzo del caos, la Principessa Ellian (Zegler) parte con il Ministro Bolinar (Lihtgow) in un viaggio che potrebbe permettere loro di tornare alla normalità. Quindi sì, il coming of age è presente, ma man mano che prosegue, il film si rivela essere un'allegoria di qualcosa di molto più grande: le conseguenze su una famiglia della separazione. Un racconto ambizioso quello della Jenson (co-regista di Shrek) che da una parte vuole sensibilizzare i genitori sull'aggressività con cui affrontano e gestiscono gli attriti che potrebbero avere conseguenze sui più piccini; dall'altra vuole ricordare ai più piccoli che "la vita come un fiume e non si può restare fermi", motivo per cui quando delle volte i rapporti sono destinati a rompersi bisogna trovare la forza di adattarsi e ricominciare abbracciando il cambiamento. Un discorso che potrebbe sembrare pesante nella sua importanza e solennità, eppure che viene messo in scena con delicatezza, ritmo, azione, colpi di scena, momenti comici riusciti (e in un paio di occasioni particolarmente cupi) e numeri musicali davvero buoni e piacevoli.
Il comparto tecnico funziona piuttosto bene con alcune scelte visive particolarmente suggestive ma non riesce a rendersi memorabile se contrapposto ai principali concorrenti dell'anno (Inside Out 2, Il Robot Selvaggio, Flow e The Imaginary sono diversi gradini sopra), ma la produzione musicale è davvero convincente e il design dei personaggi gradevole. Nel complesso il secondo film animato Skydance dimostra di essere un titolo solido, avvincente, ambizioso e maturo, capace di ridefinire le dinamiche del "... e vissero sempre felici e contenti" con un piglio fresco e contemporaneo, ma per essere apprezzato nella sua pregevolezza è necessario che lo spettatore abbatta barriere e pregiudizi perché il primo atto del film non esprime a pieno le potenzialità del progetto.
]]>Di The Piano Lesson ho sempre sentito parlare molto bene, ma non ho mai avuto la possibilità di godere dell'opera teatrale originale di Wilson (vincitrice del Premio Pulitzer per la Drammaturgia) così come del precedente adattamento cinematografico. L'arrivo di questa versione targata Netflix rappresentava quindi l'opportunità ideale per avvicinarsi a questo progetto che vede all'esordio alla regia M. Washington, già autore dell'ultimo adattamento teatrale dell'opera e di ritorno nel cast quasi tutti gli attori della stessa pièce.
Quarto dramma dei dieci che compongono Il Ciclo di Pittsburgh, la storia di The Piano Lesson comincia nel 1936, quando Boy Willie (David Washington) esce di prigione con l'intenzione di rifarsi una vita deciso ad acquistare i terreni di Sutter, uno schiavista bianco proprietario di una piantagione in cui lavoravano i suoi antenati. Per farlo però ha bisogno di fondi e parallelamente alla vendita di un carico di cocomeri fa visita alla sorella Berniece (Deadwyler) intenzionato a vendere anche l'antico pianoforte che avevano lasciato loro i genitori. La donna però non vuole vendere lo strumento, che ha un passato sentimentale importante: non solo venne intagliato dai suoi avi ma anche rubato dal defunto padre e lo zio Doaker (L. Jackson) proprio al loro schiavista, Sutter, durante la notte delle celebrazioni del 4 luglio 25 anni prima. Sembra inoltre che la morte di Sutter, misteriosamente precipitato nel pozzo dei suoi campi sia avvolta da un alone di mistero e che lo spirito dell'uomo ora sia vincolato proprio a quel pianoforte... ovviamente il "pomo della discordia" è solo un McGuffin per portare in scena altre situazioni come questioni famigliari irrisolte, discriminazione, razzismo, disparità sociale e dinamiche attinenti all'epoca che impreziosiranno il racconto drammatico a tinte sovrannaturali.
La natura teatrale della storia si evince dalla sua struttura: buona parte del film avviene nella medesima location e vede i personaggi interfacciarsi tra loro con conversazioni, ricordi, momenti sentimentali e carichi di passione, canti popolari e alterchi. Per quanto tanto la scrittura quanto l'interpretazione risultino funzionali e vincenti mantenendo alta l'attenzione del pubblico, va altresì detto che queste sequenze possano risultare talvolta molto lunghe e provanti per gli spettatori perché relegano la produzione ad una certa claustrofobia impedendo ad alcune situazioni di respirare quanto bastino. Dove invece la pellicola si fa più interessante è in cui il film gioca con l'ibridazione di generi: un paio di momenti musical molto riusciti, alcuni scambi comedy funzionanti e persino qualche momento horror in cui gli effetti visivi funzionano. Nonostante Washington sia nuovo alla regia ed alcuni momenti sembrino acerbi, c'è una certa ambizione che risulta encomiabile in alcune soluzioni visive, e la fotografia riesce perfettamente ad esprimere e restituire il contesto storico, sebbene le scene in esterna come il flashback iniziale siano tra quelle più potenti e ispirate.
Una storia potente, necessaria e attuale che anche nel presente ha una certa risonanza, e che meriterebbe una visione seppur con tutte le limitazioni in corso d'adattamento del caso.
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wicked.openinapp.co/recensione
Che meraviglia, Wicked!
Da far vedere a tutti quelli che pensano Joker Folie à Deux sia un musical per far capire loro cos'è un musical.
Wicked è una di quelle operazioni talmente di successo che andrebbero studiate, perché dovremmo andare a ritroso nel tempo per capire come ha avuto origine: da Il Meraviglioso Mago di Oz è stato tratto un prequel Strega - Cronache dal Regno di Oz in rivolta, da cui è stato ispirato a sua volta un musical, che adesso è diventato un film… e per quale motivo? Perché è dannatamente bello! Qualche tempo dopo che Dorothy ha sconfitto la Malvagia Strega dell'Ovest negli eventi narrati ne Il Meraviglioso Mago di Oz, nel regno tutti festeggiano la sua morte e Glinda, la Buona Strega del Nord racconta al popolo -e di conseguenza anche al pubblico- quando la conobbe diventando sua amica.
Torniamo indietro nel tempo, al giorno in cui iniziano le lezioni alla Shiz University, che corrisponde anche a quello del primo incontro tra la bionda, arrivista ed egocentrica Glinda (Grande) e la più acuta e riservata dai capelli corvini Elphaba (Erivo), evitata da tutti per via della sua pelle verde. Pur non avendo ancora dimostrato nessuna particolare abilità, Glinda è ambiziosa e desidera entrare nelle grazie di Madame Morrible (Yeoh), Preside dell'Università; mentre Elphaba ogni volta che perde il controllo sulle proprie emozioni finisce con lo scatenare un grande potere magico attirando l'attenzione della facoltosa donna. Questo porterà le due controvoglia a diventare compagne di stanza nel dormitorio della scuola e instaurare un legame di amiche/nemiche… e qui ha inizio la nostra storia, che non intendo rovinarvi perché secondo me vi piacerà davvero tanto. Quello che Wicked porta in scena potrebbe sembrare non particolarmente "originale" di primo acchito, eppure lo è sotto tanti punti di vista: innanzitutto l'età delle protagoniste, di coming of age a scuola ne abbiamo visti tantissimi, ma sempre per quanto concerne bambine e ragazze, qui non si parla di scuole medie e licei... ma di università, quindi abbiamo young adult, quel momento che scandisce il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. L'altra cosa incredibile è il genere del musical… Wicked si muove in un mondo fantasy vivo, colorato ed enorme, non in un contesto urbano e realistico… ma il linguaggio scelto per far interagire questi personaggi e raccontare la loro storia è terribilmente fresco, contemporaneo, moderno. Si tratta di un racconto trasversale in grado di catturare l'attenzione degli spettatori più disparati: si va a cercare una componente umana? Ci sono famiglie disfunzionali, bullismo e triangoli amorosi; si va bramando atmosfere fantasy? Ci sono incantesimi e animali parlanti; si desiderano introspezione e attualità? Si parla di razzismo, politica e discriminazione. Wicked ha una scrittura stratificata su più livelli decidendo volutamente di non marcare mai più del dovuto determinate dinamiche, ma anzi, raccontandole in modo piuttosto delicato e frizzante, grazie a dei tempi comici riuscitissimi, momenti musicali molto coinvolgenti ed un continuo alzare la posta in gioco.
Sul fronte tecnico il film è incredibile.
La regia di Chu è divertente e divertita: un sacco di soluzioni visive e sperimentazioni così ispirate in grado di catalizzare l'attenzione ad ogni scena rendendo estremamente frenetici e dinamici i tantissimi numeri musicali che risultano FONDAMENTALI per il prosequio della storia, ma mai fastidiosi o ridondanti, scolpendo alcune delle emozioni più profonde dei suoi protagonisti. Un lavoro di cura maniacale è stato svolto sul fronte canoro da Grande ed Erivo - che vi dico, secondo me finiranno entrambe candidate come Migliori Attrici Protagoniste in un Film Commedia o Musicale ai prossimi Oscar - bravissime tanto da soliste quanto nei duetti in grado di rendere giustizia alla soundtrack del musical originale. Questi numeri vengono impreziositi da coreografie corali con corpi di ballo dai costumi curatissimi e set pratici in costante evoluzione da una parte con delle meccaniche di movimento trasformativo e dall'altra con green screen ed effetti visivi da kolossal che risultano gli uni implementati agli altri in maniera così armoniosa da settare nuovi standard per il genere.
Universal sembra tuttavia essersi impegnata per non vendere bene questo film: trailer e sport non valorizzano l'alto livello produttivo al potenziale pubblico. Anche non rendere chiaro sin da subito fai trailer e non pubblicare un comunicato stampa dedicato che il doppiaggio italiano prevedesse anche una localizzazione italiana delle canzoni e rivelarlo ad una domanda mirata nei commenti social quando ormai i pre-order dei biglietti erano già aperti non è stata proprio una soluzione vincente, ma... ha portato ad una situazione che personalmente non mi era mai capitata prima. Venuto a conoscenza di questa cosa ho ovviamente virato ad una proiezione in lingua originale e nel mio cinema, una multisala di provincia, ho trovato il PIENONE. Una sala zeppa di adulti -adulte ad essere specifici- che avevano outfit ed accessori a tema, hanno cantato un paio di brani del film e arrivate ai titoli di coda hanno persino applaudito. E il tutto in uno spettacolo pomeridiano infrasettimanale… per intenderci, nello stesso cinema, allo stesso orario non mi era MAI successo prima, neanche coi film doppiati, cosa che mi porta a domandarmi: "chissà cosa è successo nelle grandi metropoli!"
Insomma, Wicked Parte I, perché sì, è il primo atto del musical, è un film divertente, profondo, ritmato, emozionante, ricco di colpi di scena e sottotrame interessanti; il cast è sempre sul pezzo con performance attoriali e musicali pazzesche (non mi stupirebbe vedere nominato anche Goldblum) che vi si stamperanno in testa come tormentoni (Defying Gravity è già la mia nuova suoneria e voi non potete farci nulla). Un vero e proprio musical kolossal che potrebbe non piacervi solo làddove odiaste la musica nei film… ma anche in quel caso vi consiglierei di darvi comunque una possibilità, perché nel suo piccolo potrebbe essere il titolo in grado di farvi ricredere sul genere.
Per me? Potrebbe essere il film dell'anno.
]]>Non so nulla di jazz.
È una musica che mi è capitato di ascoltare solo in film e serie TV dedicate. Non è che non mi piaccia eh, anzi, mi trasmette una profonda energia e dedizione da chi la esegue, come se esorcizzasse le sensazioni più profonde e sopite che ho nel cuore tirandomele fuori. Ma non conoscendo nessun artista nello specifico non ho mai avvertito la "spinta" per recuperare questo o quell'altro. Però di Blue Giant ho letto il manga e mi sono perdutamente innamorato tanto dei disegni quanto dei testi di Ishizuka, trovavo incredibile come l'autore riuscisse a farmi avvertire la musica attraverso le pagine. Ma il film di Tachikawa ha preso tutto quello che pensavo di conoscere e l'ha elevato.
Miyamoto è un talento innato nel sassofono, Sawabe ha affinato la sua abilità al pianoforte da quando aveva quattro anno, Tamada è un aspirante batterista: tre persone che non potrebbero essere più diverse tra loro e che si sono avvicinate alla musica in momenti differenti delle loro esistenze finiscono per formare un trittico vincente che lentamente con costanza, impegno, sudore e fatica scalano la vetta della musica jazz nella metropoli nipponica che non dorme mai affacciandosi alle vette del professionismo. Questo è solo l'incipit della storia, ma è quanto vi basta per salire a bordo di quello che non ironicamente sembra davvero un film di Chazelle se si fosse dato agli anime. Chi ha letto il manga si renderà immediatamente conto di come alcune delle parti iniziali dell'opera siano state tagliate, velocizzate se non addirittura raccontate tramite flashback (c'è, per quanto spicciola e minimale una struttura del racconto documentaristica molto interessante in cui versioni più adulte e invecchiate dei personaggi raccontano la vicenda ed offrono allo spettatore neofita tutti gli elementi di background necessari a capire da dove siano partiti i protagonisti), ma è una scelta che non pesa ai fini della visione: nonostante infatti il perno della storia sia Dai, il focus del film vuole essere il rapporto dei tre e il crescendo del loro legame che si manifesta tanto nelle interazioni personali sempre genuine e autentiche per quanto ovviamente vicini agli stilemi della narrativa giapponese, così come nelle abilità tecniche e musicali.
Nei momenti di quotidianità la regia non compie chissà quali guizzi, rende apprezzabili alcuni primi piani e dettagli sulla strumentazione musicale dei tre e su alcuni dischi in particolare che denotano anche quanto Ishizuka sia preparato sull'argomento e guidato da una passione smisurata per la musica jazz; ma durante le esibizioni e le jam session... cambia tutto. Sequenze oniriche dove movimenti di camera sembrano mettere le ali alla regia, tripudi di figure geometriche e soluzioni visive che sfidano logica, spazio e tempo con colori psichedelichi ed equalizer che si sposano ad assoli di sonorità, sinfonie e percussioni che trascineranno gli spettatori in un'altra dimensione, ubriacandoli e facendogli percepire la musica sino alle budella, come se i JASS (così si chiama la band dei protagonisti) stessero suonando usando le corde della nostra anima come strumenti. In quei momenti non rimane altro che restare con gli occhi sbarrati e la mascella spalancata a guardare la totale devozione alla musica, una dedizione che sembra quasi una forza superiore stia muovendo i personaggi mentre sudati e affannati continuano questa escalation in uno stato di trance.
Raramente mi sono imbattuto in esperienze musicali e visive così immersive, c'è tanto di Wiplash e qualcosa di Babylon, non esageravo quando dicevo che c'è tanto di Chazelle qui, ed è così assurdo ritrovare queste "vibes" in un prodotto d'animazione giapponese, ma il coinvolgimento che alcune sequenze sono in grado di creare risultano davvero potenti. Ci troviamo di fronte ad uno di quei progetti dove è possibile immaginare quale sarà l'epilogo, ma è come ci si arriva che fa la differenza; tant'è che la lunga, potente e liberatoria sequenza finale è una delle più belle e soddisfacenti che abbia mai visto.
Ishizuka è un autore prolifico, e, volendo ci sarebbe la possibilità di poter tornare in questo mondo con un sequel. Se questo è il modo con cui lo si intende fare, agiamo quanto prima.
Imperdibile.
]]>C'è un motivo se Trump aveva paura questo film potesse danneggiare la sua reputazione e il risultato delle conseguenti elezioni, ed è il fatto che The Apprentice non fosse un biopic, ma il resoconto della fabbricazione di un mostro.
Va da se che alla luce degli ultimi risultati elettorali il Mostro fa ancora più paura, la pellicola di Abbasi è incredibile: nella New York degli anni "70, il giovane imprenditore Donald Trump (Stan) sogna di riedificare New York gentrificando i quartieri più malfamati ma è costretto dal padre a limitarsi a riscuotere gli affitti dei condomini morosi. L'avvicinamento in un club esclusivo di miliardari dell'avvocato Roy Cohn (Strong) cambia completamente la sua percezione della realtà: e da semplice bamboccione ambizioso diventa gradualmente un mostro affamato di fama e potere sacrificando quel briciolo di moralità rimastagli che lo faceva sentire migliore del padre che lo ha preceduto costruendo il proprio impero, ma per cui non ha alcuna remora ad abbracciare un lato oscuro in fruizione di erigere un impero più grande del suo. Quindi apprese le regole fondamentali per scardinare il mondo dell'alta finanza (ricattare, corrompere, mentire e ostentare), poco per volta si avvicina sempre di più alla concretizzazione del suo sogno.
Ed ecco come il film si differenzia da quello che ci si aspetta e che dimostra come nello Stivale una sceneggiatura coraggiosa come quella di Sherman non potremmo mai nemmeno concepirla (del resto viviamo in un paese in cui Loro non è più legalmente reperibile ma in prima serata viene incensato Ennio Doris - C'è anche domani): Trump non viene dipinto come un reietto massacrato dalla società che cresce con l'intenzione di prendersi la sua rivincita, non è un mostro che ha partorito l'America; è un uomo bianco etero e privilegiato della classe alta figlia di un genitore razzista e con un fratello maggiore alcolista che approfitta degli insegnamenti e l'esperienza di Cohn per strapparsi di dosso la maschera e l'assenza di coraggio per liberare la sua brama di potere e canalizzarla a massimizzare tutte le sue risorse. "L'Apprendista" del film arriva a superare il maestro in una trasformazione che non è solo caratteriale, ma anche psicologica e fisica accogliendo la metamorfosi come un'aperta manifestazione della sua reale natura. Un vero e proprio Mostro di Frankenstein che non ha riguardi per nessuno: da sua moglie (una fantastica Bakalova) alla famiglia, fino ovviamente al suo stesso mentore, il Professore che lo ha "liberato."
I dialoghi sono veloci, gli scambi di botta e risposta efficaci e diretti (in alcuni contesti si respirano lo charme caratteristico delle lingue affilate come spade dei personaggi di Ritchie, le interazioni mentre ci si sposta da un salone all'altro richiamano invece Sorkin) rendendo il film accessibile anche a chi non mastica di storia e politica, comprendendo perfettamente cosa sta accadendo a schermo. Ottima la trasformazione di Stan: dal sistemarsi al ciuffo fino allo sguardo corrucciato, il labbro arricciato e la camminata rendono palese l'incredibile studio che il Soldato d'Inverno ha fatto col Tycoon. Trucco e parrucco non sono ovviamente le uniche cose che brillano sul fronte tecnico: il formato in 4:3 con una fotografia che fa il verso a betamax e VHS dalle tonalità bruciate e i colori caldi insieme ad una colonna sonora dalle tracce accuratamente selezionate che suonano quasi come main theme dei personaggi e soundtrack volte a sposare diverse situazioni confezionano un racconto crudo, efferato, sporco e intenso capace di catapultare il pubblico all'interno della vicenda. A rendere più immersivo il tutto c'è la ricostruzione della New York di fine anni "70: sporca, fumosa, ostaggio di spacciatori e prostitute, una metropoli che deve affrontare razzismo, omofobia e lo spauracchio dell'AIDS che però potrebbe tornare "great again" e proprio per questo, chi riesce a vedervi oltre può leggerne potere, opulenza e sensualità.
The Apprentice - Alle origini di Trump è un film di denuncia: all'America capitalista e a quello che oggi ne risulta il suo massimo esponente, Donald Trump. Ed anche se racconta gli anni "70~"80, risulta purtroppo spaventosamente attuale.
]]>Un conduttore televisivo di late show nella fine degli anni "70 conosciuto ai più per essere da sempre l'eterno secondo nella guerra degli ascolti, è prossimo alla chiusura della fine della sua trasmissione, quando nella notte di Halloween uno Special TV cambierà la sua vita -e quella di tutti i suoi spettatori- per sempre: questa è la storia di quella puntata.
L'idea è semplice, ma effiace: "cosa succederebbe se si provasse a invocare il Diavolo in diretta TV?" La risposta arriva dal punto di vista del protagonista: Jack Delroy (conserva l'ironia di Fallon, il sarcasmo di Kimmel e il cinismo di Oliver) interpretato da un ispirato Dastmalchian è distrutto dalla perdita della moglie per cancro, e riversa tutto il suo dolore nel lavoro bramando disperatamente fama, successo e denaro, stanco di essere rilegato al posto di eterno secondo. Lo special di Halloween del 1977 vede tra gli ospiti un sensitivo (Bazzi), una para-psicologa (Gordon) con la sua giovanissima paziente (la promessa Torelli) e un ex-mango scettico (Bliss). Quella che parte come una normale puntata di un comune talk lentamente si trasforma in una spirale di follia e terrore.
Late Night with the Devil prende l'incipit dei found footage sacrificando le riprese a mano e la narrazione in prima persona per abbracciare l'ottica della regia televisiva di un talk show notturno. Il prologo del film, uno spiegone narrato a mo' di documentario pone lo spettatore nel giusto mindset capace di intervallarsi tra sequenze immortalate dalle videocamere a stacchi pubblicitari che ci portano dietro le quinte in bianco e nero. Questo permette al pubblico di comprendere perfettamente come viene delineato il cast nella sua duplice lettura: da una parte quello dei personaggi televisivi in diretta; dall'altra con le persone tra ambizioni, dubbi e paure durante le pause pubblicitarie. Ci sono delle soluzioni interessanti tanto sulla regia quanto nell'impiego di effetti visivi (che non brillano a causa del budget irrisorio, ma comunque funzionano) che aumentano la tensione in un crescendo di phatos. Il contesto storico in cui la storia si muove è funzionale tanto nella scelta dei 4:3, così come nei costumi, il trucco e parrucco dell'epoca, e il filtro seppia che accompagna la visione dello show. Gli stilemi portati a schermo sono piuttosto classici nel concept (da L'Esorcista a Poltergeist), ma il fiore all'occhiello è sicuramente come il tutto venga messo in scena, svecchiando il sottogenere cinematografico delle possessioni demoniache con un piglio fresco e accattivante.
Ahimé, non è tutto oro quel che luccica: Il film dei fratelli Cairnes sembra crollare nelle battute finali, un epilogo frettoloso e pretenzioso che con un minutaggio meno sacrificato avrebbe potuto risolvere la storia in modo più uniforme anziché concludersi così frettolosamente. Resta però un esperimento interessante capace di tenere incollato il pubblico fino alla fine che avrebbe meritato una release cinematografica.
]]>In un periodo in cui tanto al cinema quanto in TV si tende a privilegiare lo forma dello spettacolo a discapito della sostanza dei contenuti, quanto è rinfrescante assistere ad una miniserie come Disclaimer, che mette sopra a tutto i personaggi.
Tratto dall'omonimo romanzo di Knight, la serie diretta in stato di grazia da Cuarón, racconta di Catherine (Blanchett), affermata autrice di documentari che riceve per posta "Un Perfetto Sconosciuto", un libro di un'autrice sconosciuta che sembra dipingere un episodio specifico del suo passato che aveva però mantenuto segreto e che nessuno avrebbe dovuto conoscere, ha un attacco di panico. Quando qualcuno avvicina anche la sua famiglia e i suoi colleghi di lavoro mettendo loro la pulce all'orecchio agli eventi del libro, il mondo di Catherine rischia di sgretolarsi e inizia una corsa contro il tempo per risalire al responsabile e comprendere chi desideri distruggerla.
Un incipit striminzito per non svelarvi troppo della bellezza dello show, che ha una narrazione fitta e piena di svolte e colpi di scena insospettabili che ribalteranno completamente la prospettiva della visione e la percezione dei personaggi da parte degli spettatori. Disclaimer è una "revenge story" anticonvenzionale sotto ogni punto di vista possibile ed inimmaginabile: la voce narrante dello show non racconta ciò che succede a schermo ma i pensieri e le emozioni più intime dei suoi protagonisti (un cast stellare tra Kline, Baron Cohen e Partdridge) che vengono messe a nuido in maniera estremamente realistica e plausibile; una grande componente erotica che non scende a compromessi e viene messa in scena tanto dal punto di vista dei dialoghi quanto da quello visivo, con una George eterea e mozzafiato; la linea temporale degli eventi viene messa a schermo: dissolvenze a cerchio come un obiettivo di una macchina fotografica (elemento importantissimo ai fini della storia) per scandire gli eventi ambientati nel passato, una filigrana dai colori caldi e luminosi per differenziarli dalle tonalità più cupe e fredde che accompagnano gli eventi del presente; ultimo ma non meno importante è la componente italiana: mi rendo perfettamente conto che quanto sto per dire sia prettamente soggettivo ma rivedere alcuni scorci del nostro paese, l'impiego di alcuni brani musicali totalmente pertinenti da una parte a restituire la magia di cui lo Stivale è intriso da una parte e dare voce alle emozioni dei personaggi dall'altra.
Con una regia totalmente votata ai personaggi, capace di enfatizzare il loro spettro emotivo, una colonna sonora delicata e delle performance attoriali che gridano Emmy e Golden Globes a tutto spiano, Disclaimer è probabilmente la miglior miniserie dell'anno e non stupisce che a Venezia abbia riscosso più successo di tanti film: Cuarón prende il pubblico e gioca con la sua curiosità, stuzzica il suo aspetto più morboso, lo trasforma in giudice e carnefice e poi lo fa vergognare dimostrando quanto possa delle volte lanciarsi in giudizi troppo affrettati, e quanto sia indispensabile ascoltare due campane per avere una dimensione ideale in cui la storia si muova. Un trattato sociale che cambierà il modo di scrivere il drama sul piccolo schermo e che si conferma come uno dei fiori all'occhiello di Apple TV+.
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Grandissima curiosità c'era nei confronti di Juror #2, quello che -dio ce ne scampi- potrebbe "potenzialmente" essere l'ultimo film diretto da Clint Eastwood. In America la pellicola è stata silenziosamente distribuita in poco meno di una cinquantina di sale, per lo più per garantirgli la possibilità di partecipare alla kermesse dei premi e candidarsi ad Oscar e Golden Globes; in Italia la distribuzione è stata migliore ma non eccelsa. Opinabile la scelta di Warner Bros. Discovery a fronte di quello che probabilmente è uno dei lungometraggi più consapevoli, maturi, ragionati e onesti del regista.
Justin (Hoult), un giovane uomo sposato prossimo a diventare papà viene chiamato a svolgere il suo dovere di giurato in un processo per omicidio che ha attirato l'attenzione di stampa e media. L'accusa è guidata da un'avvocata (Collette) la cui vittoria potrebbe garantirle il posto di procuratrice e il risultato, dalle prove, sembra scontato: una coppia litiga in un pub sotto gli occhi di tutti gli altri clienti in un crescendo che porta persino ad un alterco fisico; lei esce sotto gli occhi dei presenti -c'è anche chi riprende il tutto con uno smartphone, segno dei tempi che corrono-, e chiude la relazione con lui decidendo di tornare a casa a piedi, lui sembra lasciarla andare ma con tutti gli occhi puntati addosso decide poi di salire sulla macchina per seguirla. Il cadavere della donna verrà ritrovato l'indomani in fondo ad una scarpata che costeggia un ponte nella stessa strada, nessuna traccia dell'arma. Se non bastassero i testimoni oculari con video al seguito, ci sono anche i precedenti dell'uomo (Basso): ex-pusher, membro di una banda criminale locale, un passato problematico. Un gioco da ragazzi per la giuria, giusto? Se non fosse che il nostro Justin, mentre ascolta l'avvocato della difesa (Messina) illustrare il racconto ha dei flashback: la notte dell'incidente anche lui si trovava in quel pub, lo scopriamo essere un ex-alcolista e proprio su quel ponte ha un incidente. Tuttavia quando scende dall'auto, nel cuore della notte sotto quella stessa pioggia battente non vede nulla e, spinto dalla segnaletica sul ponte pensa di aver colpito un cervo, riprendendo la propria vita come se niente fosse. E se fosse stato lui ad uccidere quella donna, cosa dovrebbe fare: seguire la propria bussola morale confessando il possibile reato scagionando un uomo dal passato criminale ma nel presente potenzialmente innocente perdendo tutto, oppure scegliere egoisticamente la propria felicità scommettendo di aver solo investito un animale?
"Questo sistema per quanto imperfetto, è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia." Basterebbe questo mantra recitato dalla Giudice (Aquino) ad inizio film per rendere chiare le intenzioni di Eastwood: interrogare gli spettatori sul concetto di "giustizia", mettendo alla prova il rigido sistema giudiziario americano da una parte che a causa di regole vetuste e restrizioni di sorta impedisce come regolamentare una casistica simile a quella espressa nel film (improbabile, ma non impossibile), ed al contempo la bussola morale dello stesso pubblico che è chiamato ad interrogarsi su cosa avrebbe fatto al posto di Justin. La risposta infatti non è così facile: tanto l'imputato quanto Justin sono persone dal passato diversamente burrascoso che dichiarano di essersi redente, aver cambiato vita e di conseguenza in assenza di prove schiaccianti, meritevoli di beneficio del dubbio. Justin potrebbe alzarsi in piedi e denunciarsi, ma il suo sponsor, che è anche un avvocato (Sutherland) dice che per come funzionano le leggi americane non avrebbe alcuna possibilità in di scamparla, la sua buonafede è nulla. In questa dinamica a complicare il tutto si inseriscono poi gli altri giurati, ciascuno con una morale, ideologia politica e trascorso differente capaci di renderli più o meno sensibili alla vicenda, tra cui spicca anche Harold (Simmons), un ex-detective che percepisce qualcosa in tutta questa situazione non quadri, decidendo di investigare per contro proprio.
Tecnicamente parlando Giurato Numero 2 è forse uno dei film meno "ricercati" di Eastwood: una regia intimista e minimale che si muove per sottrazione preferendo raccontare con un occhio osservatore quasi scolastico il racconto, che già di per se rispetto alle sceneggiature più arzigogolate di oggi risulta quasi "old school" nel suo esssere minimalista ed essenziale anche nell'esecuzione, eppure tremendamente efficace. Il montaggio osa di tanto in tanto con alcune soluzioni che vogliono prediligere flashback e dettagli (elementi provatori, ma soprattutto i primi piani) e la colonna sonora prettamente strumentale salvo un paio di istanti enfatizza la carica tensiva che gli spettatori avvertono seduti sulla poltrona temendo Justin venga scoperto, faccia un passo falso o per contro strepitando affinché si alzi in piedi e racconti la verità. Ma il punto focale del film è che "raccontare la verità" e "ottenere giustizia" non corrispondano necessariamente alla stessa cosa, e attualmente non esiste un metro di giudizio efficace e assoluto per determinare come comportarsi in questo genere di situazioni proprio perché ogni scenario è unico e lo stilema dei precedenti vale fino ad un certo punto.
Assurdo come nel 2024 un film che sulla carta potrebbe quasi sembrare televisivo per cosa racconta (ma è indubbiamente cinematografico per come sceglie di raccontarlo) sia terribilmente attuale, potente e necessario.
Non ritirarti, Clint.
]]>Gurada la recensione su YouTube: ilgladiatore2.openinapp.co/recensione
Sono trascorsi 24 anni dall'uscita del primo storico film de Il Gladiatore, che già all'epoca venne percepito un kolossal ricco d'azione, epica e una vera e propria masterclass attoriale. Un film talmente riuscito e completo che nessuno nell'arco di oltre due decadi ha mai sentito bisogno di un sequel, quindi l'idea di tornare in questo mondo oggi può legittimamente portare a dubbi, perplessità e perché no, una certa paura.
Ma com'è noto, Scott se ne frega delle nostre paure e fa comunque ciò che gli riesce meglio: raccontare storie. E quella a cui assisterete una volta in sala è la storia così come il regista desidera reinterpretarla, premessa doverosa perché uno dei punti di forza del film è rappresentato proprio dalla spettacolarità e la messa in scena di alcune situazioni decisamente lontane dalla realtà storica e fin troppo romanzate, al punto che alcuni potrebbero percepirle "tamarre" e "trash", ma che, senza se e senza ma, fanno anche gioco forza sul fronte del divertimento duro e puro complici un cast stellare, costumi di scena molto curati e set enormi ricchi di VERE comparse e non copia e incolla in CGI. Ma andiamo con ordine: la storia riprende circa 20 anni dopo gli eventi del primo film e i sogni che Marco Aurelio aveva per Roma possono definirsi solo un lontano ricordo, in Numidia -oggi dovrebbe essere quella zona del NordAfrica che comprende Marocco e parte della Tunisia… ? Chiedo scusa alla mia maestra di geografia- le centurie di Marcio Acacio (Pascal) reclamano il territorio rivendicando i suoi abitanti come schiavi, ed è qui che inizia la storia di Lucio (Mescal) che verrà impiegato nei giochi come gladiatore nella scuderia di Macrino (Washington), entrambi mirano… per motivi diversi, a rovesciare la tirannia degli Imperatori Gemelli Geta e Caracalla (Quinn e Hechinger).
Ovviamente in corso di visione ci saranno rivelazioni, ribaltamenti di prospettiva e colpi di scena che non voglio assolutamente anticiparvi qui, quello su cui vorrei concentrarmi è rispondere ad una domanda: "ma Il Gladiatore 2, com'è?" Paramount e Ridley Scott hanno innegabilmente fatto le cose in grande: Il Gladiatore 2 è un'opera maestosa come chi ama il cinema kolossal salvo grandi eccezioni (Dune, Avatar...) probabilmente non è più abituato a trovare in sala. Set enormi tanto nelle arene quanto nelle città, così come nella campagna. Le navi, le armature e le armi, gli abiti… tutto nel film grida "opulenza e potere", Roma sembra veramente ai vertici del mondo. I giochi trasudano epicità complici l'allestimento di banchetti sontuosi ed esotici, installazioni sceniche e teatrali, l'impiego di migliaia di comparse, spettacolari battaglie navali nelle naumachie e lo scontro con la potenza del mondo animale rappresentato da scimmie, leoni e persino rinoceronti e squali. Ciliegina sulla torta l'inquietante aspetto che makeup e parrucco donano agli Imperatori Gemelli capaci di fare percepire il tutto come un circo distopico dell'orrore e del massacro, restituendo anche quanto poco peso venisse dato alla vita dei gladiatori. Questa sensazione che, almeno per quanto mi riguarda è l'aspetto più riuscito del film, non va sbilanciando la componente intimista dei suoi protagonisti che per onestà intellettuale è bene dirvi, salvo un paio non si andrà mai oltre al bidimensionale: però non mancano momenti di confronto tra i vari personaggi che permettono da una parte di approfondire il racconto storico e le dinamiche relazionali per chi non avesse visto il primo film (per inciso, se non avete visto il primo riuscirete comunque a muovervi all'interno di queste dinamiche); dall'altra invece riescono ad anticipare, definire e costruire meglio le intenzioni dietro le azioni che vedremo poi, anche se, in alcuni momenti risultano inesorabilmente sopra le righe… e qui ci avviciniamo a quello che secondo me è il vero problema del film: l'assenza di equilibrio nella sceneggiatura.
La storia scritta da Scarpa ha dei dislivelli particolari in pressoché ogni aspetto: passa dallo scrivere dei momenti intrisi di dramma a scene ben più che caricaturiali -non parlo ovviamente di momenti genuinamente divertenti e ben inseriti nella storia che hanno lo scopo di stemperare la tensione- che trascendono il grottesco; e ancora, momenti di grande azione e coreografia nel corpo a corpo con sequenze molto più caciarone e surreali che dipingono i Gladiatori quasi come l'incarnazione di divinità anziché esseri umani. Che nell'ottica quasi 'distopica' di "opulenza e potenza" di cui parlavo prima può anche starci, se non fosse che in alcuni momenti topici all'interno del film creano disarmonia in relazione alla risoluzione di alcuni scontri e conflitti decisamente "umani" nel loro realismo. Alcune battaglie e morti nel film infatti mancano di gravitas e avvengono in modo piuttosto sbrigativo ed anticlimatico… ho anche pensato che, se succede è perché il regista voglia ricordarci quanto dietro le quinte dello show imperatori, nobili e schiavi alla fine siano solo umani. E lo capisco, ma fa strano pensando a quanto Scott spesso e volentieri decida di esagerare e sacrificare l'attinenza storica in fruizione dello spettacolo abbia avvallato queste scelte. Quindi perché non studiare in modo più attento la grandezza di certi momenti?
Un ritmo ballerino quello de Il Gladiatore II che intervalla lunghissime sequenze d'azione ad altre più lente, verbose e discorsive che trattano politica, insurrezione, giochi di potere e quotidianità; momenti esaltanti ad altri più terra terra, combattimenti epici ad altri ben più modesti. Se nelle sequenze d'azione Mescal brilla, su quelle più lente ed espressive, il carisma del Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe ha ancora oggi pochi rivali; molto bene Washington penalizzato però da un accento marcatamente newyorkese che mina di tanto in tanto l'immersione, ma questo è un problema che registra chi lo ha guardato in lingua originale, come me, il doppiaggio come s'evince dai trailer sfugge a queste dinamiche.
Insomma, con tutte le ingenuità di sorta Il Gladiatore II è un blockbuster atipico rispetto a quelli a cui siamo abituati: l'importanza del budget di 300 milioni si sente tutta dall'inizio alla fine (ogni tanto la CGI scricchiola e cede il passo sugli animali e qualche greenscreen), il cast è incredibile (anche se spesso impiegato male), il ritmo per quanto squilibrato è sostenuto e lo spettacolo è garantito. Il minutaggio generoso di 150 minuti, due ore e mezza, salvo la parte centrale scorre abbastanza veloce e sicuramente questo film si mette in lizza per la corsa a qualche statuetta ai prossimi Oscar... sul fronte degli incassi non so se il pubblico sarà così generoso e recettivo da garantire un rientro per Paramount, ma personalmente è quello che spero perché la visione in sala è stata molto piacevole e lo stesso Scott ha già l'idea pronta per Il Gladiatore III... quindi per qualche tempo, per quanto lontanissimo dei fasti della pelliccia originale, penserò a questo film come "il mio Impero Romano."
]]>Napoli è Parthenope, Parthenope è Napoli.
Attraverso i suoi occhi conosciamo il capoluogo campano fatto di contraddizioni: forza, debolezza, sacro, profano, innocenza e passione... tutto si fonde in questo amore et odio che permea la pellicola dall'inizio alla fine, dove la donna e la città sono impossibilitate a scindersi l'un l'altra. Ambientato tra Napoli e Capri, l'eterea e inafferrabile Parthenope di Della Porta è desiderata per i motivi più disparati da chiunque vi posi gli occhi addosso, puoi guardarla scrutarti con innocenza, sete di conoscenza ed al contempo è impossibile da insidiare perché ha sempre la risposta pronta mentre sormiona ti sorride tra un tiro di sigaretta e l'altro; non è una sirena eppure ha un legame viscerale con il mare dove nasce, sboccia e sfiorisce, tutte le tappe fondamentali della sua esistenza arrivano e vengono portate via dallo scroscio delle onde: il Mediterraneo le dà la vita, le porta l'amore, la rende donna, la priva dei suoi affetti... e quando dalla riva si immerge nei vicoli di Napoli scopre le proprie passioni, studia i sentimenti e gli esseri umani, immagina di calcare un palcoscenico, si interroga sulla fede e il suo mondo si riempie di personaggi caratteristici e meravigliosi nella loro umanità e l'infinita scala di grigi che ne compone lo spettro emotivo portandola ad interrogarsi su ciò che desidera davvero per se stessa ed il proprio futuro, ponendo il bisogno di assecondare la sua fame di esperienze e di vita in libertà sfuggendo al retaggio relazionale che imbriglia nei compromessi, anche a costo di restare sola.
Sorrentino esalta questo parterre in un modo viscerale, ricco d'amore e spietata onestà: sequenze suggestive, paesaggi luminosi e incontaminati, scenari quotidiani dove si consumano feste, violenza, sesso, celebrazioni sportive e processioni religiose sono la cornice in cui Parthenope impara, scopre, ama, piange e gode, attingendo come una spugna da qualsiasi interazione, uscendo fuori dalla propria comfort zone e delineando in un percorso che durante la giovinezza può sembrare infinito, ma, in età adulta come un oroboro, ci riporta dove tutto è partito. Tutti i napoletani potrebbero riconoscersi nella curiosità di Parthenope, ma quanti avrebbero il coraggio di prendere il suo esempio? Ed è un discorso che soprattutto in questo momento storico potrebbe sposarsi ad altre città e regioni visto l'attuale condizione in cui versa il Paese. Lo spettatore però dev'essere pronto a mettersi a disposizione del racconto di Sorrentino, guardandolo con attenzione attiva e partecipe e "senza giudicare": perché il film si prende tutto il tempo di cui ha bisogno e tra brillanti scrittori internazionali, ermetici e cinici docenti universitari, vescovi dalla dubbia moralità ed amori proibiti vengono messi in scena tantissime storie collaterali e sottotrame, quasi degli episodi, fondamentali in quanto frammenti volti a comporre le varie sfumature di Parthenope, ma spesso non di facile ed immediata comprensione agli occhi del pubblico generalista occasionale. Questa forma del racconto potrebbe quindi provare i più pigri spaesandoli, ma, superato l'ostacolo diverrà impossibile non restare rapiti da Della Porta, la disillusione di Oldman, gli scambi con Orlando, la verve della Ferrari e soprattutto lo spietato monologo della Ranieri.
Sorrentino ci parla della sua Napoli con nostalgia, malinconia, dolcezza, amore, frustrazione, accettazione e disincanto, ma restituendo comunque un fervido senso di speranza che tramite gli occhi della Sandrelli, ci permette di continuare a credere.
]]>Che delusione.
A seguito di un passaparola estremamente positivo ed una campagna marketing eccezionale, Longlegs si è rivelata essere tutta forma e davvero poca sostanza. Qualcuno potrebbe incalzarmi dicendo che il cinema è anche e soprattutto forma, perché è COME si mette in scena COSA che effettivamente stupisce pubblico e critica, eppure se sin dalle prime battute sono rimasto intrigato dall'alone di mistero che permea il film vista la buona congiunzione di regia, montaggio, selezioni visive e missaggio sonoro, man mano che il racconto proseguiva alzavo periodicamente un sopracciglio davanti a come venissero trattati temi quali percezione, sensitivi e chiaroveggenza: non come dovrebbe essere normale che sia, specie nell'ambito delle forze dell'ordine con scetticismo e disillusione, ma con genuina curiosità, stupore ed una strana accettazione (ok che siamo in America, però...); inoltre gli agenti dell'FBI tolta la protagonista hanno un senso del pericolo pari a zero e vengono sbaragliati al di fuori della sceneggiatura senza nessun apporto alla trama. Ogni singola svolta narrativa per la risoluzione del caso e la decifrazione degli enigmi è imputabile al personaggio di Lee (brava Monroe, che praticamente regge il film sulle proprie spalle); gli altri personaggi al di fuori di Longlegs (un Cage irriconoscibile e molto bravo, penalizzato però da una sceneggiatura che lo rende talmente caricato e sopra le righe da risultare ridicolo anziché inquietante per quasi tutto il tempo) e di un altro personaggio ancora, pivot ai fini della storia, che non voglio rovinarvi qui, non sono percepiti: macchiette monodimensionali con frasi fatte da sembrare quasi riempitive.
Longlegs vorrebbe omaggiare tra gli altri Il Sesto Senso e Il Silenzio degli Innocenti, ma il risultato è talmente goffo e pretenzioso da volersi girare dall'altra parte. Thriller psicologico, crime procedural, horror... con buona pace delle etichette, è abbastanza difficile classificare in maniera netta e distintiva un film così ambizioso, ma che, ripeto, finisce col venire percepito pretenzioso perché se la cornice è curata, ricercata, piena di sorprese e di scelte pregevoli, una volta che ci si concentra sulla trama e come questa progredisca di volta in volta, la delusione agli occhi di chi vi scrive è cocente. Se la seconda parte del film fosse stata più vicina alla prima, forse a fine corsa l'avrei pensata diversamente, ma per la strada che si è scelto di seguire l'unica consapevolezza rimasta è che i pareri di critica e pubblico Made in USA siano sensazionalisti ed impreparati, perché se dopo aver visto Longlegs pensate davvero questo sia "l'horror più spaventoso degli ultimi anni", vi consiglio caldamente di restare lontani dai film più recenti, o rischierete l'infarto.
]]>Tu sei Elliot (Stella), vivi in una fattoria in campagna, sei cresciuta in un minuscolo paese dove ci si conosce un po' tutti, e questa è l'ultima estate della tua vita prima che le cose cambino per sempre: stai per trasferirti in città a frequentare l'università abbracciando l'età adulta. Così decidi con le tue amiche d'infanzia di fare una notte in campeggio e assumere dei funghi allucinogeni... e nel tuo trip incontri la te stessa del futuro (Plaza), 39enne che ti dà solo due consigli: valorizzare ciò che hai sempre dato per scontato (la famiglia, la casa, le tue abitudini) e stare il più lontana possibile da... Chad. Ma tu non conosci nessun Chad, e sei gay, cosa mai potrebbe succederti? A sballo terminato però, l'indomani, conosci Chad (Hynes White) e ti sembra la persona migliore del mondo, cosa deciderai di fare? Continuerai con la tua vita come niente fosse successo, oppure ascolterai la tua visione?
Questo è l'incipit del coming of age più intenso, viscerale, autentico e delicato che a memoria abbia visto da molto tempo a questa parte. Senza rivelarvi troppo dell'ultima fatica scritta e diretta da Park (La Vita Dopo, A Cinderella Story), ci si trova di fronte ad una di quelle pellicole talmente rare e preziose da esperienziare nella vita, capaci di fare breccia nel cuore dello spettatore a prescindere dalla propria età: ai più giovani ricorda quanto siano fondamentali per ciò che siamo le nostre radici e quanto sia fondamentale abbracciare ogni nuova esperienza con coraggio e spirito d'avventura prediligendoli alla paura di uscire dal proprio bozzolo; e ai più grandicelli quanto ogni singolo errore fatto quanto eravamo "giovani e stupidi" fosse fondamentale per averci reso gli adulti che siamo oggi. La sceneggiatura è rispettosa e profonda debitrice dell'età della giovane protagonista come s'evince dalla naturalezza dei dialoghi, la fluidità degli scambi e l'efficacia delle interazioni, così come la forza della commedia smaliziata, leggera e brillante capace di scatenare a schermo una chimica immediata tanto tra la Elliot del presente e quella del futuro, tanto tra Elliot e Chad. L'attenzione portata a movimenti di camera che enfatizzano su dettagli, momenti di quotidianità e colori esaltate da una musica presente all'occorrenza con insert song (il miglior utilizzo di una canzone di Bieber in un film? Probabile) così come con tracce strumentali accennate da un pianoforte, fanno leva su un profondo senso di nostalgia all'infanzia e ai momenti più importanti vissuti con i propri cari che spesso tendiamo a dare per scontati. Del resto "la casa e la famiglia sono sempre lì, noi vogliamo viaggiare per vedere il mondo solo perché abbiamo la consapevolezza che potremmo sempre tornare a casa", e questo è profondamente vero nella vita di chiunque si è riuscito a creare capisaldi, colonne portanti, riferimenti.
In My Old Ass c'è un impiego molto intelligente della tecnologia: per qualche strano motivo -credo in un lungometraggio simile fosse inutile impelagarsi in spiegazioni su come funzioni cosa e perché sia possibile succedano determinati scenari quando invece sarebbe più giusto lasciarsi trasportare dalla magia del racconto- Elliot riesce a restare in contatto con la se stessa del futuro tramite uno smartphone: telefonate, SMS e messaggi in segreteria diventano una sorta di confessionale in cui la young adult e la donna si confrontano, ed esplorano a vicenda dubbi, perplessità, sogni, speranze e paure. Il film in maniera esplicita e diretta ma mai fuori luogo riesce a dar voce anche ai pensieri degli spettatori portando in scena momenti che passano dall'essere profondamente dolci (ma mai stucchevoli), genuinamente divertenti (e mai cringe) e sorprendentemente commoventi (eppur naturali) che permetteranno al pubblico di riflettere sulle proprie scelte, i propri sentimenti e le loro azioni, fino ad un messaggio finale che potrebbe sembrare semplice e scontato, ma che non lo è perché porta le protagoniste ad un necessario ed indispensabile cambio di prospettive in grado di restituire un profondo senso di ottimismo, positività e speranza.
Ogni singola esperienza è importante.
E vedere My Old Ass è una di quelle che vi consiglio di provare.
Che nostalgia!
Non ricordo più da quando non andassi in sala a guardare un film interamente animato in 2D sui personaggi classici Warner, e, col senno di poi, non credo di aver mai visto in tutta la mia vita al cinema un film interamente realizzato in animazione tradizionale sui Looney Tunes, visto che tanto Chi ha incastrato Roger Rabbit?, i due Space Jam quanto Looney Tunes: Back in Action avevano inserti live action tanto nei protagonisti quanto nelle location. Ecco perché non appena Un'Avventura Spaziale: Un Film dei Looney Tunes è uscito al cinema mi ci sono fiondato e non avrei potuto compiere scelta migliore.
Inaugurando un nuovo canone per questi personaggi, scopriamo che Daffy Duck e Porky Pig sono due trovatelli accolti e accuditi da Fattore Jim, un nerboruto contadino che si è preso cura dei due nel corso dell'infanzia e l'adolescenza sino all'età adulta. Quando il gigante buono viene a mancare dà ai due migliori amici cresciuti come fratelli solo due consigli: prendersi cura della loro casa e l'uno dell'altro, perché finché staranno insieme andrà tutto bene. L'arrivo di un'astronave aliena che di notte distruggerà il tetto della magione li obbligherà a fare qualcosa che non hanno mai fatto prima: trovare un lavoro, per guadagnare quanto basta per rendere l'abitazione abile prima che il comune la demolisca. Nel farlo, finiranno con trovare impiego nella Goodie Gum, una fabbrica specializzate in chewing gum in cui lavora una brillante scienziata nerd, Petunia Pig e in cui segretamente sta avendo luogo niente poco di meno che una misteriosa cospirazione aliena volta alla conquista del mondo. Rivelarvi di più sarebbe commettere un grosso errore, perché quello che sin dalle prime battute sembra in apparenza un canovaccio semplice e senza particolari guizzi offre in realtà un paio di sottotrame interessanti e una vastità di gag esilaranti oltre che un terzo atto con un paio di colpi di scena del tutto inaspettati che restituiscono maggior senso al titolo originale del film ben più calzante, Il Giorno in cui la Terra Esplose.
Il film è una commedia action piena di gag slapstick e dal ritmo forsennato che omaggia il retaggio storico dei Looney Tunes tanto da un punto di vista di messa in scena così come da un punto di vista musicale: alcune sequenze sembrano infatti citare numerose situazioni e tormentoni classici dei corti Warner, ma c'è anche la precisa volontà di aggiornarsi e scavare più in profondità nella mitologia di questi personaggi; in assenza di Bugs Bunny (se siete più famigliari alla concorrenza Disney per intenderci, è come fare un film su Paperino e Pippo lasciando Topolino fuori dai giochi), buona parte dell'archetipo dell'eroe viene suddiviso nei due co-protagonisti: ecco Daffy bilanciare il suo essere pasticcione, esasperante ed irruento con l'essere anche un coraggioso scavezzacollo che gioca a fare il detective; così Porky sempre mite, goffo e balbettante diventare anche una guida e la voce della ragione. L'assenza di un protagonista indiscusso nel trio pone i due comprimari ad uscire obbligatoriamente fuori dalla loro comfort zone e a compiere un viaggio di maturazione e confronto che metterà a dura provo il loro rapporto aggiungendo una gravitas drammatica inaspettata ed interessante. Parlando di sorprese non mancano citazioni visive, concettuali e narrative tanto ad Hollywood con La Cosa, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, L'Alba dei Morti Viventi, come persino al Giappone con Kiseiju - L'Ospite Indesiderato. Sono presenti inseguimenti, combattimenti, rocambolesche scene d'azione e persino un paio di jump scare... ma se vi siete spaventati all'idea che il film abbracci troppo la novità dimenticandosi del cuore e dell'anima dei suoi protagonisti, non preoccupatevi, le gag sono tutte lì. Fa quasi strano vedere personaggi così pronunciati nelle forme (seni e sederi per le donne, nasi e mascelle per gli uomini) con gag fisiche e politicamente scorrette a cui non siamo più abituati ma che solo una quindicina d'anni fa eravamo soliti vedere nelle produzioni più argute.
Tecnicamente non ci troviamo di fronte ad un 2D rivoluzionario, ma i personaggi sfoggiano sempre una gamma incredibile di espressività (Daffy su tutti) e le animazioni risultano talmente fluide e godibili al punto che chi vi scrive non è più abituato a tanta scioltezza Made in USA (se vi vengono in mente almeno 2 o 3 serie attualmente in onda su TV via cavo o piattaforme streaming, leggete i titoli di coda e rimarrete sorpresi da quanti talent internazionali siano coinvolti). Solo in un paio di momenti l'animazione 2D -che anche quando ricorre al digitale lo fa bene- lascia spazio ad elementi esterni in 3D che stonano col tutto, ma trattandosi di una manciata di secondi, si può tranquillamente soprassedere. C'è spazio a character design stilizzati e momenti retro della Warner della Golden Age, e persino ad arrangiamenti musicali curatissimi che spalancheranno nella vostra infanzia cassetti della memoria che immaginavate chiusi a chiave per sempre. La regia è molto ordinaria, ma in alcune scene specifiche corre qualche rischio confezionando sequenze particolarmente ispirate.
Non ho idea quanto possa piacere ad un pubblico di giovanissimi Un'Avventura Spaziale: Un Film dei Looney Tunes, perché nonostante alcuni momenti ricchi di sorprese, pathos e sperimentazione, questo tipo di comicità forse è figlia del suo tempo ed il trope portato in scena potrebbe sapere di già visto, eppure se si guarda oltre si scopre quanto questi personaggi abbiano da offrire e chissà, possano ancora raccontare con altre pellicole. Purtroppo l'assenza di una vera e propria promozione con trailer e spot in TV e cartelloni per le strade, così come una scarsa distribuzione contribuiscono a scenari da sola vuota -come a me è capitato- ma visto che Warner ha rinunciato alla distribuzione (il giorno in cui Zaslav verrà rimpiazzato come CEO di Warner Bros. Discovery non sarà mai troppo vicino) ed in molti territori al di fuori dell'America il film esce direttamente in streaming, immagino che Lucky Red con questa pregevole edizione italiana abbia di per se già compiuto un piccolo miracolo.
That's all Folks!
Fiondatevi al cinema!
Guarda la recensione su YouTube: thesubstance.openinapp.co/recensione
Poche esperienze cinematografiche sono catartiche e sconvolgenti come The Substance, un body horror incredibile che Fargeat confeziona in stato di grazia sconvolgendo il pubblico mainstream che una volta in sala non si sarebbe mai potuto aspettare di trovarsi di fronte ad uno spettacolo simile che in corso di campagna marketing è stato saggiamente celato tanto nei poster quanto nei trailer.
Elisabeth (Moore) è un'attrice di successo, ha vinto un Oscar e ha addirittura una stella nella Walk of Fame di Hollywood, ma, per gli standard della società in cui si muove (che sembra essere contemporanea o al massimo quella di un futuro molto prossimo) nonostante la sua bellezza statuaria ed una forma invidiabile viene considerata vecchia, persino da buttare. E infatti il suo insopportabile boss, Harvey (Quaid), se ne sbarazza in favore di una nuova promettente stella che sia tanto giovane quanto sensuale. La donna viene mercificata alla stregua di un pezzo di carne che va sessualizzata dagli uomini, che in questo film vengono dipinti falsi, opportunisti, insensibili, perversi, egoisti, goffi e impacciati. A partire da Harvey stesso che viene sempre esaltato dalla regia in tutti i suoi atteggiamenti disgustosi tramite il filtro in soggettiva con cui lo vede Elisabeth: dettagli e fish eye si intervallano mostrando denti gialli, ed una bocca piena di cibo masticato mentre parla rumorosamente sporcando ovunque. Come contraltare abbiamo Fred invece, che la corteggia spietatamente in modo goffo ed impacciato vedendola ancora oggi bella come ai tempi del liceo. Eppure i primi piani che ci ricordano che dietro qualche gaffe si nasconde anche genuina dolcezza non sono sufficienti a renderlo interessante agli occhi di Elisabeth, mentre stringe tra le mani un pezzo di carta impantanato con il suo numero di telefono. La pressione sociale, l'insicurezza, la paura di essere rimpiazzata e dimenticata, di diventare solo un ricordo, la spingono ad accettare in circostanze sfortunate l'idea di assumere la "Sostanza": un rivoluzionario e sperimentale farmaco che permette ad Elisabeth di generare una versione migliore di se stessa, più giovane, bella, sensuale... perfetta, che può avere tutto ciò che lei desidera ma a quanto pare il sistema ha deciso non possa più avere. Quindi ecco intervallarsi a cicli settimanali con Sue (Qualley) che prende il suo posto nel programma TV che ha condotto per anni incantando e stregando boss, colleghi, pubblico e persino il suo viscido vicino di casa. Ma cosa succede quando non ci si attiene più alle regole e si diventa sempre più ingordi di quel successo, quel potere e quelle attenzioni?
The Substance è un film che scava nel passato decidendo coraggiosamente (o a giudicare dalle reazioni di buona parte del pubblico generalista, scelleratamente) di portare in scena un body horror esplicito, grottesco e senza alcuno sconto mescolandolo a tematiche estremamente attuali: il tempo che passa e ci fa sentire inadeguati di fronte a chi è più giovane e con tutte le porte spalancate da una parte; e la paura di invecchiare e perdere tutto ciò che siamo dall'altra quando siamo giovani, ambiziosi e affamati. Mentre chi vive nel passato e chi teme il futuro arrivano ad ostacolarsi vicendevolmente, l'uomo assiste a questo scontro tenendo le redini e godendosi lo spettacolo che lui stesso ha creato (tant'è che anche la misteriosa voce che indirizza sull'utilizzo della Sostanza e i suoi effetti collaterali è maschile). Gli artifici creano mostri: la Sostanza che da farmaco miracoloso si trasforma a droga spietata è lo specchio di altre cose che creano pericolose dipendenze nella società, dalla chirurgia estetica al fotoritocco e i filtri sui social, che contribuiscono a creare false aspettative, distorcere la nostra immagine cullandoci in standard irrealizzabili, fino a creare dei veri e propri mostri. Un'accettazione fasulla e superficiale, fatta di tanta apparenza e poca sostanza portando ad isolarci sempre di più quando ci vergognamo di ciò che siamo preferendo vendere ciò che vorremmo essere rappresentata dalla splendida sequenza in cui Elisabeth non riesce a scollarsi dallo specchio continuando a cambiare trucco, parrucco ed outfit per il complesso di inferiorità che respira nei confronti di Sue.
Magistrali le performance speculari di Moore e Qualley: crude, intense, viscerali, primordiali e autentiche. Le attrici vengono spogliate di tutto e messe a nudo, non solo dal punto di vista letterale, ma anche figurato. I dubbi, le paure e le insicurezze dei loro personaggi sono quelle di tutte le donne e anche di diversi uomini. Ad esaltarle un ottimo mix di effetti pratici (il makeup prostetico è incredibile) e CGI che enfatizzata da una regia serrata e super dinamica capace di divincolarsi in sequenze disgustose e terrificanti cariche di sangue, muscoli e interiora a enfasi erotiche e pregne di carica sessuale scandite da percussioni dance di Raffertie, colori sparati e luci al neon stordiscono lo spettatore arrivando ad eccitarlo, farlo arrabbiare, commuovere, divertire, disgustare e spaventare. Quella che viene dipinta a schermo è un'escalation all'interno della psiche umana che si fa sempre più disperata crescendo in un susseguirsi di violenza, sangue, terrore e morte. Non ho idea di come il pubblico occasionale -lontanissimo da questo genere cinematografico- possa interfacciarsi alla pellicola e comprendere l'intenzione della regista che, soprattutto nel terzo lunghissimo atto finale si prende tutto il tempo di sprofondare sempre di più verso l'abisso abbracciando un'oscurità mostruosa, esplosiva, efferata e senza freni in quello che rappresenta un urlo di dolore esasperato.
Spero però vada oltre ciò che non conosca (e capisca) perché The Substance è un viaggio intenso, stratificato e potente, l'incarnazione più funzionale dello show don't tell arrivata in sala negli ultimi anni, un cinema talmente viscerale e autentico da contorcere le budella e fare male. Ma è questo che l'arte deve fare: evocare emozioni forti senza scendere a compromessi.
Per chi vi scrive non solo c'è riuscito, ma rappresenta anche uno dei film più potenti dell'anno.
]]>Dopo aver perso il proprio bimbo in un tragico incidente, Iris non trova alcun motivo per continuare a vivere. Quando si reca in cima ad una montagna sperduta decisa a suicidarsi lanciandosi da uno strapiombo, un gentile sconosciuto chiamato Richard giunge in suo soccorso salvandole la vita... con l'intenzione di ucciderla con le proprie mani. Iris riesce a liberarsi e fuggire, ma non prima che Richard l'abbia drogata: ha 20 minuti di tempo per mettersi in salvo prima che resti paralizzata dal farmaco alla mercé del suo aguzzino.
Ha così inizio Don't Move, uno dei concept più interessanti e freschi degli ultimi anni che reinventa un trope molto in voga dalla fine degli anni "70 fino ai primi anni "2000: quello della corsa contro il tempo della vittima braccata dallo spietato serial killer. L'elemento più riuscito in qualcosa che ai più potrebbe arrivare sta tuo è rappresentato dalla costante tensione che accompagna lo spettatore in corso di visione, per tutta la pellicola la Asbille è bravissima a comunicare le proprie emozioni esclusivamente con lo sguardo, avendo muscoli e voce completamente bloccati. Questo la porta dapprima con la natura e successivamente con gli estranei con cui si combatte a interazioni disperate tanto con l'ambiente circostante quanto con le persone preoccupate della sua condizione per esprimere il proprio disagio, il tutto mentre lo spauracchio dello psicopatico che l'ha seviziata le sta alle calcagna. Serve chiaramente una certa sospensione dell'incredulità davanti a certe situazioni e dialoghi un po' forzate che per forza di cose imbocca la narrazione verso specifici percorsi guidando la trama tra le braccia del finale scelto, ma niente di così grave da guastare l'immersione nella storia.
Il neo più grosso del film è però il fronte tecnico: senza lode e senza infamia, il film di Netto non riesce quasi mai ad esaltare ne il concept ne la sceneggiatura impreziosendola o rendendola unica. Il film sembra infatti terribilmente generico non brillando mai ed offrendo solo un paio di momenti particolarmente ispirati, ma nulla di davvero memorabile. Si capisce però perché Raimi abbia creduto nel progetto: Don't Move è un thriller pieno di suspance e tensione totalmente sorretto da due protagonisti (Wittrock emana vibes da Patrick Batesman per tutto il film) che al netto di qualche facileria rappresenta un inno alla vita e a quanto sia preziosa.
]]>Sono state molteplici le critiche portate al Venom cinematografico di Sony: l'insensatezza del progetto di portare il personaggio al cinema senza la contrapposizione con Spider-Man,il ritmo esageratamente comico e sopra le righe che fa il verso a Deadpool, la trama piena di forzature e buchi incapace di creare una continuity solida e chi più ne ha più ne metta. Il motivo per cui inizio la recensione ricordando questi elementi è perché ha davvero poco senso andare in sala a vedere Venom: The Last Dance aspettandosi qualcosa di differente da quanto precedentemente raccontato, visto che, con i primi due film della trilogia del Simbionte chiacchierone (capito perché il riferimento a Deadpool? Ecco) di Tom Hardy con buona pace delle critiche e le problematiche del caso -che ricordiamo, sono oggettive e legittime- ha comunque con due pellicole totalizzato complessivamente 1.3 miliardi di dollari a fronte di un budget di 210 milioni, dimostrandosi un franchise solido agli occhi degli spettatori generalisti. Probabilmente gli appassionati del buon cinema (un pubblico mainstream) e dei lettori dei comics (un pubblico di nicchia) si staranno chiedendo come sia possibile, eppure questo è dettato dal fatto che la gente ami riempire le sale spegnendo il cervello, senza porsi domande su cosa funzioni e cosa no, limitandosi a godersi una raffica di azione e battute, e questo Sony Pictures sembra averlo compreso bene.
Venom: The Last Dance fa esattamente questo: continua ad esplorare la tossica relazione "simbiotica" (piaciuta, eh?) tra Eddie e Venom arrivando ad un climax che inesorabilmente non lascia spazio che ad un epilogo definitivo... ma non troppo. Con un velocissimo spiegone d'apertura, il cattivo ci racconta la sua backstory e introduce a suon di retcon gli spettatori al terzo tempo del capostipite dell'SSU: una corsa contro il tempo in cui sono braccati dalle forze dell'ordine, l'esercito, le forze speciali e persino e dei mastini interplanetari per impossessarsi del Codex, una chiave che permetterebbe a Knull, una minaccia di livello Avengers di liberarsi dalla prigionia che lo tiene lontano dalle sue mire di conquiste. Questa fuga è terribilmente dispersiva, al punto che solo il terzo ed ultimo atto smuove la storia a tutti gli effetti, ma arrivati al gran finale l'epicità da last goodbye e il senso di compiutezza non si respirano; Venom: The Last Dance sembra infatti un gigantesco prologo pieno di lungaggini e scene che ai più potrebbero arrivare divertenti, ma, non solo non servono ad approfondire ed evolvere il rapporto tra i due protagonisti, non chiudono neanche la macrotrama lasciando il pubblico a chiedersi quale direzione la storia di Knull potrebbe prendere da lì in avanti e in quali film o serie TV ciò potrebbe avvenire. Tra la 'venomizzazione' di diverse specie animali, tormentoni su calzature, numeri musicali e sprizzi di fantascienza disillusa, il tempo trascorre su schermo con un ritmo sempre sostenuto ma mai realmente giustificato, pieno. Si ha la sensazione che i primi due atti del film siano fortemente riempitivi e con un montaggio spesso discutibile, volto a rinnegare alcuni elementi del primo Venom, cambiarne altrettanti de Venom: La Furia di Carnage, dimenticarsi di alcuni introdotti in Spider-Man: No Way Home e lasciare i fan con più domande che risposte.
Tecnicamente la CGI ha picchi notevoli ed altrettanti decisamente plasticosi, finti e scollati dalle scene; buone le scene in esterna, meno convincenti quelle negli spazi chiusi con un impiego abbastanza insensato del cast corale. Anche Hardy ormai è una macchietta di se stesso: espressioni, postura, camminata si fanno sempre più caricaturiali e finti quasi offrendo una dimensione cartoonesca al personaggio privandolo di una qualsivoglia gravitas drammatica e barlume di realismo, mentre gli omicidi sempre violenti ed efferati ormai sono alla stregua delle esplosioni ACME dei Looney Tunes. Musicalmente il film offre una playlist che pesca a piene mani dagli anni "80 a momenti più contemporanei, ma questo contribuisce a mortificare alcune scene anziché esaltarle, consapevole che ormai il pubblico voglia questo da Venom, e il personaggio non meriti di essere nulla di più. Ed è un peccato, perché nei rari momenti in cui Knull è a schermo non solo pare estremamente fedele ai fumetti Marvel, ma riesce anche a comunicare terrore... peccato che, in questa storia scritta a quattro mani che porta anche la firma dello stesso Hardy, dal finale sbrigativo, veloce ed anticlimatico Venom sembra chiudere il suo percorso nel Sony's Spider-Man Universe in sordina, quasi sottovoce, quando invece i Marvel Studios facevano riecheggiare il ferro forgiato da Tony Stark.
Portafogli alla mano si chiude un capitolo importante per Sony. Misteriosamente però sembra la prima a disinteressarsene.
]]>L'11 ottobre 1975 una troupe provava disperatamente a reinventare la storia della TV lanciando nel corso della terza serata dell'NBC un folle programma di 90 minuti dove a briglia sciolta i più grandi esponenti della standup comedy si esibivano per la prima volta insieme in un ensemble di sketch irriverenti. Un esperimento che oggi verrebbe considerato ad alto rischio ed impensabile nella società contemporanea, tant'è che quel programma, Saturday Night, nonostante vada ancora in onda con grande successo, lentamente nel tempo si è completamente trasformato piegandosi ai tempi e (soprattutto) la sensibilità moderne. Ma il racconto del backstage di quel primo storico e rivoluzionario pilot è stato immortalato in una splendida pellicola diretta da Reitman con un cast di stelle cariche di passione, ispirazione e rispetto per lo splendido e frenetico viaggio che ci spetta per 110 dissacranti minuti.
La combo Reitman/Kenan (Ghostbusters: Minaccia Glaciale) funziona tremendamente bene riuscendo a mescolare commedia e dramma offrendo un grande spaccato di storia ed entertainment system permettendo al pubblico di capire gli incredibili retroscena economici e culturali dietro a quello che oggi viene considerato un sistema rodato e funzionale, ma che all'epoca sembrava una scommessa persa tra problemi tecnici, improvvisazioni, pressioni ai piani alti ed artisti sopra le righe tra alcol e droghe. La potenza di Saturday Night è insita proprio nell'onestà del racconto: la storia di uno show di controcultura registrato dal vivo con un cast di ventenni sconosciuti. Nessuno viene dipinto come un eroe senza macchia o un personaggio positivo, tutti si trascinano dietro un bagaglio di insicurezze e dipendenze e la storia non ha alcuna remore ad illustrare le ombre dietro alle luci del successo di un gruppo di bambini mai cresciuti davvero nel perseguire un concetto di arte e comicità sperimentale, avanguardista e senza freni. L'umorismo nel film potrebbe infatti impressionare e sconvolgere le generazioni più giovani complice l'assenza di limiti, vincoli e pudori dell'epoca in cui senza guardare in faccia niente e nessuno ci si prende gioco del colore della pelle, l'orientamento sessuale ed il credo religioso di chiunque... qualcosa che oggi non si potrebbe più fare senza filtri.
Saturday Night mette in scena un cast stellare in una dimensione temporale di 90 minuti dove caos, ilarità ed eccessi sono gli assoluti protagonisti accompagnati da colori sparati, musica funk e fumo di sigaretta. Buona parte del film vede i personaggi muoversi da una parte all'altra provando disperatamente a risolvere problemi e imprevisti mentre parlano delle cose più disparate (in alcuni momenti sembra vi sia lo zampino di Sorkin) mentre le percussioni scandiscono il ritmo della colonna sonora, al punto che, salvo una leggera flessione del ritmo tra il secondo ed il terzo atto si ha la sensazione di essere arrivati al finale col fiato corto.
Un viaggio nella storia della comicità televisiva che permette di riscoprire le origini dello show precursore della comicità dal vivo, emulato da tanti, ma mai eguagliato.
]]>In diretta da New York, il Saturday Night Live!
Debutto sorprendente quello di Kendrick alla regia.
Basato su una storia vera, Woman of The Hour ci trasporta negli anni "70 raccontandoci tre storie diverse: abbiamo quella di Cheryl (Kendrick, qui anche protagonista), aspirante attrice la cui carriera fatica a decollare che decide su consiglio della sua agente di partecipare a Il Gioco delle Coppie, quello di Rodney (Zovatto) serial killer votato al femminicidio, e Laura (Robinson) che ospite al programma in cui le storie dei primi due personaggi si intersecano riconosce in lui l'omicida della sua miglior amica e prova disperatamente a fermarlo prima che possa fare del male a qualcun altro.
La prima cosa che salta all'occhio dello spettatore è la dimensione temporale in cui la trama si muove: muovendoci avanti e indietro nel tempo abbiamo modo di scoprire le psicologie dei personaggi, le ragioni dietro le loro azioni -che non vengono MAI giustificate- e la critica mossa alla società dell'epoca, misogina e noncurante, che nonostante continue avvisaglie, denunce e testimonianze ha deciso consapevolmente di non fermare il mostro, contribuendo a costruirgli attorno un'aura di intoccabilità per quanto Rodney non avesse alcuna conoscenza e raccomandazione a proteggerlo, si è semplicemente scelto di non credere a delle donne. Di primo acchito si potrebbe pensare che nessuno dei personaggi maschili presentati all'interno della pellicola sia salvabile: egocentrici, superficiali, stupidi, violenti, maschilisti e pericolosi... nessuno degli uomini del film, in un modo o nell'altro ne esce a testa alta; eppure non tutti sono soggetti "negativi", anzi, alcuni sono proprio i primi ad essere vittime della società patriarcale che con atteggiamenti, parole e gesti arriva a desensibilizzarli davanti a comportamenti problematici e poco etici.
La regia di Kendrick è serrata, ancorata ai suoi personaggi e raramente ama perdersi in panoramiche e dettagli, senza mai concedersi virtuosismi e sperimentazioni scegliendo di mostrare a schermo la violenza efferata delle azioni di Rodney solo in alcune situazioni, scegliendo di suggerirla in altre. Il film, caustico, sfrutta la colonna sonora all'occorrenza esaltando momenti di tensione, in altri momenti la firma della neo-regista va porta tutto in sottrazione: la saturazione va scemando, la musica lascia spazio a silenzi e rumori ambientali, e la fotografia va facendosi sempre più cupa nel climax di Cheryl, in piena notte, scegliendo invece luminosità e colori caldi per l'epilogo di Amy (Best). Si sollevano occasionali problematiche nel montaggio e nella gestione del ritmo, prevalentemente dettate dall'inesperienza dell'attrice di Twilight, qui dietro la macchina da presa, ma il risultato è convincente e sicuramente carico di promesse per il futuro.
]]>Che film complicato da recensire, Megalopolis.
L'ultima fatica -è il caso di dirlo- di Coppola è una pellicola ambiziosa, con la portata epica di un'epopea incredibile, enorme... e arrivati a fine corsa si ha l'idea che il regista de Il Padrino e Apocalypse Now ne sia rimasto schiacciato.
La trama del film si racconta in poche parole: il sindaco di una città (Esposito) ed un estroso architetto (Driver) hanno delle divergenze sulla riqualifica della loro città, scenario che porterà due famiglie e personalità che vi gravitano intorno ad uno scontro dalle insospettabili ripercussioni. State pensando che si tratti di un gangster movie? Megalopolis per certi versi lo è, ma non è solo questo: perché il perno della discordia è dato da una donna (Emmanuel) figlia di uno ed interesse sentimentale dell'altro, che inesorabilmente porta a triangoli amorosi e problemi famigliari. Ora credete che sia un dramma romantico, giusto? Beh, Megalopolis è anche questo... ma se vi dicessi che una nuova e misteriosa sostanza organica conosciuta come Megalon permette applicazioni incredibili tanto nell'edilizia, quanto nella moda così come nella chirurgia e che il protagonista sia in grado di fermare il tempo a proprio piacimento? Allora pensereste che Megalopolis è un film di fantascienza, e gli elementi effettivamente ci sono. Ma poi dovrei dirvi che i protagonisti di questa storia si chiamano Cesare, Cicerone, Clodio... e che la città in cui vivono è invece conosciuta come New Rome: ci sono un Colosseo, lotte tra gladiatori e tutti oltre l'inglese, sembrano conoscere il latino. Quindi è un film storico e quella a cui assistiamo è una distopia? Megalopolis purtroppo vuole essere tanto, troppo e questo finisce inesorabilmente per stordire il pubblico. Nell'arco di 140 minuti gli spettatori assistono a sparatorie, dolci scene d'amore e passionali sequenze di sesso, feste fatiscenti e rivolte popolari, discorsi sull'etica, la politica e l'umanistica, critiche ambientaliste ed alla società attuale. Il problema è che niente o quasi viene approfondito e sviscerato come merita. Come se non bastasse viene inspiegabilmente scelto un linguaggio che viola le regole del cinema conosciuto e lo show don't tell messo in scena che avrebbe fatto faville in una pièce teatrale o in una graphic novel del Gaiman dei tempi d'oro, in sala non può inesorabilmente che confondere ed irritare il pubblico mainstream arrivando quasi snob e delirante nel suo racconto ai più giovanissimi e un tradimento nei confronti dei fan del regista che stavolta percorre una strada completamente nuova con alcuni piccoli rimandi ai temi portanti del film-maker ma nulla più. Non aiutano i tanti, tantissimi personaggi che sembrano giocare un ruolo fondamentale ai fini della storia ma che vengono spesso abbandonati in corso d'opera o ripescati solo nel corso delle battute finali chiedendosi se fosse necessario inserirli o se si trattasse di mere lungaggini.
Quello in cui però Megalopolis eccelle è sicuramente il comparto estetico: delle volte gli effetti visivi non raggiungono la sufficienza risultando come la sceneggiatura "pretenziosi", eppure è qui che l'esperienza e la visione di Coppola alzano l'asticella. Sono migliaia i singoli frame che meriterebbero da soli di venir appesi alla parete e le soluzioni artistiche e visive che accompagnano i personaggi sono incredibili per movimenti di camera, scelta di colori, luci, inquadrature e fotografia. Un progetto raramente ispirato come capita di trovare in sala che riuscirà a sbalordire e lasciare a bocca aperta gli spettatori grazie alla splendida scelta di immagini poetiche e suggestive, ibridazioni creative (suv moderni e macchine d'epoca, scritte al neon in latino, una New York anni "50 piena di templi, altari e sacelli romani) e l'affresco di un mondo volto ad oscillare sempre tra utopia e distopia.
Se le intenzioni del regista sono nobili, l'esecuzione non risulta però all'altezza. Il problema più grande di Megalopolis è che quello che Coppola racconta è, parafrasando gli X-Men, "un futuro passato": la sua visione è vecchia, stantia... e i personaggi che ci racconta non guardano al futuro ma al passato. Ben vengano le critiche alla società del benessere e alla classe politica, ma questo continuo giudicare la perdita di valori e la corruzione, il dipingere gli uomini come padri padroni che non devono chiedere mai e le donne come madri o sostegno al successo degli stessi fanno capire che nonostante tutte le buone intenzioni e la grande ambizione il futuro di Coppola lo abbiamo già avuto. E le nuove generazioni stanno provando a cambiarlo. Megalopolis non è un disastro totale come si riecheggia dai tempi del suo debutto ai festival e le kermesse internazionali, ma l'unica cosa che potrebbe salvarne la percezione è il tempo: quello che il protagonista riesce a fermare, che ossessiona il suo regista e che probabilmente in futuro potrebbe spingere il pubblico a rivalutarlo come un "classico." Chissà. Nel presente però immagino uno scenario molto diverso.
]]>Delle volte basta un'idea semplice eseguita con passione e amore per riuscire a far breccia nel cuore del publico, Il Robot Selvaggio ne è la prova.
Il film di Sanders (Lilo & Stich, Dragon Trainer) che è l'adattamento dell'omonimo racconto di Peter Brown parte da un'idea davvero semplice: una nave cargo perde un carico di sei robot a seguito di una tempesta, Roz, l'unica unità sopravvissuta al disastro, si attiva accidentalmente su un'isola disabitata dall'uomo e popolata solo da animali. Nonostante le buone intenzioni dell'automa, gli animali osservano con diffidenza ed ostilità l'essere meccanico, portandolo a maturare l'idea di analizzare e studiare il linguaggio animale per cercare un punto d'incontro con loro. Essendo programmato per aiutare il prossimo, quando finisce col trovarsi di fronte ad un uovo schiuso scatenando l'imprinting nel pulcino al suo interno, si assume l'incarico di crescerlo fino alla migrazione.
Famiglie disfunzionali, maternità, razzismo, discriminazione, ambientalismo... The Wild Robot tocca diversi temi e lo fa tutti con una spiccata sensibilità e con la dovuta attenzione consapevole del suo giovanissimo pubblico. Perché sì, il target del film è irremediabilmente basso, al punto che gli spettatori riusciranno perfettamente a comprendere cosa accadrà in corso di visione e dove la storia andrà a parare, ma ciò non è assolutamente un problema perché uscendo dalla dimensione temporale in cui si muove, la pellicola riesce sapientemente a scherzare su tutto, mettendo a schermo anche crudeltà (animali che ne predano altri, battute disincantate sull'uccisione e la morte) in maniera piuttosto naturale e rispettosa dell'intelligenza dei bambini, cosa che a quanto pare in Disney e Pixar non sembrano più essere in grado di fare. Plauso quindi a Universal e Dreamworks che invece decidono di assumersi rischi dipingendo un racconto child friendly pur senza nascondere tutto ciò che di brutto c'è in questo mondo sotto un velluto di perbenismo ed ipocrisia. I bambini non si ritrovano quindi chiusi sotto una campana di vetro ma avranno modo di ridere, scherzare e commuoversi per i loro beniamini a schermo in un susseguirsi incantevole di azione, risate, introspezione e momenti visivamente spettacolari: ogni frame de Il Robot Selvaggio andrebbe incorniciato tanto sono suggestive e poetiche paesaggi, immagini e colori in quella che è una deliziosa commisione di stili perfettamente amalgamati a schermo.
Se dopo essere rimasto incantato dallo splendido teaser trailer che presentava sequenze mute articolate solo da musiche, canzoni e suoni ambientali, non ero particolarmente felice della scelta di far parlare i personaggi nei successivi perché trovavo più suggestivo seguire la scia muta de Il Mio Amico Robot, a visione ultimata penso che non potesse esservi soluzione migliore di restare fedeli al racconto originale e far parlare e relazionarsi i personaggi perché la "contaminazione reciproca" delle rispettive lingue e l'influenza dei reciproci costumi nonostante le differenze che separano specie robotiche e nomali rappresentano non solo un grande insegnamento e l'abbraccio del diverso, l'arricchimento del nuovo, ma anche uno dei punti di forza della scrittura del film.
Anche i più grandi che potrebbero ragionevolmente sentirsi meno colpiti dal plot abbastanza prevedibile non potranno che emozionarsi a commuoversi dalla cura e l'attenzione risposti nella messa in scena: una regia che omaggia la poesia della natura dalle influenze miyazakiane ad una sensibilità tipica delle fiabe capaci di trasportare gli spettatori fuori dal tempo e mandarli in un'epoca dove l'animazione metteva VERAMENTE la storia prima dei messaggi. Ad oggi il mio Oscar contender per il Miglior Film d'Animazione, che, se sorretto dalla meritocrazia dovrebbe prendersi di diritto in barba all'usato sicuro di Inside Out 2.
]]>Un gruppo di amici si ritrova per il matrimonio di uno di loro e un altro con cui avevano interrotto i rapporti si palesa alla reunion con una misteriosa valigetta contenente una macchina rivoluzionaria che ha il potere di trasferire le loro coscienze in altri corpi. Questo concept dalle potenzialità incredibili da solo basterebbe a vendere la pellicola... e invece l'esecuzione è sorprendentemente noiosa per tutta la prima abbondante metà per sfornare un colpo di scena interessante solo in seconda battuta guidando lo spettatore verso un plot twist finalae che vorrebbe essere potente... ma viene recepito pretenzioso e ridicolo.
Tutti i personaggi sono insopportabili, falsi, ipocriti, e psicolabili: non si fanno problemi a tradire, mentire e alcuni di loro persino ad uccidere, è impossibile per lo spettatore empatizzare o fare il tifo per questo o quell'altro, perché nessuno di loro è esente da pensieri ed azioni deprecabili in corso di visione. La regia di Jardin è forse l'unica cosa che si salva con alcune trovate per composizione, messa in scena e creatività davvero interessanti ma purtroppo ridondanti e penalizzate da una comicità spesso esagerata e fuori luogo. È un peccato It's What's Inside abbia sprecato un cast così versatile (Debnam-Carey, Davenport e Thompson su tutti) ed un concept così fresco e dalle potenzialità praticamente infinite in una sceneggiatura a metà tra i teen drama e gli young adult beceri da primi anni "2000, perché con una sceneggiatura più attenta, curata e parsimoniosa questo avrebbe potuto essere l'inizio di un franchise, e continuo a sperare prima o poi qualcuno con le idee più chiare possa rimettervi mano con un reboot più centrato e quadrato.
]]>Il pubblico è terrorizzato dalle canzoni nei film.
Fa sorridere vedere quante persone ogni volta che Phoenix e Gaga iniziavano a cantare sbuffavano alzando gli occhi al cielo per poi rimanere svegli fino alle due di notte con la bava alla bocca ogni santo anno nel seguire quotidianamente il Festival di Sanremo. Eppure questo la dice lunga anche sulla conoscenza del pubblico mainstream nei confronti dei musical perché... Joker: Folie à Deux non è un musical, e ritenerlo tale sarebbe un grave errore. O almeno non lo è nel senso tradizionale, canonico e stretto del termine: i numeri musicali spesso sono privi di metrica, non sono catchy, memorabili, non c'è il tormentone da parodizzare, durano pochissimi minuti (il pezzo più lungo non supera i 4), capita sfocino nel voiceover finendo come soundtrack del film che prosegue la sua narrazione parlata e solo in tre occasioni su undici momenti (su un totale di 140 minuti si canta sì e no poco più di 20, vi sembravano di più? Fatevi due domande) i personaggi hanno costumi e set dedicati venendo trasportati in una dimensione alternativa al mondo vero e proprio, quello della loro immaginazione, o meglio ancora... della loro psiche. Perché la musica gioca un ruolo fondamentale nella pellicola: ad Arthur (Phoenix) viene introdotta quando conosce Lee (Gaga) e da quel momento in avanti viene utilizzato come linguaggio di seduzione, corteggiamento ma anche salvavita. I personaggi comunicano attraverso la musica quando sono insieme e vi si rifugiano come un nido quando sono soli; a differenza dei musical per altro non lo nascondono mai: i personaggi accanto a loro li vedono cantare ed in una scena si protrae come un'infezione, diventando persino un moto di ribellione da accompagnare alla violenza... ma non è un musical, e, se dobbiamo accettare che lo sia allora possiamo asserire si tratti di un musical post-moderno che rivoluziona il genere, ma sarebbe pretestuoso. E siccome nel primo film la musica ha accompagnato alcune delle scene più iconiche (dalla comparsa del makeup alla ballata sulla scalinata), il fatto che i personaggi passassero dall'ascoltarla a cantarla in prima persona ne rappresenta la naturale evoluzione.
Il film inizia con un corto animato in 2D che celebra i Looney Tunes (del resto rimaniamo in casa Warner) e ci rivela già quale sarà il tema del film, preannunciandoci anche i risvolti del finale: Joker è l'ombra di Arthur, reclama la sua popolarità al punto che il clown desidera voler prendere il sopravvento nei confronti del timido, impacciato e danneggiato uomo, sostituendosi a lui. Ma quale dei due è una maschera, Arthur o Joker? Il pagliaccio si è liberato dal guscio mite dell'uomo reclamando tutto il tempo che non ha potuto vivere imprigionato da qualche parte nella sua mente, oppure è semplicemente un personaggio che serve finalmente a metterlo sotto i riflettori dandogli tutte le attenzioni che la società non gli ha concesso? Chiave di volta per far comprendere al complesso protagonista di Phoenix la verità è il rapporto con Lee: sensuale, pericolosa, istintiva, bugiarda e a sua volta danneggiata. Due persone la cui follia permette di alimentarsi a vicenda in una spirale di narcisismo tossico e violento, troppo da sopportare per una città al collasso come Gotham. La stessa Gotham che è spaccata in due tra chi condanna le azioni efferate in diretta TV di Joker chiedendo a gran voce la sedia elettrica e chi invece lo considera un affronto al potere, il grido del poveri (e la vittoria del popolismo) in quello che inizialmente si presenta come Un Giorno in Pretura ma poco alla volta si trasforma in Forum.
La chimica tra le due star è folle e trascina il film in una produzione di alto livello premiata da una composizione delle scene curata tanto nelle luci quanto nei colori, così come da trucco e parrucco ispirati che di tanto in tanto strizzano l'occhio ai fumetti. Ovviamente è la colonna sonora a rubare tutta l'attenzione soprattutto nei rimandi musicali al primo film e in linea generale alla ricerca di una musica nostalgica, perché se la tecnologia richiama la fine degli anni "80 e la metà degli anni "90, musicalmente il film scava ancora più a ritroso nel passato.
Quindi che cosa non ha funzionato in Joker: Folie à Deux per risultare così divisivo? La scelta di continuare ad allontanarsi dai fumetti, forse? Premesso che se si sta guardando un sequel questo dovrebbe già essere consolidato dal primo film (che è lo stesso motivo per cui possiamo dire alla trilogia del Venom di Sony che è brutta, ma lamentarsi che sia più simile al Mercenario Chiacchierone che al Simbionte dei fumetti arrivati al terzo film lascia esattamente il tempo che trova: incassi alla mano, "squadra che vince..."), non è neanche propriamente vero perché giunti al finale succede qualcosa di potenzialmente importante per il 'JokerVerse'; allora il fatto che il finale ribalti le aspettative del film? Probabilmente, ma non è un epilogo che esattamente come il primo film punta il dito contro la società ipocrita e fautrice di mostri? Quindi il fatto che arrivi un sequel di cui non c'era realmente bisogno? Ci può stare, ma questo discorso non vale anche per tantissimi altri prodotti, soprattutto sul fronte dei cinecomics? E quindi si torna alle canzoni, e a quel voler provare a pensare che il linguaggio scelto per raccontare questa storia piena di svolte a sorpresa e turning point fosse troppo lontano dal primo film e che le nostre aspettative non fossero state ripagate. Ma la verità è che tutte queste cose possono risultare un ostacolo alla visione a seconda della sensibilità dello spettatore di turno; per quanto mi riguarda tuttavia non lo hanno rappresentato, e, se possibile, ho apprezzato questo film ancora più del primo.
"That's Life..."
]]>Una delle saghe più longeve e fortunate al cinema degli ultimi vent'anni è sicuramente Transformers. Eppure di film in film, il franchise dei robottoni Hasbro prodotta da Bay non è stata particolarmente apprezzata sul fronte qualitativo e chi vi scrive è uno di quegli spettatori che negli anni si è gradualmente allontanato dalla saga avendo ormai smesso di seguire i film... eppure, complice il media di racconto scelto, l'animazione, e il fatto che fosse un film d'origini, con Transformers One ho voluto provare a riavvicinarmi, ed ho fatto bene.
Non avete mai visto un film di Transformers? Cominciate qui.
Vi siete allontanati dai film dei Transformers? Date un'opportunità a One.
Non sapete se i Transformers possano piacervi o meno? Usate questo film come banco di prova; perché quello che Cooley mette in scena è X-Men: First Class con i mecha. Una pellicola che nel primo atto deve probabilmente trovare la quadra e capire come ingranare con alcune battute che personalmente parlando non ho mai trovato efficaci o particolarmente divertenti con momenti leggeri ed ilari che spostano i personaggi da una situazione frenetica e pericolosa all'altro, cosa che impedisce allo spettatore di percepire un senso di "quotidianità", in quanto ad eccezione della scena d'apertura che sembra un momento di ordinaria routine, tutte le altre sembrano invece imprevisti eccezionali. L'inizio di Transformers One emana vibes da "child movie" ma è da secondo atto in poi che sorprendentemente la pellicola subisce un'impennata qualitativa incredibile spingendo su mistero, cospirazione e colpo di stato: man mano che i protagonisti scavano all'interno della mitologia di Cybertron la trama si fa sempre più cupa, matura e drammatica, fino all'epico terzo atto che ci accompagna al finale in un crescendo d'azione ed intensità emotiva. Forse il più grande problema del film è proprio questo: non capire a quale pubblico ci si stia rivolgendo, quello dei bambini del primo atto, quello degli adulti nel secondo o quello dei ragazzi nel terzo ed ultimo? Uguaglianza, libertà e rispetto sono temi molto cari alla sceneggiatura, al punto da ribadirli in più occasioni anche con una certa crudeltà e spietatezza. Del resto il vantaggio di avere dei robot per protagonisti sta nel fatto che puoi decapitarli, mutilarli e distruggerli a schermo senza mostrare sangue e giocandosi la carta del "puoi sempre ricostruirli" che viene percepita dai più piccoli come un'interruzione o un guasto più che una morte definitiva. Un altro problema piuttosto evidente è insito nella velocità con cui tutto accade, 90 minuti sembra la durata ideale per un film d'animazione ma forse avvengono tanti, troppi avvenimenti al punto che sembra di essere giunti al soddisfacente finale con il fiatone. Tecnicamente parlando il film è fluido, dettagliato e coloratissimo, con alcuni scorci di Cybertron particolarmente ispirati, sebbene da un punto di vista puramente visivo il film non risulti ne innovativo ne rivoluzionario e forse porta sulle sue spalle il peso di qualche anno in relazione a quando invece arriva nelle sale. Buono anche il doppiaggio italiano (sul voice acting originale posso esprimermi poco sui talent avendo sentito solo i trailer), d'atmosfera alcune tracce della colonna sonora, in generale nulla di particolarmente memorabile.
Un film senza esseri umani -che non ci mancano-, che cementifica le relazioni tra i personaggi e ti mostra la bromance che non t'aspetti, restituendo effettivo valore alle trasformazioni che qui vengono dosate al bisogno un po' per ragioni di sceneggiatura (e devono spiegarci perché dire che si ambienta miliardi d'anni prima dei film live action come faccia Optimus Prime a diventare un camion...) e un po' per impreziosire l'upgrade, il power-up e la trasformazione dell'eroe mentre si appresta a salvare la situazione.
Come si comporterà Paramount da qui in avanti?
Sarà interessante scoprirlo.
Dopo una trilogia dedicata all'Arrampicamuri Marvel, Watts è a briglia sciolta e può fare il film che vuole come lo vuole. Il risultato? Acerbo, ma apprezzabile.
In un hotel di lusso una donna facoltosa resta invischiata in uno scandalo e prima che questo scoppi diventando di dominio pubblico, chiama uno specialista (Clooney) per occuparsene. Mentre si mette al lavoro però, senza che la donna l'abbia chiamato un secondo uomo si palesa (Pitt) per lo stesso motivo. Cosa succede quando due lupi solitari si ritrovano costretti dalle circostanze a collaborare? È questo l'incipit alla base del nuovo film Apple che potrebbe tranquillamente passare per action comedy ma la realtà è un'altra: il regista gioca coi generi provando a tentare nuove ibridazioni che aggiungono alla formula anche un pizzico di dramma, sentimento ed introspezione. Si tratta di un prodotto che gioca molto sull'empatia nei confronti dei suoi personaggi, non propriamente di villain ma nemmeno degli eroi, quanto più dei mercenari sulla zona grigia che complici gli anni di carriera maturati sulle spalle sono provati dalle rispettive esperienze e forse non vogliono più restare costretti o soggiogati da regole così ferree e stringenti che mettono a dura prova la loro umanità.
Il film è interamente sorretto dalla chimica di Clooney e Pitt, inossidabile dai tempi di Oceans, che passano dall'essere rivali in costante competizione a quasi amici costretti dalle situazioni. È divertente vedere questi specialisti messi alla prova da variabili, imprevisti e i loro stessi sentimenti tra cerimonie, inseguimenti e sparatorie, sebbene sul fronte tecnico emerga tutta l'inesperienza di Watts: un ritmo altalenante e incerto, un'esecuzione traballante in alcune sequenze ed una scrittura talvolta pretenziosa rispetto alla messa in scena, rendono alcuni passaggi più deboli di altri con lungaggini evitabili in alcune sequenze. Sia chiaro, nulla di così grave da guastare il divertimento, ma la sensazione che questa idea fosse stata concretizzata più in là nel tempo sarebbe stata più godibile permane.
Creativo e ambizioso Watts, teniamolo d'occhio.
]]>Sono dell'idea che quando si voglia fare il remake di un buon film lo si debba fare per aggiungere o modificare qualcosa che possa offrire spunti interessanti, sorprese e cambiamenti del caso che ne giustifichino l'esistenza, perché altrimenti cambiare qualcosa che già funziona bene? Probabilmente c'è anche un'altra ipotesi: una cultura lontana da quella di riferimento d'origine che necessita una mediazione nel modo in cui il messaggio del film venga recapitato... ma anche volendo essere generosi, non è questo il caso di Speak No Evil. La pellicola danese è perfettamente fruibile per il pubblico USA, ecco perché il remake di Watkins non trova il benché minimo senso.
Con buona pace dello splendido cast (McAvoy, Davis, McNairy), il senso di tensione respirato nell'originale viene meno tra il secondo ed il terzo atto a causa di performance così caricate e sopra le righe rispetto il film originale, da non giustificare parole ed azioni di buona parte dei personaggi. A fronte di un crescendo di tensione, e l'inesorabile presa di coscienza dell'inevitabile che presentava l'originale il remake preferisce pigiare il piede sull'acceleratore di quello che noi europei siamo soliti definire "americanata" trasformando quelle che inizialmente venivano presentate come persone normali in veri e propri iron man (ed iron woman, kid e compagnia cantante), capaci di divincolarsi guidati dalla disperazione in azioni sanguinolente, violente e criminali. Il problema è tutto qui: scegliere di ribaltare completamente il finale, il senso dell'opera e la prospettiva della storia quasi a voler capricciosamente prendersi una rivincita sul regista del film danese perché insoddisfatti di un epilogo sì shockante e crudele, ma nell'ottica della scrittura, realistico. Tecnicamente parlando McAvoy offre una performance incredibilmente disturbante raggiungendo ed elevando quella di Split... eppure risultando grottesca nella sua esecuzione per via di una sceneggiatura che decide di essere rocambolesca e sanguinosa ma noiosa nel suo protrarsi anziché confezionare una conclusione che fosse in linea agli intenti del film.
Consigliato solo a chi non ha visto il film originale.
]]>In Italia non c'è città che riesca ad insinuarsi nel DNA dei suoi artisti più di Napoli: un legame intrinseco che arriva con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue meraviglie e i suoi cliché a scorrere nelle vene dei suoi abitanti scorrendo come il sangue. Il Segreto di Liberato questo lo rende chiaro sin dalle prime battute dove l'artista stesso consapevolmente si dipinge come perennemente insoddisfatto e alla ricerca di qualcosa, quel qualcosa che disperatamente cerca altrove, andando in altre città e persino paesi per poi capire che ciò di cui ha sempre avuto bisogno è sempre stato lì sotto i suoi occhi, nella sua amata Napoli. Chi si aspettava però un'identità svelata da parte del misterioso cantante partenopeo rimarrà deluso: Liberato è Napoli, incarnando tutte le sue affascinanti contraddizioni, un simbolo ed un punto di riferimento per una comunità che trova in lui un grido generazionale... e per tutti gli altri questo potrebbe non essere sufficiente. Se tramite una direzione artistica bella ed ispirata come raramente capita nel nostro paese rappresentato dalle splendide animazioni che impreziosiscono il distintivo e contemporaneo character design di LRNZ riusciamo a viaggiare indietro e avanti nel tempo scoprendo una parte più intima e privata del Liberato bambino, adolescente e young adult, permettendoci anche di sfuggire ai limiti di budget portandoci in location ricercate come Parigi e Londra, è altresì chiaro che nonostante le suggestive immagini e la ricercatezza all'interno di questo, purtroppo il racconto non è così avvincente e originale. L'alone di mistero dietro Liberato qui dipinto un ragazzo come tanti altri lo priva della "magia": nessun background eclettico, caratterizzazione particolare e distintiva, quasi a volerci suggerire che non ci sia nulla per cui valga la pena ossessionarsi o idolatrare. Chiunque se ci crede abbastanza può essere (diventare) Liberato? Il messaggio è chiaramente ispirato, ma priva del racconto di qualsivoglia identità: quanti film, serie TV, libri e fumetti hanno raccontato Napoli e l'attaccamento viscerale dei suoi abitanti? Amori adolescenziali impossibili o spezzati dalle rispettive e personali ambizioni nella disperata realizzazione dei loro sogni? E a quel punto tolte le canzoni e le animazioni, il film diventa un prodotto esattamente come tutti gli altri.
Il Segreto di Liberato è un progetto ambizioso al punto da oscillare tra biopic, animazione e documentario... e probabilmente è proprio questa sua ambizione il suo più grande punto debole: volendo provare ad eccellere in tutti i campi finisce col non farlo in nessuno. Ed è un peccato perché, se questa storia fosse stata interamente animata e scandita dalle canzoni e la voce narrante di Liberato lasciando fuori interviste e retorica, anche se in assenza di un racconto particolarmente originale avremmo avuto forse uno dei film indipendenti più interessanti degli ultimi anni.
]]>Tre sorelle sulla trentina che non avrebbero potuto crescere più diverse nel tempo si sono allontanate sempre più raffreddando il loro rapporto, ma saranno costrette a stare a stretto contatto per qualche giorno quando si ritroveranno al capezzale dell'amato padre morente.
Il film di Jacobs è davvero tutto qui, rivelarvi di più significherebbe spezzare quello che verrà raccontato durante il racconto che, non esente da difetti ha il pregio di essere dannatamente realistico. His Three Daughters è infatti una storia che può essere capita e realizzata nella sua pienezza solo se la vita purtroppo ti ha toccato con situazioni analoghe facendoti saggiare sulla tua pelle cosa significhi passare notti insonni, lontano da casa e dai tuoi cari per adattare i tuoi ritmi a quelli della persona a cui devi, anzi, desideri stare vicino. Stress, tensione e quel tempo che non sembra passare mai mentre aspetti che arrivi l'inevitabile sperando da una parte succeda il più presto possibile per evitare continui a soffrire e dall'altra che il momento non arrivi mai perché magari potrebbe portare ad una miracolosa ripresa.
Quella che si consuma in due ambienti: uno interno dell'appartamento rappresentato dal calore delle luci gialle calde ma permeato dalle tensioni delle tre sorelle e quello esterno con luci fredde e blu dove si trova il calore di altri affetti come custodi, vicini di casa e amanti; un paradosso in cui claustrofobia, stress e tensione portano Coon, Lyonne ed Holsen a dialoghi, incontri, scontri, litigi, incomprensioni e risate in grandissime performance che raramente esplodono comunicando molto di più con espressioni e gestualità di quanto potrebbero fare le parole. Ed è l'occasione per raccontarsi, svelare i segreti, affrontare i non detti, superare i conflitti ed avvicinarsi mentre in sottofondo le dolci e malinconiche note di un pianoforte quasi sottovoce accompagna il racconto di questa storia lenta e dilatata nei tempi, fatta di botta e risposta sommessi, intimi, quotidiani. Vero protagonista del film come il titolo suggerisce è però il papà delle tre sorelle che nonostante non sia mai in scena si rende incredibilmente presente e ingombrante fino ad un crescendo di emotività potente nella sua messa in scena tanto delicata quanto potente, ecco i paradossi, di nuovo.
His Three Daughters non è assolutamente un film per tutti, ai più potrebbe arrivare noioso, lento e pesante... a tutti gli altri che questa storia l'hanno vissuta e sperimentata invece scaverà una voragine nel petto riuscendo però ad imprimere un senso di speranza indicando una luce in fondo al tunnel.
]]>Sembra di essere tornati indietro di una quindicina d'anni quando le saghe cinematografiche young adult (Twilight, Maze Runner, ecc.) dominavano le sale con trame e personaggi improbabili, purtroppo però ci troviamo alla fine del 2024, ed alcune idee risultano tanto, troppo fuori tempo massimo.
Tratto da Brutti, l'omonimo romanzo di Westerfeld, Uglies racconta di un futuro distopico in cui per evitare disparità sociali il governo sottopone tutti gli adolescenti che hanno compiuto 16 anni ad un intervento obbligatorio di chirurgia estetica al fine di renderli tutti ugualmente belli. Quando Shay (Tju) decide di rifiutare l'intervento fuggendo dalla città per aver accesso al suo Tally (King) viene incaricata dalla Dr. Cable (Cox) di partire alla sua ricerca e ritrovarla, salvando così anche il mondo... o almeno così le è stato detto. Non ho letto il romanzo, quindi non ho idea quanto il film di McG sia fedele o meno, però posso dirvi che quei 100 minuti purtroppo si sono sentiti tutti per via della moltitudine di problemi che il progetto registra, primo tra tutti la tendenza di sottovalutare l'intelligenza degli spettatori: perché, non importa quanto siano giovani, sono perfettamente in grado di comprendere che vengano castati attori trentenni per interpretare dei teenager; e scegliere un cast di bellissime e bellissimi per interpretare dei "brutti" non è credibile. Il minutaggio della pellicola è a sua volta problematico perché sembra voler infarcire la macrotrama di sottotrame potenzialmente interessanti ma strutturare in maniera così superficiale e frettolosa da risultare ridondante e incompiuta. Il messaggio alla base è semplice, per carità: la tecnologia con i suoi filtri e l'intelligenza artificiale ci fa il lavaggio del cervello e ci allontana sempre di più dalla genuinità della vita ed il suo realismo, siamo schiavi degli schermi, così assuefatti che non abbiamo più voglia di metterci in gioco e provare qualcosa di nuovo, leggere un libro, scoprire cosa ci piace e coltivare rapporti in modo sincero. Questo pretenzioso inno ai vecchi costumi e l'esistenza analogica, il continuo ricordare che "si stava meglio quando si stava peggio" vengono urlati così tanto spesso da non fare presa sul pubblico, ma rischiando persino di causare l'effetto opposto. Probabilmente con una sceneggiatura più oculata e un formato televisivo anziché cinematografico qualcosa di Uglies si sarebbe potuto salvare... ma arrivati a fine corsa chi vi scrive non è assolutamente a bordo dell'hype train per un eventuale sequel.
Sul fronte tecnico peggio mi sento: una regia televisiva e didascalica, un montaggio fatto con l'accetta che di tanto in tanto confonde sulle tempistiche di come succeda cosa, una CGI ingombrante per tutta la durata del film nel peggior modo possibile. Effetti visivi che sembrano vecchi una decade e che non risultano per nulla ispirati prendendo la loro estetica da Ritorno al Futuro, Tron, Divergent ed una dozzina di altri titoli senza mettervi mai del proprio. Giusto la produzione musicale offre qualche scelta ispirata e particolarmente riuscita, ma non salva la baracca. Non ho idea di quale sia il target di Uglies, ma il film mi ha completamente perso alla velocità della luce.
]]>In che anno siamo?
Lo chiedo nell'accezione più positiva possibile perché Lisa Frankenstein è un film che sembra uscito dallo stesso periodo in cui il film si ambienta, ovvero fine degli anni "80.
Quando sua madre viene brutalmente uccisa davanti i suoi occhi da un serial killer introdottosi in casa sua, la vita di Lisa (Newton) cambia per sempre: nuova città, nuova scuola e... persino una nuova matrigna. Non tutto è da buttare, la sua nuova sorellastra Taffy (Soberano) è la sua miglior amica e Lisa ha anche un ragazzo ideale... che è morto, nel senso, che parla con la sua tomba. Un fulmine però potrebbe cambiare le cose per sempre rianimando il cadavere del ragazzo (Sprouse) che diventa il suo Angelo custode... e forse qualcosa di più, mettendo poco alla volta in ordine la sua vita.
Il debutto alla regia di Williams coadiuvato dalla splendida sceneggiatura di Cody porta ad un perfetto mix di commedia, sentimento ed horror capace di pescare a piene mani da Edward Mani di Forbice, L'Erba del Vicino, La Donna Esplosiva e La Signora Ammazzattutti: quindi eccoci catapultati in questo mondo dai colori sparati, insegne al neon, personaggi stralunati, carichi di eccessi e sopra le righe, atmosfere dissacranti, linguaggio diretto e sporco, tecniche sperimentali che mescolano b/n, claymotion e musica pop. Dovete far leva sulla vostra sospensione dell'incredulità perché le cose nel film succedono seguendo regole assurde, reazioni tutt'altro che realistiche, situazioni poco plausibili ed... occasionali omicidi. Newton che non ha quasi mai avuto ruoli particolarmente brillanti in questo film brilla di luce propria sembrando a metà tra Chappell Roan e la Lydia Deetz di Beetlejuice, Sprouse non ha una singola battuta... ma ha una performance talmente fisica ed espressiva da non far certo rimpiangere Zack e Cody al Grand Hotel e Riverdale. Ed è proprio il loro rapporto il punto focale del film: fresco, dinamico, giovane, divertente, dolce e spregiudicato. Se la Creatura poco per volta torna sempre più "viva" (il modo in cui viene usato il solarium fulminato è stupendo) man mano che il film passa, Lisa bloccata dal tempo che come ricorda "non cura le ferite, ma È la ferita" trova una valvola di sfogo per esprimere il proprio stile, manifestare la sua personalità e liberare la sessualità; un vero e proprio inno alla vita che trova il suo esagerato ed irriverente compimento nel suo atto finale... riuscendo tra le altre cose a rendere anche giustizia al mito di Frankenstein.
Dovunque sia oggi Robin, sarà sicuramente fiero di lei. Provaci ancora, Zelda.
]]>Cresciuto con un padre ed un fratello maggiore amanti del cinema action muscolare, io sono totalmente avulso al genere. Eppure, sono rimasto con gli occhi incollati allo schermo per tutte le due ore di Rebel Ridge.
Completamente estraneo alla filmografia di Saulnier, mi sono approcciato al film stuzzicato da trailer e non avrei potuto compiere scelta migliore: una terrificante storia politica di sistematica corruzione ai livelli più alti combattuta da un ex-marine (Pietre) ed un'aspirante avvocata (Robb) finiti indirettamente coinvolti nella misteriosa cospirazione che estende al propria rete in tutti i dipartimenti delle forze dell'ordine e che trova come maschera di rappresentanza un capo di un piccolo dipartimento locale (Johnson). Potrebbe tranquillamente sembrare una storia mai raccontata di Reacher, ma ha un valore aggiuntivo significativo: un protagonista affabile, carismatico, retto, e con un'incredibile capacità di adattamento che si palesa con fermo sangue freddo. Terry è esperto, preparato ed all'occorrenza letale, ma sveglie consapevolmente in modo del tutto anarchico di non uccidere i propri nemici come un vigilante fumettistico mantenendosi ancorato alla sua umanità: un uomo che non ha tutte le risposte, non compie sempre la scelta giusta ed è fallibile, ma non smette ostinatamente di credere al proprio senso di giustizia.
Una scrittura serrata, accattivante e terribilmente attuale in un crescendo di tensione che si conclude con una rocambolesca, spettacolare ed appagante sequenza action credibile e funzionale, senza supermen e voli pindarici lontani dalla realtà completamente sorretta dalla performance dei suoi protagonisti, trova compimento in un confezionamento pregevole e accattivante: il sodalizio tra regia e montaggio funziona dall'inizio alla fine in modo accademico, prediligendo movimenti di macchina lenti al servizio della storia e sequenze d'azione sempre chiare e facili da seguire; senza lode e senza infamia la colonna sonora che fa il suo a seconda del contesto. Va da se che in questo tipo di film non è la realizzazione tecnica a farla da padrone agli occhi dello spettatore, quindi ha poco senso essere severi.
Nota a margine: Boyega avrebbe dovuto essere il protagonista, ma giunto alla fine del viaggio non potrei essere più contento di questo recasting. Una delle sorprese più belle dell'anno che avrebbe meritato la sala, ma potete recuperare solo in streaming.
]]>I Winbury, una famiglia idilliaca costellata di artisti, persone facoltose e influencer si riunisce su un'isola nel Massacchussets per celebrare prima il 4 luglio, poi il lancio del libro della matriarca (Kidman) ed il matrimonio di uno dei tre rampolli della famiglia. Quando un lutto improvviso sconvolge i loro piani e la polizia locale inizia ad indagare oscuri segreti vengono alla luce, la famiglia Winbury si scopre meno idilliaca di quanto si crede... e il lutto potrebbe forse non essere accidentale come si crede.
Tratto dall'omonimo romanzo di Hilderbrand e adattata per la TV in una miniserie targata Netflix da Lamia (Resident Alien), lo show salta immediatamente all'occhio per l'incredibile cast di star: Kidman, Schreiber e Fanning su tuttə, che riescono con personaggi affabili, dialoghi contemporanei e sfacciati ad entrare immediatamente in sintonia col pubblico. The Perfect Couple è un mistery thriller che ha il pregio di mescolare atmosfere comedy a drama young adult facendosi scudo di uno dei temi tanto cari agli americani: le dinastie di ricchi bianchi privilegiate costruire su illegalità, dramma, tragedia e menzogne che una volta affermatesi nell'alta società un po' per noia e in po' per attitudine all'eccesso cedono a alcol, droghe e infedeltà. Quasi tutti i personaggi di The Perfect Couple sono sopra le righe, sboccati, e senza scrupoli, non spietati, senza scrupoli: non sono dei veri e propri villain, sono sempre convinti di essere dalla parte del giusto ed essere gli eroi di questa storia pur consapevoli delle proprie imperfezioni; questo crea immediatamente una discrepanza con il contraltare della serie, le forze dell'ordine, che invece rappresentano il pubblico, gli spettatori; la scrittura è un crescendo di rivelazioni e colpi di scena (alcuni telefonati, altri un po' meno, altri ancora... decisamente sensazionalisti e poco plausibili) con occasionali scene d'azione e momenti over the top. Bellezza, sensualità, denaro e potere in questo tipo di storie sono gli ingredienti di maggior successo, tuttavia per quanto godibile e discretamente curato sul fronte tecnico (la sigla d'apertura è deliziosa), basta consumare un po' di TV per rendersi conto di quanta poca personalità lo show abbia: il concept di Harper's Island, lo sviluppo di Big Little Lies e il registro narrativo de The White Lotus sono papabili dalla prima all'ultima scena risultando un po' una fotocopia che sa di già visto.
The Perfect Couple è una miniserie ritmata, scorrevole e godibile, un buon passatempo per il weekend, ma difficilmente si attesterà come una visione memorabile.
]]>Per chi fosse estraneo al genere horror, i "Nun Horror Movies" sono un vero e proprio sottogenere che negli anni si è guadagnato una nicchia nutrita complici film più o meno famosi (The Nun, Sister Death, Bad Nun... ), quindi per quella fanbase le aspettative nei confronti di Immaculate erano piuttosto alte... e mamma mia, che pasticcio ha combinato Mohan.
Il primo atto è sorprendentemente buono sotto tutti i punti di vista: regia, montaggio, ritmo, fotografia, colonna sonora ed interpretazione; il fascino della location e del cast italiano (Tabasco, Di Renzi, Porcaroli, Colangeli) contribuisce con la parlata locale e le inflessioni dialettali a farci sentire aria di casa; e quando si tratta di religione e cristianesimo, il nostro paese -con buona pace, ahinoi, di ciò che dice la nostra Costituzione- diventa spesso il luogo ospite di quelle storie: a seguito della miracolosa sopravvivenza ad un incidente, la giovane suora americana Cecilia (Sweeney) viene chiamata a trasferirsi in un piccolo convento remoto nella campagna italiana. Ben presto lo scenario di questo nuovo inizio si trasforma in una discesa nel terrore di una prigionia, portando lo spettatore a chiedersi cosa avvenga davvero in quel convento e quali siano le reali intenzioni della congrega.
La componente mistery, la tensione ed un'atmosfera thriller che si fa particolarmente vivida con alcune inquadrature suggestive ed ispirate alternate a scene dalla potente carica erotica (mai volgari o esplicite al di fuori di un paio di battute mirate che tendono ad esaltare l'innocenza della protagonista più che votate alla sessualizzazione) contribuiscono a creare dei momenti intensi e riusciti... ma con il secondo ed il terzo atto tutto va scemando per via di scelte di scrittura talmente blande, stereotipate che pigiano il piede sull'acceleratore dei cliché sacrificando veri e propri momenti horror (rovinati anche da una recitazione troppo caricata di Morte, sì, il Professore de La Casa di Carta) e giocandosi completamente l'immersione del pubblico. Ed è davvero un peccato, perché la scena finale rappresenta ad oggi la miglior performance attoriale della -giovanissima- carriera della star di Euphoria.
Cosa mi resterà di questo film?
La faccia tosta del carabiniere italiano ad inizio film che quando scopre Sidney Sweeney farsi suora dice: "Che spreco." Onesto.
Guarda la recensione su YouTube: yt.openinapp.co/beetlejuice2
Fresco di rewatch del primo capitolo esco dalla sala letteralmente estasiato da Bettlejuice Beetlejuice: non solo il film riporta in scena tutti gli elementi del suo storico predecessore ma complice l'esperienza maturata da Burton negli anni impreziosisce la pellicola di nuovi elementi contemporanei assolutamente graditi.
La dipartita di una persona cara (proveniente dall'universo del primo film) diventa il pretesto per riunire questa famiglia disfunzionale composta da tre generazioni di donne toccate -direttamente o meno- dalla maledizione di Beetlejuice. Protagonista indiscussa di questa nuova storia è la Lidia della Ryder: cresciuta come un'adulta problematica e insicura schiava di psicofarmaci a causa della sua innata abilità nel comunicare con i morti. E se ciò che non uccide fortifica, oggi Lydia conduce un programma TV sovrannaturale trash con il suo compagno e produttore Rory, mentre sua figlia Astrid (Ortega) frequenta un liceo privato lontana da lei: del resto quando tua madre non fa che ripetere davanti le telecamere di avere il dono di parlare con gli spiriti e l'unico con cui non riesce a colloquiare è quello del tuo defunto padre, costruirsi una sorta di credibilità rende le cose difficili... a complicare il tutto c'è lo sfavillante Beetlejuice di Keaton che non solo non ha perso lo smalto ma anzi, sembra più in forma che mai. Quale occasione migliore del ritorno della famiglia Deetz a Winter River per trovare una scappatoia dalla caccia della sua prima pericolosissima moglie Delores (Bellucci) assetata di vendetta?
La prima cosa che salta all'occhio in Beetlejuice Beetlejuice è l'ambizione della narrazione: se il canovaccio del primo film era semplice ed elementare ma veniva impreziosito dall'incredibile worldbuilding sovrannaturale e la visionaria realizzazione prostetica, il secondo atto della storia dello Spiritello Porcello ha una macrotrama al centro di tutto (il problematico rapporto della famiglia Deetz) a tantissime sottotrame che riescono, più o meno a porre tutti i personaggi sotto i riflettori trovandovi uno scopo all'interno della storia. Questo per taluni potrebbe risultare un problema visto che in alcuni momenti la pellicola può venire percepita troppo carica o dispersiva, eppure questa è la naturale conseguenza dell'esperienza del regista di Nightmare Before Christmas in televisione, con Mercoledì da cui ripesca anche la sua nuova e giovanissima musa. Ecco perché andrebbe semmai apprezzato come tutte riescano a confluire nello spettacolare epilogo dove si raggiunge il climax. Certo, anche qui sono presenti facilerie, cose che succedono perché sì, eventi fortunati, coincidenze, così come elementi deus ex machina; ma assodato che questo linguaggio surreale, sopra le righe, sarcastico e pregno di eccessi non fosse un problema col primo film perché dovrebbe diventarlo ora? Gli scambi tra i personaggi sono dissacranti e sempre funzionali: la Delia della O'Hara è ancora una volta svenevole e leggera ma con più cuore e consapevolezza acquisendo uno squisito ruolo da matrona; Ryder non è mai uscita dalla parte di Lydia e sembra davvero tanto nel look quanto nelle espressioni e nella gestualità di tornare all'epoca del primo film pur mostrandone un'evoluzione plausibile. Vuole fare la cosa giusta ma si sente sempre sovrastata dalla vita finendo in balia degli eventi; Keaton è superlativo: Beetlejuice è sempre ripugnante, grottesco e disgustoso, ma la sua comicità e presenza scenica sono irresistibili. Plauso anche alle new entry: Ortega è il personaggio più "normale" del film (e forse anche il ruolo più ordinario della sua carriera... quanto è strano che succeda proprio in un prodotto targato Tim Burton?!), ma versatile, dolce e credibile; Dafoe sembra il mix tra una versione esasperata del Cruise di Mission Impossible shakerato al Bronson de Il Giustiziere della Notte, mentre Theroux è talmente patetico e fastidioso da suscitare tanta compassione quanto ilarità. Il cast è quello delle grande occasioni, e complice una scrittura più intelligente, ragionata e complessa di quella del primo film conduce gli spettatori verso un imprevedibile finale in perfetto stile burtoniano.
Tecnicamente Beetlejuice 2 è delizioso: uno sfoggio di clay animation, makeup prostetici, animatronic e burattini talmente curato e prezioso da trascinare il pubblico in un'altra epoca cinematografica, non storicamente così distante da noi, ma lontanissima se pensiamo a quanto la CGI abbia invece preso piede; ottimi anche set, location e costumi. La musica continua ad avere un ruolo fondamentale nella narrazione e torna ad essere grande protagonista in un numero di ballo e canto che complici i passi in avanti fatti sul fronte degli effetti pratici e della tecnologia attuale che facilizza non poco i movimenti di macchina farà felici anche i più nostalgici.
Il ritorno di Burton è fresco, ispirato, malinconico ma mai ridondante, moderno ma sempre fedele a se stesso, e probabilmente complice la nuova linfa vitale ritrovata riuscirà a confezionare tante splendide nuove storie.
"Voglio avere dei ricordi con le persone che amo, piuttosto che essere perseguitata da loro dopo."
]]>Sono passati più di 35 anni da quando Burton presentò al pubblico lo sconvolgente Beetlejuice, un vero e proprio "flex" come direbbero i giovani d'oggi di make-up protestici, effetti pratici e animatronic. Perché diciamocelo, la storia di Beetlejuice è di una semplicità così disarmante che se fosse uscita oggi verrebbe massacrata dagli spettatori più giovani: eventi che accadono a schermo perché sì, elementi deus ex machina che portano avanti la sceneggiatura, personaggi sopra le righe dalle azioni (e reazioni) quasi sempre irrazionali e poco plausibili... ma il carrozzone caciarone pregno di follia e ilarità in cui la vicenda si muove, il registro, il ritmo e l'incredibile identità estetica e stilistica sono così irresistibili e incredibili che lo spettatore decide di chiudere consapevolmente un occhio per godersi il viaggio... e fa bene.
Nel 1988 non c'era niente di simile alla visionaria lettura di Burton: atmosfere gioviali e luminose dai colori sparati degli esseri umani, bellissimi sul fronte visivo ma marci dentro (superficiali, vuoti, attaccati al vil danaro e prive di valori) e il grottesco e disgustoso aldilà per contro simpatici, gioviali e più attaccati alla vita dei vivi stessi. E poi c'è quell'adorabile via di mezzo che il regista adora raccontare: gli "strani", quelle persone affascinate dall'oscurità e dal macabro, che si perdono in pensieri tristi, nostalgici e che spesso cullano nella loro solitudine, loro sono i preferiti del cineasta di Edward Mani di Forbice, perché vi si identifica e intende dar voce a tutti loro con i suoi splendidi personaggi ed attori feticcio (da Ryder a Depp, fino all'ultima Ortega) perfettamente in grado di plasmare i personaggi del Maestro. Ecco perché all'epoca come oggi gli adolescenti si sono sempre sentiti visti e rappresentati dalla sua filmografia, scegliendo di sacrificare cliché e stereotipi per raccontare anche chi viene lasciato in ombra dalla società. Quindi eccoci dapprima rapiti dallo splendido Aldilà pieno di burocrazia, per poi passare all'irresistibile Beetlejuice di Keaton: un personaggio sporco, ipocrita, bugiardo, approfittatore, malvagio e pervertito ma verso cui è impossibile nonostante la presenza disgustosa non provare simpatia. Anche se a schermo succedono cose terribili la resa è sempre leggera, cartoonesca ed ilare nella sua esecuzione, portando lo spettatore più giovane a sentire qualche brivido, ma mai a prendere tutto ciò che succede a schermo tanto, troppo sul serio.
Burton non è per tutti, e a chi non è disposto a scendere a patti con la sua visione d'insieme, i suoi film risulteranno sempre strani, vuoti e pieni di eccessi, ma tutti gli altri non possono che rimanere estasiati davanti una cifra autoriale così unica e particolare da meritare una preservazione ad oltranza. Rewatch obbligatorio quindi, a pochissimi giorni dall'arrivo nei cinema di Beetlejuice Beetlejuice per scoprire come il regista si approccerà a questo seguito: fuori tempo massimo o rinascimento gotico burtoniano? Ci si aggiorna tra un po'.
]]>Scritto, diretto, interpretato e prodotto da Johnson (qui al suo debutto alla regia) Autosufficienza è uno dei film più brillanti e originali degli ultimi anni.
Andy Samberg invita Tommy, un uomo senza amici e senza amore a partecipare ad uno spietato reality game del dark web in cui se riuscirà a sopravvivere un mese agli attacchi di pericolosi assassini vincerà 1 milione di dollari in contanti. Siccome per regolamento i concorrenti possono essere uccisi solo quando si trovano da soli per non compromettere innocenti, Tommy decide di partecipare all'assurda competizione deciso a non restare mai da solo. Se il concept del film non sembra forse così innovativo e interessante (soprattutto dopo il recente Jackpot!), l'esecuzione invece è davvero incredibilmente fresca sovvertendo completamente le aspettative del pubblico, giocando con cliché e stereotipi del genere e passando sempre da un genere all'altro rivelandosi una splendida ibridazione: si passa dalla comedy demenziale al thriller e successivamente alla romcom per poi cambiare ancora... ma sarebbe ingiusto anticiparvi oltre.
Con la scusa del game show, Johnson racconta la solitudine, l'ansia e la paranoia ponendo agli spettatori il dubbio su quello che possa succedere o meno a schermo sia vero oppure no portandolo a chiedersi di chi ci si possa fidare davvero o se il reality stesso esista oppure sia solo frutto della mente di Tommy. Metanarrativo, zeppo di riferimenti alla cultura pop, cameo e con battute intelligenti e fissa tanti il film cambia completamente direzione ogni volta che ci si abitua al ritmo e al registro del racconto riuscendo a creare momenti di forte tensione, tenerezza e dramma.
Sul fronte tecnico Self Reliance è invece molto nella media, quasi televisivo tanto è didascalico, sebbene non stupisca più di tanto visto che nonostante l'esperienza cinematografica Johnson nasce dalla TV dopo per quasi dieci anni ha interpretato Nick Miller in New Girl; non è necessariamente un male questo per chi vi scrive, ma il pubblico più esigente potrebbe restare deluso dall'assenza di azione e spettacolo nel senso più puro del termine, così come l'assenza di guizzi particolari (forse le scene più interessanti sono quelle che mostrano i "ninja"), eppure la corsa vale il biglietto.
Autosufficienza dovrebbe essere visto da chiunque si senta bloccato in un periodo specifico della propria vita, chissà non possa portarlo alla fase successiva.
]]>Mai come con MaXXXine sono rimasto tanto deluso da un film in questo 2024.
La trilogia di West era uno dei progetti più interessanti e freschi che ho avuto modo di vedere negli ultimi anni, X: A Sexy Horror Story e Pearl sono stati sorprendenti, coraggiosi, divertenti e pieni di omaggi e citazioni al mondo del cinema; hanno inoltre avuto il pregio di consacrare ad Hollywood Mia Goth, una vera e propria star dal talento versatile e promettente; quindi le aspettative nei confronti del terzo ed ultimo capitolo della sua storia erano davvero altissime... e purtroppo non sono state ripagate.
Ci troviamo negli anni "80, Maxxxine è famosa per essere diventata una grande star nel settore del cinema per adulti, ma sogna Hollywood. Quando in un provino la sua sfacciataggine e la sua preparazione colpiscono la regista, ottiene il ruolo da co-protagonista di un b-movie horror. Quando finalmente è sempre più vicina a realizzare il suo sogno un misterioso individuo inizia a ricattarla con segreti appartenenti al suo passato. La prima differenza è proprio nell'impostazione del film: lo spauracchio di un serial killer di attrici porno, un misterioso nemico... sono tutti elementi che richiamano maggiormente crime investigativi e thriller più che veri e propri horror. Certo, i due precedenti capitoli non erano horror duri e puri, quanto più film drammatici con sporadici momenti comici (persino sopra le righe), azione slasher e occasionali jump scare, eppure, avevano comunque un fil rouge che qui sembra essersi completamente perso. Lo sfondo in cui le vicende si muovono rimangono sempre affascinanti e di sicuro interesse: la Los Angeles degli anni "80 è piena di sporcizia, spregiudicatezza (ma anche contraddizioni) e viene rappresentata da una fantastica playlist e una fotografia dai colori bruciati, insegne al neon e scritte esagerate -sin dai titoli di testa-; così come i messaggi toccati da West (la sessualizzazione e la mercificazione del corpo femminile su tutte) ed anche le spassionate dichiarazioni d'amore al cinema... ma non bastano a salvare l'esperienza. Mia Goth che è sempre stata protagonista assoluta è adesso sembra quasi una comprimaria rispetto ai ruoli riservati a Debicki (fantastica) e Bacon (che ormai ha preso gusto ad interpretare un villain) decisamente più carismatici e meno macchiettistici. Piacevole vedere anche Esposito in un ruolo sempre mavalgio ma più scanzonato e leggero, sopra le righe, ma per qualche oscuro motivo nel terzo atto tutto precipita in modo clamoroso abbracciando inspiegabilmente una retorica forzata, telefonata e a tratti anche "cheesy" che tradisce non solo lo spirito della saga, ma anche i fondamenti su cui si appoggia il personaggio di Maxxxine.
Sia chiaro, sul fronte tecnico il film si difende bene: regia, performance attoriali, colonna sonora e soprattutto il grande livello del make-up prostetico rendono il film piacevole alla visione, ritmato e scorrevole; ma dopo i precedenti film la sensazione di una perdita generale nella struttura del racconto e la potenza della messa in scena resta palpabile fino alla fine per quella che di fatto è una conclusione fuori fuoco e fiacca rispetto al coraggio e alla provocazione che invece permevano i predecessori di Maxxxine. E se preso a se stante il film è sicuramente godibile, collocato all'interno di una trilogia come ultimo atto deve farci alzare e dire che "non possiamo accettare un finale che non sia degno dei primi due film."
]]>Se vi dicessi che uno youtuber emergente ed una subreddit di nicchia siano riusciti con un meme a trasformare la finanza in quello che è considerato il paese più potente del mondo ci credereste? Perché è esattamente ciò che è successo qualche anno fa in USA, uno scenario così incredibile da andare oltre l'immaginazione tenendo banco per mesi in quella che è stata considerata dagli analisti una vera e propria rivoluzione economica; passando in sordina nella cronaca locale di fronte ad un altro scenario storicamente ancora più importante (l'epidemia di Covid-19), questa storia così assurda ed incredibile è stata immortalata nel film di Gillespie.
Durante il lockdown, Keith Gill conosciuto su YouTube come Roaring Kitty è riuscito a spingere le azioni di GameStop ad un valore fuoriscala grazie ad una subreddit, un'app che permetteva ai pesci piccoli di investire comprando singole azioni e il tamtam sui social. Gradualmente la cosa è sfuggita talmente tanto fuori mano da arrivare a impensierire stampa, media, i miliardari di Wall Street e persino la Casa Bianca. Dumb Money: Non Chiamateli Sprovveduti non fa favori a nessuno: e mescola con intelligenza le performance attoriali del cast a filmati di repertorio con giornalisti, politici e legali che ricostruiscono fedelmente citazioni, momenti salienti, dichiarazioni ed indagini. Il film impiega un po' ad ingranare, nel primo atto infatti la situazione viene presa alla lontana e vengono introdotti tanti personaggi (apparentemente) non strettamente collegati alle vicende del protagonista, concedendosi momenti leggeri scanditi da musica hip-hop e scene leggere al punto da sembrare quasi dispersive e volte ad allungare il brodo. Dal secondo atto il film si trasforma richiamando la scrittura di Sorkin spingendo maggiormente sull'aspetto investigativo quasi documentaristico, con un crescendo di tensione legato da una parte alla "cospirazione" avvenuta dietro le quinte per aggirare il fenomeno, dall'altra suscitando empatia nei confronti delle situazioni umane dei suoi protagonisti a cui lo spettatore irrimediabilmente finisce con l'affezionarsi. Infatti, in quello che di primo acchito può sembrare un film "freddo e complicato" per come affronta tecnicismi e termini finanziari del caso -che vengono comunque spiegati al pubblico- crea nei confronti del pubblico un senso di coinvolgimento: la scoppio della bolla sociale, con i ricchi che diventano sempre più ricchi e i poveri che diventano sempre più poveri porta chi guarda il film a montare un moto di speranza in questa battaglia volta a ristabilire l'ideale giusto ordine delle cose.
Tecnicamente il film ha una regia piuttosto televisiva e dinamica nonostante il tema trattato, un montaggio serrato ed una fotografia curata ed una grandissima performance attoriale in cui spcicano un ispirato Dano, un serioso Rogen ed un sorprendentemente in parte (non posso credere che lo sto dicendo) Davidson. Dumb Money è una di quelle pellicole che anche se non propriamente accessibili riesce ad essere fresca, commerciale ed allo stesso tempo brillante, il fatto che possa ispirare gli spettatori più giovani a ribaltare lo status quo, è solo un valore aggiunto.
]]>Chiudevo la recensione della prima parte di Cosmos dicendo che "per l'atto finale si può e si deve fare di più" ed è stato fatto, eccome. Credo che l'atto finale di Sailor Moon rappresenti tecnicamente parlando il punto più alto ed equilibrato mai raggiunto dal franchise in animazione: riprendendo esattamente da dove ci eravamo lasciati la Parte 2 di Cosmos è totalmente votata e dedicata alla battaglia finale tra Sailor Moon e Galaxia (che non ironicamente rappresenta un po' il Thanos del Sailorverse visto che il primo film di Cosmos ha una chiusura molto simile a quella di Avengers: Infinity War): la narrazione finalmente respira e prosegue in modo più coeso, le interazioni tra i personaggi hanno il giusto tempismo e il climax finale regala alcuni momenti di epicità e di grande pathos.
Il character design è in assoluto il più bello e curato che l'opera della Takeuchi abbia mai avuto, un connubio perfetto tra quello del manga, l'anime storico e il progetto Crystal, un'evoluzione quasi naturale (... che avremmo preferito fosse giunto prima), espressivo, dolce, dettagliato e accompagnato da sequenze d'azione ottimamente animate ed incredibilmente fluide; qualcuno potrebbe aver da ridire sulla tendenza a riciclare alcune scene (trasformazioni e signature moves), ma fa parte del gioco e bisogna imparare ad accettarlo. La regia esalta le sequenze più emozionanti e adrenaliche, mentre le musiche, soprattutto nel terzo atto, accompagnano gli istanti finali scandendone la bellezza e la solennità. Paradossalmente a chi è andato bene il ritmo forsennato di Eternals e la prima parte di Cosmos questa seconda ed ultima potrebbe arrivare lenta e soprattutto fin troppo seriosa (un momento di comicità lungo tutto il film che ruota attorno a Chibiusa), ma trattandosi dell'epilogo ha assolutamente senso questa scelta.
Il sodalizio di Toei Animation e Studio Deen ha dato i suoi frutti, insieme alla regia di Takahashi che finalmente trova la giusta quadra per confezionare un buon film che farà felici i fan delle Pretty Guardian che in passato possono essersi sentiti "traditi" dall'assenza di alcune scene cardine del manga volutamente abbandonate nell'anime storico, qui ripristinate -a questo proposito non chiudete Netflix ai titoli di coda, vi perdereste il VERO finale- e il rimpianto che, con un budget più generoso, maggior tempo a disposizione e più amore nei confronti di Sailor Moon, l'intero progetto Crystal avrebbe potuto essere così sin dal principio... e forse avremmo avuto delle serie TV ad ampio respiro anziché due film.
]]>Nonostante avessi accolto con curiosità ed entusiasmo il progetto Sailor Moon Crystal, sin da subito il prodotto aveva gravi problemi: dal character design sì più simile a quello del manga originale della Takeuchi ma troppo spigoloso e asciutto rispetto a quello con cui ero cresciuto con le serie degli anni "90 di Toei Animation; per non parlare del pacing e della messa in scena di tanti momenti che su carta (e all'epoca anche su pellicola) erano decisamente più epici e solenni di quelli di questo remake. Inoltre con Eternals si era cominciato a cavalcare il trend di condensare lunghi ed articolati archi narrativi in un paio di film che per forza di cose correvano tanto, troppo.
La prima parte di Cosmos continua la correzione estetica cominciata con Eternals, migliorandone ancora di più l'impatto visivo, ma purtroppo commette gli stessi errori di Eternals: nel manga Stars è un saga davvero pregna di nuovi personaggi, rivelazioni, colpi di scena, scontri e mitologia, e in questa Parte 1 bene o male c'è tutto ciò che è importante per comprendere la storia ma per tutto il tempo si ha la netta sensazione di correre disperatamente una corsa contro il tempo per spuntare tutti i momenti salienti da una scaletta compromettendo anche il ritmo del film e la ricezione dello spettatore. Si passa da assistere ad una sequenza emotivamente devastante per poi nel giro di un paio di minuti migrare verso atmosfere più ilari e siparietti comici, i combattimenti sono frequenti ma uno la fotocopia dell'altro: trasformazione della Sailor di turno, colpo speciale, contro-colpo del nemico, fine dello scontro. Ad onor del vero alcune di queste leggerezze sono figlie di un'epoca, quella dei primi anni "90, molto più cheesy, solari e trasognanti, ma in un film dove si corre sempre finiscono inesorabilmente col pesare di più. La regia ha alcuni momenti ispirati ma vengono sacrificati dal ritmo che inesorabilmente ha conseguenze sul montaggio. Questo alternarsi di commedia, dramma, spiegoni ed azioni lampo permea tutto il primo film facendo sì che il pubblico non particolarmente fresco di memoria fatichi ad assimilare tutte queste informazioni e personaggi a schermo.
Un buon lavoro è stato fatto sull'impianto audio, tanto con le musiche (Moonlight Densetsu come apertura è un colpo al cuore) tanto con la localizzazione italiana mai sul pezzo come stavolta per traduzione, adattamento e doppiaggio: suffissi onorifici, inglesismi, tecnicismi e quant'altro ancora vengono mantenuti e potrebbero ragionevolmente infastidire il pubblico estraneo a questo tipo di lettura, tutti gli altri andranno in brodo di giuggiole. In soldoni meglio di quanto fatto con Eternals, ma nell'atto finale si può e si deve fare di più.
]]>Zitta zitta, quatta quatta... in streaming è arrivata una delle commedie più sorprendenti ed originali di quest'anno, che, sorpresa nella sorpresa è diretta da Feig. Sì, lo stesso del rilancio femminile di Ghostbusters, me lo ricordo anch'io, ma dopo questa distopica buddy comedy con due star improbabili secondo me si è guadagnato la redenzione.
In una distopica Los Angeles del 2030 per far fronte ad una nuova grande depressione, nello Stato della California quando viene annunciato il vincitore della lotteria annuale diventa legale ucciderlo entro il tramonto per riscattare il premio prima che l'incassi, senza conseguenze penali sull'accaduto; un'unica regola: niente armi da fuoco. Quando il montepremi più grande che si sia mai registrato viene vinto dall'aspirante attrice Katie (Awkwafina) tutti o quasi si trasformano in potenziali assassini, per fortuna a proteggerla interviene Noel (Cena) agente di protezione su commissione che in cambio di una piccola percentuale del montepremi si assicurerà di proteggere la potenziale vincitrice nelle sei ore che la separano al tramonto.
Il concetto alla base del film è tanto semplice quanto folle... da funzionare terribilmente bene e fungere da apripista per un potenziale franchise: in quella che è una versione comedy de La Notte del Giudizio, in poco meno di due ore si susseguono rocamboleschi combattimenti, violenza, commedia, battute scorrette, colpi di scena e un pizzico di sentimento che riusciranno a tenere incollati gli spettatori fino alla fine. Feig non fa il miracolo, s'intende, non parliamo certo di un titolo rivoluzionario o in grado di diventare un instant cult, eppure il ritmo serratissimo, la grande chimica tra i due protagonisti, una scrittura divertente (e divertita, come i titoli di coda testimoniano) riesce tranquillamente ad intrattenere senza mai annoiare. Una regia dinamica e piena di soluzioni creative interessanti tanto per i combattimenti, quanto per le armi così come per le location degli scontri, la satira sulla società, lo star system e lo scoppio della bolla hollywoodiana, una valanga di guest star e riferimenti pop rendono Jackpot! Se vinci ti uccido un film fresco -e con le temperature di Ferragosto è esattamente ciò che serve-, interessante e anche di fronte a risvolti di trama che risultano telefonatissimi, mai banale.
L'idea alla base potrebbe tranquillamente arricchirsi con nuove regole, escamotage e ambientarsi in altri stati (o paesi, perché no?) portando in scena sempre nuovi personaggi e se con la giusta sceneggiatura ed il cast adatto all'occorrenza, inaugurare un filone action comedy capace anche di catalizzare il pubblico nelle sale. Perché sì, curiosamente la nuova pellicola targata Amazon MGM non debutta al cinema, quando avrebbe potuto tranquillamente guadagnare discretamente al box office in questo periodo non avendo letteralmente nessun altro concorrente.
Jackpot! vi aspetta su Prime, non lasciatelo attendere troppo.
Sono trascorsi sette anni da Alien: Covenant, l'ultimo capitolo della fortunata saga horror creata da Scott, che è stato sì l'ultimo film diretto dal regista ma il secondo in ordine cronologico. E nonostante le (ambiziose) implicazioni filosofiche e sociali alla base del progetto che aveva nelle sue intenzioni rivitalizzare un franchise che forse aveva già detto tutto ciò che potesse dire, non hanno mai ripagato. Quindi ecco arrivare dietro la macchina da presa Álvarez (La Casa) che con Alien Romulus decide di tornare alle origini per guardare al futuro.
Un gruppo di giovanissimi relegato ad una colonia inquinata senza prospettive per il futuro sogna la libertà cercando equipaggiamento in una stazione spaziale alla deriva che si scoprirà essere il nido di un gruppo di xenomorfi. That's it, questa è la trama. Un canovaccio semplice che richiama tantissimo toni ed atmosfere del primo capitolo (non a caso il film si ambienta tra gli eventi del primo e del secondo) e che punta tutto sull'usato garantito: enormi set pratici pieni di cuniculi, tubi e fumo, cyberpunk, animatronic e solo al bisogno CGI. I personaggi, ancora una volta caratterizzati quanto basta al punto da risultare -salvo un paio di eccezioni- monodimensionali cadono come tessere del domino sotto le più disparate minacce: facehugger, acido e xenomorfi, c'è spazio per il confronto tra umani e sintetici e la classica lotta al sistema capitalista e la necessità (e con essa anche lo spauracchio) dell'evoluzione e del cambiamento. In tutto questo non mancano jump scare, morti violente, momenti di ilarità e tenerezza oltre che ai molteplici finali che si susseguono: è finita? Ma finita per davvero?
Quindi Alien Romulus funziona perché anche se prova ad inserire piccole novità qua e là (nozioni che ai nostri vengono date subito, protagonisti young adult, nuove ibridazioni, ecc.) pesca a piene mani dalla nostalgia e dai titoli più amati dalla narrativa semplice scommettendo sul divertimento duro e puro anziché reinventare tutto. Ma siccome Álvarez non è Scott, dove non arriva la visione dell'artista (e artigiano) compensano lo stile emergente figlio dei blockbuster del nuovo millennio: ci sono le fasi stealth, gli obiettivi da raggiungere, gli oggetti di recupero, le armi da sbloccare e alcuni passaggi obbligati che portano avanti la trama come fossimo in un videogame (l'estetica di Dead Space che a sua volta deve tanto a quella di Scott qui si sente tutta) e il fanservice a tutti i passati film della saga per non scontentare nessuno perché i tempi sono passati e bisogna adeguarsi alle mode del momento. Bene così, ma oggi il pubblico è anche più attento e storce il naso quando assiste a reazioni umani non plausibili, colpi di scena tirati per i capelli e risvolti di sceneggiatura inspiegabili (i nostri finiscono su una struttura dall'importanza rivoluzionaria che viene lasciata alla deriva senza che nessuno di coloro che ha investito miliardi provi mai a rintracciarla ed a recuperare i risultati dei suoi preziosissimi esperimenti?) oltre che exploit sensazionalistici nelle battute finali che chi vi scrive deve ancora metabolizzare per capire se li ha apprezzati oppure no. Bravissimi Spaeny e Jonsson il cui rapporto e le dinamiche e chimica a schermo guidano tutto il film, ma a fine corsa per quanto il giro sia stato terribilmente divertente c'è da chiedersi se non sia il caso di sedersi a tavolino e fare una bella manutenzione alla giostra... perché a meno che il seme gettato da Álvarez non venga coltivato da lui o raccolto da qualcun altro, Alien sembra non aver più nulla da dire. E anche qualora qualcuno decidesse di raccoglierlo, il pubblico sarebbe pronto a questa nuova diramazione della saga o l'effetto Prometheus/Covenant è nuovamente dietro l'angolo?
Bene così, Álvarez.
Ma la prossima volta anziché restare sulla difensiva, gioca in attacco.
I'M A STAR!
Il secondo capitolo della trilogia di West è un prequel che ci trascina nel Texas verso la fine della Prima Guerra Mondiale e l'inizio degli anni "20, la giovane Pearl (Goth) rimasta temporaneamente senza il marito partito per il conflitto torna alla fattoria dei suoi genitori dove vive con la rigida madre tedesca ed il padre infermo; mentre vive immersa nella natura e lontana dalla società (per colpa della Spagnola, dilagante all'epoca) pulendo escrementi e facendo spugnature, sogna il mondo del cinema ed una vita fatta di successi e celebrità. Quello che questa ragazza acqua e sapone dal sorriso smagliante cela dentro di se sono tuttavia frustrazione, insoddisfazione personale e professionale che si manifestano previo improvvisi attacchi di cruda violenza che la portano ad uccidere degli animali e fraternizzare con un alligatore. Quando le si palesa la possibilità di fuggire dalla prigione della countrylife per viaggiare in Europa e inseguire il suo sogno la situazione precipita e con essa anche la psiche di Pearl che la fa sprofondare in una spirale di violenza e morte.
Abbandoniamo le atmosfere grindhouse degli anni "70 di X: A Sexy Horror Story, A24 ci trascina agli albori del technicolor, celebra il b/n, ci porta sul set che sembra uscito da Tutti Insieme Appassionatamente con una protagonista che sembra Mary Poppins per ricordarci che niente è come sembra: il cinema è un'illusione, il sogno americano è un'illusione (tant'è che il Superman di Corenswet le suggerisce di migrare in Europa) e la promessa di svoltare la propria vita abbracciando uno star system acerbo e inconsapevole delle proprie potenzialità distrugge le personalità più fragili. Però ci viene anche spiegato da chi Pearl l'ha cresciuta, che per quanto questa situazione possa amplificare la follia, la cattiveria, l'odio e la malignità insite dentro di lei, sin da quando è piccola queste sensazioni abbiano per qualche motivo albergato sempre dentro di lei. Saggio da parte di West preferire mostrare il preludio ad alcune scelte di Pearl e le conseguenze delle sue azioni anziché alla violenza dura e pura che viene sì palesata, ma meno di quanto venga suggerita; questo può sembrare in sottrazione solo in apparenza, in realtà è la dimostrazione di grande amore e conoscenza nei confronti del cinema (del secolo scorso in particolar modo) che consacra Mia Goth in quello che potrebbe essere il suo career role con una performance incredibilmente sentita, versatile e trasversale capace di trascinare il film -e con esso anche il pubblico- fino alla fine.
Prossima fermata, MaXXXine.
]]>È il primo film della Schoenbrun che vedo e ne sono rimasto completamente folgorato: Ho Visto la TV Brillare è un film che può diventare un instant classic se non addirittura una pellicola generazionale per un pubblico di giovanissimi e young adult. Perché quello messo in scena è un coming-of-age che racconta la scoperta e la presa di consapevolezza della propria sessualità e la solitudine del sentirsi incompresi in una società che non è pronta a capirci, una famiglia che non comprende i nostri bisogni e la paura di non riuscire ad esprimersi liberamente morendo nella solitudine più totale mentre si cerca rifugio all'interno della cultura pop, con una serie TV. Potremmo quindi definire I Saw the TV Glow un Donnie Darko (wannabe) Queer. Paragone pretenzioso? Assolutamente, se siete grandicelli e giovani risolti potreste non capire quello che il film intende trasmettere giudicandolo pretenzioso, con poca sostanza e con un finale anticlimatico, eppure nonostante oggettive acerbità, il film compie un viaggio incredibile.
Siamo nella metà degli anni "90, Owen (Smith) conosce Maddy (Lundy-Pane), una ragazza due anni più grande di lui a scuola, mentre legge una guida sulla sua serie TV preferita, Pink Opaque, un teen drama lowbudget molto in voga all'epoca. Lo show diventa la connessione tra due adolescenti incompresi che stanno esplorando la propria natura e imparando a gestire la solitudine nonostante la differenza di gender ed il gap d'età che li separa -due anni soltanto, ma piuttosto significativi nell'epoca pre-social-, entrambi hanno problemi famigliari e d'integrazione e scambiarsi le VHS con le puntate mentre discutono la prosecuzione della serie riesce ad anestetizzare tutto ciò che non funziona. Un giorno Maddy sparisce nel nulla e poco dopo Pink Opaque viene cancellata: il mondo di Owen perde un punto di riferimento dietro l'altro e gradualmente sembra aver dimenticato cosa significhi "vivere" limitandosi ad "esistere", dieci anni dopo Maddy compare con un nuovo aspetto, una nuova identità ed uno sconvolgente segreto.
Ho Visto la TV Brillare è registicamente incredibile: una poesia estetica ed artistica con soluzioni visive creative suggestive e spettacolari, un impiego di neon, effetti a schermo e miscela televisiva (pellicola rovinata, 4:3, audio ovatattato e citazioni al panorama seriale come se piovesse) che vengono impreziosite da moda, colori, linguaggio e musiche tipiche della fine degli anni "90 e l'inizio degli anni "2000, un aspetto grundge dall'atmosfera malinconica e nostalgica che viene valorizzato dai due brillanti interpreti: Smith offre di una delle performance più versatili, sentite e dolorose della sua carriera, ma è Lundy-Pane che cattura la scena ogni volta che compare a schermo, diventando protagonista di uno dei monologhi più rappresentativi della community queer. Di rado capita di parlare di inclusività senza mai palesarlo apertamente ma utilizzando un linguaggio specifico e singoli shot strategici (rendendolo completamente inattaccabile di chi si riempie la bocca a sproposito del termine "woke") dando lustro al malessere dei suoi protagonisti in alcune scene chiave che risultanto tanto potenti quanto efficaci. Tuttavia I Saw the TV Glow gioca molto sull'astratto e la potenza estetica dei suoi simboli rendendo la fruizione della narrazione spesso complessa per lo spettatore passivo ed occasionale, ma anche quello già risolto e lontano dai temi trattati, che potrebbero trovare il titolo pretenzioso, vuoto e ridondante... sebbene, e qui è a loro che mi rivolgo, il film parla anche a voi: siete immobili, fossilizzati su una situazione specifica e non sapete come muovervi? Allora traete insegnamenti dal percorso di Oliver, perché anche "restare fermi" è una scelta... con tutte le conseguenze che comporta.
Un indie psicologico con venature horror che lascia il segno che ci ricorda anche quanto ancora oggi perché cinema, TV, letteratura, fumetto, animazione e videogiochi restino un tassello fondamentale della comfort zone adolescenziale.
]]>Sono un lettore di fumetti, un amante dell'animazione ed un gamer da tempi immemori, ma rimarrò sempre un difensore dell'idea che un adattamento debba essere godibile in maniera indipendente dall'opera originale: quindi sono disposto a tollerare cambiamenti e divergenze in corso di translazione purché l'adattamento funzioni a se stante. Quindi quale testimonial migliore per valutare il film di Borderlands di uno spettatore completamente estraneo al franchise videoludico?
Partiamo col rispondere ad una domanda: Borderlands è così terribile come tutti dicono? Assolutamente no, non è l'orrore che stanno lamentando critica e pubblico del web, che per certi versi è anche peggio: perché un fallimento epocale sotto ogni punto di vista avrebbe scatenato nel pubblico l'effetto "it's so bad, it's so good", invece semplicemente non funziona sotto (quasi) tutti i punti di vista. Il film di Roth è schizofrenico e sbilanciato, la storia è piena di spiegoni che vengono fatti dai personaggi stessi nonostante le azioni accadano su schermo davanti agli spettatori, il cast (ad eccezione di Curtis e Black) è totalmente svogliato e macchiettistico e le loro iterazioni sembrano costantemente forzate, caricaturali e sopra le righe come se fossero consapevoli di essere parte di un racconto di finzione: questo rende più difficile per il gruppo riuscire a fare quello che hanno fatto molto meglio di loro altri rinnegati/underdog quali i Guardiani della Galassia e la Suicide Squad, creare un legame con il pubblico. Eli Roth non è James Gunn -sì, perché quando parlavo di Suicide Squad mi riferivo al secondo film, non certo al primo- e la sua banda di scapestrati non riesce a funzionare allo stesso modo perché le reazioni di chi li circonda non fa capire a chi li osserva quanto siano bizzarri, sfigati e decisamente poco eroici. Non che sul fronte tecnico la situazione purtroppo sia molto meglio: l'azione è coreografata in modo anacronistico e plasticoso, mentre la CGI funziona in diversi momenti e nella resa di alcuni personaggi/creature, ma le ambientazioni sembrano spesso spoglie e vuote, per nulla valorizzate dalla regia talvolta claustrofobica.
Quindi in che modo esattamente Borderlands "non sarebbe un disastro?" Semplicemente perché alcune iterazioni comiche sono genuinamente divertenti, la colonna sonora fa il suo lavoro ed il film ha momenti carini seppur non indimenticabili. Borderlands è un film vecchio nella creazione, la scrittura della storia e dei suoi personaggi, la gestione dei ritmi e dell'azione, un film che a differenza di quelli a cui fa il verso ha un target decisamente più basso e che arriva nelle sale con un ritardo di oltre quindici anni per sconvolgere, sorprendere e sovvertire i canoni del genere che hanno saputo leggere meglio l'epoca in cui si trovavano.
Certo è che a fine viaggio non solo non vorrei un seguito, non mi sento neanche invogliato ad avvicinarmi ai videogame: e quando l'adattamento non invita il nuovo pubblico a recuperare l'opera originale... beh, è un fallimento.
]]>Il cinema vissuto con mantelli e calzamaglie.
Guarda la recensione su YouTube: https://kravenilcacciatore.openinapp.co/recensione
Dovevamo capirlo dal fatto che Sony avesse fatto trapelare online la notizia della chiusura del fallimentare Sony Spider-Man Universe il giorno della vigilia dell'arrivo di Kraven Il Cacciatore nelle sale che avesse smesso di crederci, quando nemmeno lo Studio che ha dato i natali ad alcuni dei titoli più discutibili degli ultimi anni (dalla saga di Venom a Morbius, passando per Madame Web) si affanna a smentire a mezzo stampa il fallimento del suo progetto supereroistico, vuol dire che ormai non importa più a nessuno.
Per questo spiace per Taylor-Johnson, che ci crede disperatamente al punto da risultare il protagonista più carismatico, fascinoso e credibile del suo universo fin qui e Chandor, che qualcosa di carino lo sperimenta pure giocando con l'azione, ma la cruda verità è che questi sono gli unici punti a favore di un film mediocre che fallisce su tutta la linea: e quella che poteva essere una storia accattivante diventa l'ennesimo minestrone action e caciarone che vorrebbe raccontare la storia di una famiglia disfunzionale che alla terapia preferisce un safari di caccia e per cui è impossibile empatizzare con ciascuno dei suoi membri (Crowe ormai alla deriva) le cui azioni vengono spesso messe a schermo in quel modo perché altrimenti la storia non si muoverebbe. Storia che risulta talmente semplice eppur lontanissima dai fumetti, da necessitare di venire annacquata e riempita di lungaggini e depistaggi per riempire un minutaggio che risulta assurdamente lungo.
130 milioni di dollari di budget... e non sentirli. Sul fronte tecnico il film è il punto più basso mai raggiunto dall'SSU: dal montaggio tagliato con l'accetta che spesso muove la narrazione da una situazione all'altra senza alcun filo logico, a stacchi su sequenze action bruscamente interrotte che poi riprendono in altre location lasciando vuoti narrativi enormi; fino alla pessima post-produzione con una CGI criminale: nessuno degli animali a schermo sembra vero, persino il sangue è stato aggiunto digitalmente non sporcando mai corpi e vestiti e restando scollato dalla scena. Le sembianze del villain una volta trasformato popoleranno i vostri incubi... e non nel modo in cui probabilmente gli addetti ai lavori speravano.
Svogliato, lungo, generico e poco ispirato. Così verrà ricordato l'epitaffio dell'universo di Spider-Man di Sony... che per qualche strano motivo, Spider-Man nelle sue storie non l'ha mai voluto.
Sono state molteplici le critiche portate al Venom cinematografico di Sony: l'insensatezza del progetto di portare il personaggio al cinema senza la contrapposizione con Spider-Man,il ritmo esageratamente comico e sopra le righe che fa il verso a Deadpool, la trama piena di forzature e buchi incapace di creare una continuity solida e chi più ne ha più ne metta. Il motivo per cui inizio la recensione ricordando questi elementi è perché ha davvero poco senso andare in sala a vedere Venom: The Last Dance aspettandosi qualcosa di differente da quanto precedentemente raccontato, visto che, con i primi due film della trilogia del Simbionte chiacchierone (capito perché il riferimento a Deadpool? Ecco) di Tom Hardy con buona pace delle critiche e le problematiche del caso -che ricordiamo, sono oggettive e legittime- ha comunque con due pellicole totalizzato complessivamente 1.3 miliardi di dollari a fronte di un budget di 210 milioni, dimostrandosi un franchise solido agli occhi degli spettatori generalisti. Probabilmente gli appassionati del buon cinema (un pubblico mainstream) e dei lettori dei comics (un pubblico di nicchia) si staranno chiedendo come sia possibile, eppure questo è dettato dal fatto che la gente ami riempire le sale spegnendo il cervello, senza porsi domande su cosa funzioni e cosa no, limitandosi a godersi una raffica di azione e battute, e questo Sony Pictures sembra averlo compreso bene.
Venom: The Last Dance fa esattamente questo: continua ad esplorare la tossica relazione "simbiotica" (piaciuta, eh?) tra Eddie e Venom arrivando ad un climax che inesorabilmente non lascia spazio che ad un epilogo definitivo... ma non troppo. Con un velocissimo spiegone d'apertura, il cattivo ci racconta la sua backstory e introduce a suon di retcon gli spettatori al terzo tempo del capostipite dell'SSU: una corsa contro il tempo in cui sono braccati dalle forze dell'ordine, l'esercito, le forze speciali e persino e dei mastini interplanetari per impossessarsi del Codex, una chiave che permetterebbe a Knull, una minaccia di livello Avengers di liberarsi dalla prigionia che lo tiene lontano dalle sue mire di conquiste. Questa fuga è terribilmente dispersiva, al punto che solo il terzo ed ultimo atto smuove la storia a tutti gli effetti, ma arrivati al gran finale l'epicità da last goodbye e il senso di compiutezza non si respirano; Venom: The Last Dance sembra infatti un gigantesco prologo pieno di lungaggini e scene che ai più potrebbero arrivare divertenti, ma, non solo non servono ad approfondire ed evolvere il rapporto tra i due protagonisti, non chiudono neanche la macrotrama lasciando il pubblico a chiedersi quale direzione la storia di Knull potrebbe prendere da lì in avanti e in quali film o serie TV ciò potrebbe avvenire. Tra la 'venomizzazione' di diverse specie animali, tormentoni su calzature, numeri musicali e sprizzi di fantascienza disillusa, il tempo trascorre su schermo con un ritmo sempre sostenuto ma mai realmente giustificato, pieno. Si ha la sensazione che i primi due atti del film siano fortemente riempitivi e con un montaggio spesso discutibile, volto a rinnegare alcuni elementi del primo Venom, cambiarne altrettanti de Venom: La Furia di Carnage, dimenticarsi di alcuni introdotti in Spider-Man: No Way Home e lasciare i fan con più domande che risposte.
Tecnicamente la CGI ha picchi notevoli ed altrettanti decisamente plasticosi, finti e scollati dalle scene; buone le scene in esterna, meno convincenti quelle negli spazi chiusi con un impiego abbastanza insensato del cast corale. Anche Hardy ormai è una macchietta di se stesso: espressioni, postura, camminata si fanno sempre più caricaturiali e finti quasi offrendo una dimensione cartoonesca al personaggio privandolo di una qualsivoglia gravitas drammatica e barlume di realismo, mentre gli omicidi sempre violenti ed efferati ormai sono alla stregua delle esplosioni ACME dei Looney Tunes. Musicalmente il film offre una playlist che pesca a piene mani dagli anni "80 a momenti più contemporanei, ma questo contribuisce a mortificare alcune scene anziché esaltarle, consapevole che ormai il pubblico voglia questo da Venom, e il personaggio non meriti di essere nulla di più. Ed è un peccato, perché nei rari momenti in cui Knull è a schermo non solo pare estremamente fedele ai fumetti Marvel, ma riesce anche a comunicare terrore... peccato che, in questa storia scritta a quattro mani che porta anche la firma dello stesso Hardy, dal finale sbrigativo, veloce ed anticlimatico Venom sembra chiudere il suo percorso nel Sony's Spider-Man Universe in sordina, quasi sottovoce, quando invece i Marvel Studios facevano riecheggiare il ferro forgiato da Tony Stark.
Portafogli alla mano si chiude un capitolo importante per Sony. Misteriosamente però sembra la prima a disinteressarsene.
Il pubblico è terrorizzato dalle canzoni nei film.
Fa sorridere vedere quante persone ogni volta che Phoenix e Gaga iniziavano a cantare sbuffavano alzando gli occhi al cielo per poi rimanere svegli fino alle due di notte con la bava alla bocca ogni santo anno nel seguire quotidianamente il Festival di Sanremo. Eppure questo la dice lunga anche sulla conoscenza del pubblico mainstream nei confronti dei musical perché... Joker: Folie à Deux non è un musical, e ritenerlo tale sarebbe un grave errore. O almeno non lo è nel senso tradizionale, canonico e stretto del termine: i numeri musicali spesso sono privi di metrica, non sono catchy, memorabili, non c'è il tormentone da parodizzare, durano pochissimi minuti (il pezzo più lungo non supera i 4), capita sfocino nel voiceover finendo come soundtrack del film che prosegue la sua narrazione parlata e solo in tre occasioni su undici momenti (su un totale di 140 minuti si canta sì e no poco più di 20, vi sembravano di più? Fatevi due domande) i personaggi hanno costumi e set dedicati venendo trasportati in una dimensione alternativa al mondo vero e proprio, quello della loro immaginazione, o meglio ancora... della loro psiche. Perché la musica gioca un ruolo fondamentale nella pellicola: ad Arthur (Phoenix) viene introdotta quando conosce Lee (Gaga) e da quel momento in avanti viene utilizzato come linguaggio di seduzione, corteggiamento ma anche salvavita. I personaggi comunicano attraverso la musica quando sono insieme e vi si rifugiano come un nido quando sono soli; a differenza dei musical per altro non lo nascondono mai: i personaggi accanto a loro li vedono cantare ed in una scena si protrae come un'infezione, diventando persino un moto di ribellione da accompagnare alla violenza... ma non è un musical, e, se dobbiamo accettare che lo sia allora possiamo asserire si tratti di un musical post-moderno che rivoluziona il genere, ma sarebbe pretestuoso. E siccome nel primo film la musica ha accompagnato alcune delle scene più iconiche (dalla comparsa del makeup alla ballata sulla scalinata), il fatto che i personaggi passassero dall'ascoltarla a cantarla in prima persona ne rappresenta la naturale evoluzione.
Il film inizia con un corto animato in 2D che celebra i Looney Tunes (del resto rimaniamo in casa Warner) e ci rivela già quale sarà il tema del film, preannunciandoci anche i risvolti del finale: Joker è l'ombra di Arthur, reclama la sua popolarità al punto che il clown desidera voler prendere il sopravvento nei confronti del timido, impacciato e danneggiato uomo, sostituendosi a lui. Ma quale dei due è una maschera, Arthur o Joker? Il pagliaccio si è liberato dal guscio mite dell'uomo reclamando tutto il tempo che non ha potuto vivere imprigionato da qualche parte nella sua mente, oppure è semplicemente un personaggio che serve finalmente a metterlo sotto i riflettori dandogli tutte le attenzioni che la società non gli ha concesso? Chiave di volta per far comprendere al complesso protagonista di Phoenix la verità è il rapporto con Lee: sensuale, pericolosa, istintiva, bugiarda e a sua volta danneggiata. Due persone la cui follia permette di alimentarsi a vicenda in una spirale di narcisismo tossico e violento, troppo da sopportare per una città al collasso come Gotham. La stessa Gotham che è spaccata in due tra chi condanna le azioni efferate in diretta TV di Joker chiedendo a gran voce la sedia elettrica e chi invece lo considera un affronto al potere, il grido del poveri (e la vittoria del popolismo) in quello che inizialmente si presenta come Un Giorno in Pretura ma poco alla volta si trasforma in Forum.
La chimica tra le due star è folle e trascina il film in una produzione di alto livello premiata da una composizione delle scene curata tanto nelle luci quanto nei colori, così come da trucco e parrucco ispirati che di tanto in tanto strizzano l'occhio ai fumetti. Ovviamente è la colonna sonora a rubare tutta l'attenzione soprattutto nei rimandi musicali al primo film e in linea generale alla ricerca di una musica nostalgica, perché se la tecnologia richiama la fine degli anni "80 e la metà degli anni "90, musicalmente il film scava ancora più a ritroso nel passato.
Quindi che cosa non ha funzionato in Joker: Folie à Deux per risultare così divisivo? La scelta di continuare ad allontanarsi dai fumetti, forse? Premesso che se si sta guardando un sequel questo dovrebbe già essere consolidato dal primo film (che è lo stesso motivo per cui possiamo dire alla trilogia del Venom di Sony che è brutta, ma lamentarsi che sia più simile al Mercenario Chiacchierone che al Simbionte dei fumetti arrivati al terzo film lascia esattamente il tempo che trova: incassi alla mano, "squadra che vince..."), non è neanche propriamente vero perché giunti al finale succede qualcosa di potenzialmente importante per il 'JokerVerse'; allora il fatto che il finale ribalti le aspettative del film? Probabilmente, ma non è un epilogo che esattamente come il primo film punta il dito contro la società ipocrita e fautrice di mostri? Quindi il fatto che arrivi un sequel di cui non c'era realmente bisogno? Ci può stare, ma questo discorso non vale anche per tantissimi altri prodotti, soprattutto sul fronte dei cinecomics? E quindi si torna alle canzoni, e a quel voler provare a pensare che il linguaggio scelto per raccontare questa storia piena di svolte a sorpresa e turning point fosse troppo lontano dal primo film e che le nostre aspettative non fossero state ripagate. Ma la verità è che tutte queste cose possono risultare un ostacolo alla visione a seconda della sensibilità dello spettatore di turno; per quanto mi riguarda tuttavia non lo hanno rappresentato, e, se possibile, ho apprezzato questo film ancora più del primo.
"That's Life..."
I Marvel Studios ci hanno mentito ancora: dicevano Deadpool & Wolverine non sarebbe stato un Deadpool 3, ma Wolverine in questo film è meno protagonista del Mercenario Chiacchierone; dicevano che questo film in una scala da 1 a 10 avrebbe impattato 8 sul futuro del Multiverso, ma non viene fatta menzione della grande minaccia della Saga del Multiverso (Kang), e a fine del viaggio non si imbocca nessuna strada verso i prossimi film di Avengers: Kang Dinasty (si chiamerà ancora così? Boh) e Secret Wars, al punto da sembrare quasi una pellicola stand alone. Consolidato che a furia di stare in Disney Feige sia sempre più simile a Pinocchio, com'è il film? La risposta breve è che quello che Spider-Man: No Way Home ha fatto per Sony, Deadpool & Wolverine lo fa in maniera più curata ed attenta per (la fu) 20th Century FOX, ma se state leggendo queste righe siete qui per la risposta lunga, vero? Mettetevi comodi.
Quello che vedrete al cinema è il racconto di due underdog: il buffone che non viene mai preso sul serio finendo escluso dagli altri risultando inaffidabile quando la posta in gioco si alza, ed il lupo solitario che ostinandosi a non fare gruppo finisce col non essere presente nel momento in cui c'era più bisogno di lui, si ritrovano uniti in una corsa contro il tempo che potrebbe (condizionale d'obbligo) salvare l'universo di uno e sovvertire le azioni dell'altro. Inesorabilmente questa corsa contro il tempo che ben presto assume le connotazioni di un road movie scandito da una colonna sonora vorticosa, rockeggiante, pop e frizzante porterà i due protagonisti agli antipodi, il Rosso e il Giallo, a scontrarsi, aprirsi, confidarsi e stabilire un legame. Esattamente come nel sopra citato terzo capitolo della prima trilogia dedicata all'Arrampicamuri di Holland, la trama di Deadpool & Wolverine non brilla di chissà quale originalità: si riprende un concetto esplorato nella serie TV di Loki e in maniera piuttosto pigra lo si allarga oltre ogni modo -incuranti di ogni coerenza e buco di trama del caso- per trascinare Wade e Logan da una parte all'altra un McGuffin dopo l'altro senza una particolare logica narrativa. Una sfilata di cameo e la potenza della meta-narrativa muovono i nostri protagonisti da un punto all'altro portandoli ad incontrare glorie del passato in scenari improbabili ed una villain problematica, ma quale cattivo Marvel in fondo non lo è? Deadpool & Wolverine è un'esperienza narrativa veicolata prevalentemente dal mattatore Reynolds che in questo film porta a schermo letteralmente qualsiasi cosa desideri... e desiderano i fan del Mercenario Chiacchierone: rottura della quarta parete? C'è. Violenza esagerata? C'è. Volgarità, parolacce e battute efferate? Le troverete. Il film è talmente meta-narrativo anche nel suo fanservice e negli inside joke che vuole proprio accontentare tutti: le cariatidi come il sottoscritto avranno la lacrima facile nel ritrovarsi certi volti a schermo e scorrere QUEI titoli di coda, i più piccini cresciuti a pane e meme invece troveranno tanta cura ed attenzione nei temi trattati dallo humor nel film che si sentiranno quasi spiati. Nonostante il film peschi a piene mani dal passato MCU (e persino prima) non è indispensabile aver visto nulla per entrare nel mood perché ciò che vi serve sapere viene spiegato ai nostri eroi e di conseguenza anche al pubblico in modo piuttosto raffazzonato e furbo: del resto meno informazioni hai, meno possibilità hai di notare ciò che non torna... perché il focus del film è la rivalsa, la riabilitazione e la presa di coscienza reciproca delle due star, rappresentando la chiusura ideale di un cerchio per l'abbraccio di un altro.
La chimica sul set tra Reynolds e Jackman è palpabile: i due sono grandi amici nella vita vera e questo traspare anche durante tutti i momenti che condividono a schermo insieme, assolutamente in parte anche la Corrin nei panni di Cassandra Nova, un personaggio scritto e portato in scena in modo schizofrenico, ma la rappresentazione dei suoi poteri è tanto funzionale quanto inquietante. Tecnicamente il lavoro fatto qui è decisamente più pregevole di quanto fatto con No Way Home, soprattutto sul fronte della regia e della CGI: i combattimenti diretti da Levy sono ben coreografati, spettacolari, violentissimi ma sempre comprensibili, un uso eccessivo di slow motion spesso finisce col diventare ridondante, ma in linea generale gli shot che portano a schermo la manifestazione dei poteri e di Alioth è sempre di livello. Salvo in un paio di momenti il film sembra muoversi in maniera furba in ambienti vuoti e asettici, probabilmente perché la quasi totalità del budget è stata investita nel riportare in scena un cast stellare. Plauso anche al reparto costumi: il Wolverine di Jackman è spettacolare ed è un sogno bagnato che si avvera su schermo.
Chi cerca solo azione sanguinolenta, umorismo sguaiato, atmosfere caciarone e fanservice a go-go probabilmente uscirà dalla sala entusiasta, chi ha mal digerito Spider-Man: No Way Home probabilmente questo film lo odierà perché ha gli stessi pregi e... gli stessi difetti, ma la verità è che Deadpool & Wolverine è un giocattolone, un grandissimo carrozzone di leggerezza, celebrazione del retaggio della Marvel targata 20th Century FOX e spensieratezza; penso che, per alcune delle star del Marvel Cinematic Universe rappresentasse anche una sorta di "valvola di sfogo." Però tolti il cuore, la percezione soggettiva e il personale coinvolgimento suscitato da questi personaggi ed il loro trascinante carisma, il cinema è e resta un'altra cosa, e se c'è una cosa che questo film ha dimostrato è che non fosse il target di riferimento il problema: un linguaggio e dei contenuti più adulti non comportano per forza di cose una sceneggiatura più coerente, coesa e funzionale.
Deadpool & Wolverine sarà un successo commerciale? Assolutamente sì.
È il film che salverà la Marvel? Assolutamente no.
Una bella esperienza, non un buon film.
Con un charter design deforme e sproporzionato e delle animazioni 2D dai colori e l'aspetto ricercato arriva un film natalizio dedicato al Cavaliere Oscuro... o meglio, a suo figlio. Merry Little Batman è un'action comedy che parla ad un pubblico terribilmente giovane (parliamo proprio di bimbi), sebbene il registro di alcune battute e gag, così come di reference ed easteregg si rivolgono ad un'audience di grandicelli, e forse proprio per questo si presenta come il perfetto film per famiglie se il pargolo di casa ama i supereroi.
Il film introduce alcune meccaniche nuove ed interessanti al mondo di Batman: una Gotham solare e priva di crimini, un Batman più dolce, coccolone, apprensivo e leggero che sembra aver lasciato nel passato rabbia, tormenti e frustrazione complice la paternità, una rogue gallery invecchiata ed al contempo ammorbidita ed un messaggio brillante e sagace che svecchia una tematica abusata ma sempreverde, cosa significhi essere un eroe.
La pellicola è purtroppo vittima di alcune linguaggini come un prologo interminabile ed alcune reiterazioni che rischiano di stancare gli spettatori più navigati, ma ai piccoli tutto ciò non peserà e per Natale vi paleseranno il desiderio di ricevere una bat-cintura sotto l'albero.
The Marvels che in Cina è stato pubblicizzato come Captain Marvel 2, doveva vendersi nel resto del mondo come Ms. Marvel & Co. Per fortuna c'è Iman Vellani, cuore del film che con passione, amore, e una performance irresistibile presta voce alle fangirl adolescenti cresciute a pane ed MCU (o a comicbook, tanto meglio) ruba la scena ogni volta che è a schermo, diventando la grande mattatrice della pellicola. Viene corretto il tiro su Brie Larson: qui meno antipatica, più goffa, socievole e divertente... senza però alcuna motivazione logica per subire quest'evoluzione proprio come successe a Thor, Loki & tutta la combriccola dell'Asgard cinepanettonesca; Monica invece è il personaggio più equilibrato del trio, ma esattamente come Kamala spunta dall'universo televisivo streaming e di conseguenza lo spettatore cinema-only potrebbe sentirsi spaesato dal loro debutto sul grande schermo che viene spiegato frettolosamente, sommariamente e pure male. The Marvels non sa cosa vuole essere: un action? un dramedy? una comedy? La direzione di Nia DaCosta è confusa al punto che, se paragonata ad altri titoli della regista viene spontaneo pensare qualche produttore vi abbia interceduto mettendo del suo: c'è un momento emotivo ma viene liquidato subito, abbiamo un momento musical con più brani, eppure nessuno supera il minuto (e nell'edizione italiana ha pure una metrica discutibile), si parla di sviluppo dei personaggi eppure le relazioni vengono tagliate con l'accetta: solo l'azione funziona complice l'ottimo concept -eseguito male- alla Quel Pazzo Venerdì, anche se a differenza di Freaky Friday non ci si scambia di corpo, ma di posto, e la sua freschezza brilla nelle coreografie dei combattimenti quasi sempre all'altezza della situazione... mica come la CGI. Sigh.
Il montaggio è confuso nel primo e nel terzo atto, rende complessa la giusta comprensione della scansione temporale nel prologo, e abbastanza buffo nel teletrasporto di Carol verso l'epilogo; il villain non esiste più del solito e i comprimari sono talmente fastidiosi che non si capisce perché Fury (qui inspiegabilmente leggero e zuzzurellone nonostante gli eventi di Secret Invasion) non li rimetta a posto, visto che non si rendono utili e non s'integrano alla trama come faceva la famiglia Reyes di Blue Beetle. Ormai sembra si vada in sala solo per la promessa di qualcosa che potrebbe arrivare in futuro tramite le post-credits, e anche lì c'è un problema ancora più grave con cui misurarsi, perché: se non avete visto (e non avete intenzione di farlo in futuro) le serie TV Marvel Studios su Disney+ questo universo non parla più a voi; se non avete visto tutti i film supereroistici antecedenti alla nascita dei Marvel Studios (e non avete intenzione di farlo in futuro) questo universo non parla più a voi.
Marvel ha cambiato le regole ed il patto di fiducia stipulato col pubblico nel lontano 2008, ed "it's all connected" ora pare una minaccia.
Che esperimento strano questo Blue Beetle: è un film per famiglie che sembra uscito direttamente dagli anni "90 per umorismo, colori, scelte stilistiche e musicali, ed al contempo è qualcosa di completamente fresco e nuovo nella gestione famigliare del personaggio. La pellicola di Soto è terribilmente derivativa, soprattutto se siete cresciuti a pane e cincomics: ritroverete infatti toni, registro e situazioni di Spider-Man, Iron Man ed Ant-Man, ma allo stesso tempo anche Tron e Transformers; eppure in mezzo ad un racconto d'origini piuttosto blando, semplice e prevedibile che nel suo essere datato poteva benissimo funzionare collocato all'interno delle prime tre fasi del Marvel Cinematic Universe qualche anno fa, ci sono due fattori decisamente inediti e riusciti in modo unico che accompagnano lo spettatore dall'inizio alla fine dipingendogli sul volto un sorriso genuino: la famiglia e la cultura etnica/esotica che inesorabilmente funzionano così bene proprio perché intrecciati per tutta la durata della pellicola.
La famiglia è stato un elemento fondamentale in tanti film e serie TV Marvel tanto nella sua forma tradizionale (Ant-Man, Ms. Marvel) quanto disfunzionale (The Avengers, Guardiani della Galassia), così come in casa DC (Shazam!), eppure se in questi prodotti i famigliari erano comprimari o macchiette senza un vero e proprio scopo e sviluppo all'interno delle vicende, la famiglia Reyes accompagna Jaime per tutta la durata dell'avventura mostrandosi non solo il motore portante della storia ma anche una chiave di volta fondamentale per il viaggio dell'eroe, quasi fossero un'estensione del protagonista (un ispirato e totalmente in parte Xolo Maridueña) più che dei veri e propri comprimari. E a questo fa gioco forza la cultura latina che accompagna i Reyes: anche qui abbiamo già avuto altri casi simili (Shang-Chi, Black Panther, Ms. Marvel, Moon Knight...) ma mai come in questo caso da un punto di vista di reference, cultura pop, tormentoni, comportamenti, atteggiamenti e colonna sonora, il Messico respira a pieni polmoni venendo rappresentato nel cuore, nello spirito e nelle tradizioni in modo eterogeneo e funzionale. Un esempio di inclusione ben strutturato ed amalgamato alle funzionalità della narrazione al punto da lanciare a più riprese velati messaggi politici e sociali legati ad alcuni territori latini (Cuba e Guatemala su tutti).
Ed ecco perché al netto di tante ingenuinità, errori, e problematiche tipiche di film dell'epoca mi è proprio difficile voler male a Blue Beetle: perché tolto il monumentale Guardiani della Galassia Vol. 3 il debutto in sala dello Scarabeo Blu ha più cuore e coerenza di quasi tutto ciò che è stato sfornato dalla Casa delle Idee nell'epoca post-Endgame ad oggi. C'è spazio a citazioni allo storico di Blue Beetle così come a supereroi preesistenti di casa DC (Superman, Batman, Flash) e niente che lasci suggerire in modo inequivocabile che questo film si inserisca nel fu DCEU, al punto che potrebbe tranquillamente collocarsi nel prossimo DCU di Gunn e Safran.
Lo humor è sfacciato, all'occorrenza scurrile e malizioso con battute e riferimenti sessuali comprensibili solo ai più grandicelli, le atmosfere comedy in un paio di momenti sforano in un dramma inaspettatamente pesante e dalle ripercussioni mature, mentre la colonna sonora va a pari passo con la fotografia: quando il filtro caldo tipico delle atmosfere messicane ha la meglio arriva una fusion di salsa e pop latino, mentre quando vivono font e colori purpurei tipici anni "80, la musicalità lascia spazio al synthwave e al citypop. Discreti gli effetti visivi e molto buoni in più di un'occasione, incerti e quasi videoludici purtroppo in altre.
Per quanto mi riguarda dopo l'addio di Gunn a Starlord & co. e lo splendido Spider-Man: Across the Spider-Verse, Blue Beetle supera il Velocista Scarlatto e il fu Capitan Marvel (non quella di Brie Larson) e sale sul podio come miglior prodotto supereroistico del 2023 con una meritata medaglia d'argento. Se i prossimi film Marvel fossero su questa falsariga sarei un po' più ottimista sui prossimi titoli della Fase 5.
Dopo quasi una decade di gestazione ci si aspetterebbe da The Flash possa essere una pellicola salvifica nei confronti del DCU, e invece, sbaglia quasi tutto ciò che potrebbe sbagliare sembrando un film cristallizzato nel tempo... nella peggior accezione possibile.
Dopo alcune sequenze aberranti tanto nella scrittura (la scena dell'ospedale) quanto nell'esecuzione e nella CGI (la Speed Force sembra uscita da un videogame PS2) che insieme una sequela infinita di gag confeziona un prologo lungo un'ora, la trama decolla circa a metà film. La fase centrale è sicuramente la più interessante perché in mezzo al caos di Flash arriva la lucidità di Batman e con un ibrido tra quanto visto nell'omonima serie TV con protagonista Grant Gustin e quanto narrato sulle pagine di Flashpoint, il Multiverso viene introdotto, affrontato e spiegato in modo fresco e con una feature inedita rispetto le pellicole MCU. Il problema è che nel terzo atto una minaccia con lo spessore di uno spillo ed un reiterarsi di scene d'azione coreografate davvero male conducono lo spettatore ad un inevitabile confronto con Spider-Man: Across the Spider-Verse, uscito solo pochi giorni fa, e vincitore su TUTTA la linea.
Ezra Miller torna a vestire i panni del Velocista Scarlatto nella sua versione peggiore: quella isterica, logorroica, fastidiosa e piena di tic di Whedon, e Muschietti sembra essersene reso conto visto che lo fa notare anche a Barry una volta interfacciato al suo doppio. Ogni iterazione è caricata tanto dal punto di vista espressivo quanto da quello fisico generando una quantità abnorme di gag irritanti ed infantili. Molto meglio quando il personaggio assume connotazioni drammatiche ed abbraccia maggiormente la sua sfera emotiva.
Ma quindi tutto da buttare?
Assolutamente no. La performance di Michael Keaton da sola vale il prezzo del biglietto (e della terza stella di questa recensione): un Batman fumettistico e nostalgico che enfatizzato dai nuovi arrangiamenti della storica colonna sonora ruba la scena ogni volta che compare. Buona anche la Supergirl di Sasha Calle che avrebbe meritato più screentime, e il Bruce Wayne di Affleck, qui al suo picco ("Non che ci volesse molto visti i precedenti" direte voi, ed avreste pure ragione). Sul fronte narrativo il plot twist del terzo atto arriva a sorpresa ed anche in modo piuttosto riuscito ed apprezzabile, ma non è niente che la già citata serie di The CW non abbia fatto, e pure meglio.
La scena più bella? I titoli di coda.
E non sto scherzando.
Guillermo del Toro a più riprese sottolinea che l'animazione non sia un "genere" bensì uno "stile", una "tecnica" e che a prescindere da quale si scelga e venga applicata le storie che racconta possono giungere anche ad un pubblico di adulti: ed è esattamente ciò che succde con Spider-Man: Across the Spider-Verse, la pellicola dalla trama più completa, ricca, curata, articolata e meticolosa che l'Arrampicamuri abbia mai avuto.
Profondamente interconnesso a Un Nuovo Universo, Across the Spider-Verse è un film che sorprendentemente riesce a nascondere dalla campagna marketing una grossa sorpresa: il fatto che abbia due protagonisti. Buona parte della pellicola è infatti raccontata e vissuta dal punto di vista di Gwen (qui Spider-Woman) che ci trascina sulla sua Terra e ci rende partecipi della propria versione della "maledizione" di Spider-Man, una sorta di rito di passaggio contrassegnato dal dolore e dalla perdita che è impossibile da evitare e consacra tutte le Spider-Persone al loro destino, e che, parafrasando la profonda identità fumettistica del supereroe Marvel viene chiamata "Canone"; tutto ciò che vi differisce rischia di far collassare l'universo in cui la storia si muove, portando inesorabilmente alla sua cancellazione dal piano esistenziale. Ed è su questo perno che parte la storia di Miles, l'anomalia in questo schema deciso sì a salvare la sua Terra e il Multiverso tutto, ma non sacrificando i propri affetti.
Across the Spider-Verse è una pellicola prolissa, matura e piena di umanità, portando allo spettatore una platea di personalità memorabili, tridimensionali ed umane con cui è impossibile non empatizzare. Il racconto meta-fumettistico fatto di baloon, onomatopee, riquadri di dialogo e vere e proprie copertine di spillati qui funziona ancora meglio che nel primo capitolo complice il fatto che Lord e Miller ormai più navigati che con il primo film, si siano sentiti maggiormente a loro agio con il Multiverso, inserendo persino intermezzi in live action. Una tecnica visionaria che mescola insieme diversi stili, tecniche di disegno, pittura e colorazione tra passato, presente e futuro strizzando in particolare l'occhio agli action anime più recenti trascina lo spettatore in un caleidoscopio di emozioni e sequenze spettacolari, settando l'animazione verso nuovi standard visivi e ponendo questa pellicola in poleposition ai prossimi Oscar. Sorprende vedere una ricercatezza ed una sperimentazione simile dopo un solo film con l'attuale motore grafico impiegato da Sony in questo sequel soprattutto se pensiamo al suo budget: "appena" 100 milioni rispetto a blasonate pellicole Disney/Pixar che spesso arrivano a raddoppiare generosamente questa cifra. La regia premia questo coraggio con movimenti di macchina talmente precisi, ispirati ed al contempo mirabolanti sorprendendo e sovrastano di continuo il pubblico con la mole di dettagli presenti a schermo e MAI lasciati al caso (per cogliere tutti gli easter egg saranno necessarie più visioni), plauso anche alla colonna sonora epica e dalle tinte elettroniche per quanto concerne le score originali composte da Pemberton così come i numerosi pezzi hip-hop capaci di definire maggiormente la natura newyorksese del film, esaltando la vita urbana di Brooklyn.
Spider-Man: Across the Spider-Verse è un kolossal animato superiore in termini di pathos, gravitas drammatica, scrittura e coinvolgimento ad un altro cinecomic Marvel, Avengers: Infinity War, con cui condivide il cast nutrito e l'insolita scelta di chiudere con un cliffhanger. Scegliere di dividere la trama in due film è una mossa intelligente perché così facendo si ha la sensazione che nel final cut non si sia sacrificato nulla dello script originale al punto che l'intero primo atto rappresenti solo l'introduzione a questa enorme storia. Con una sceneggiatura così profonda e sfaccettata, dei personaggi incredibilmente realistici (tra cui annoveriamo le riuscite new entry di Spider-Man 2099, Spider-Punk e The Spot, un nemico irresistibile tanto nella scrittura quanto nelle movenze), il film non solo rappresenta la storia più adulta mai riservata al cinema al personaggio dell'Uomo Ragno, ma anche uno dei migliori cinecomic mai fatti che farà la felicità di chi questo filone non l'ha mai digerito ma soprattutto di chi ama l'animazione, qui in una delle sue forme di massima espressione.
Ah, nessuna scena post-credit, ma restate comunque seduti ad ammirare e godervi i suggestivi titoli di coda, mi ringrazierete.
Guardiani della Galassia Vol. 3 non solo è uno dei migliori film targati Marvel Studios (e solo Kevin Feige sa quanto sia indispensabile arrivi proprio adesso, nel culmine della superhero-fatigue) ma anche uno dei cinecomic più riusciti di sempre.
L'epitaffio di James Gunn all'MCU rappresenta un viaggio catartico all'interno del team di antieroi più scapestrato di sempre capace di unire con una doppia narrazione condotta su binari paralleli tra passato e presente dramma, viaggio dell'eroe, commedia, sentimento e lacrime. Ognuno dei Guardiani gioca un ruolo fondamentale ed ha il suo momento per brillare portando in scena l'epilogo più soddisfacente di una trilogia Marvel, le new entry sono già memorabili: l'Adam Warlock di Will Pouter è un Superman che non ci ha creduto abbastanza ma quanto basta per far breccia nel cuore del pubblico, mentre l'Alto Evoluzionario nonostante risulti macchiestico e sopra le righe, si palesa come il villain più crudele e spietato visto fin qui. Sarà perché è un film di eccessi quanto? Volgarità e violenza la fanno da padroni, certo, sempre paragonati agli standard family friendly targati Marvel, ma sembra che l'esperienza sul set di The Suicide Squad abbia aiutato. A questo proposito gran parte del lavoro lo fanno la regia sempre ispirata, fresca, dinamica e frizzante che ci regala il più spettacolare combattimento in piano sequenza mai visto fin qui, e una colonna sonora spaziale capace di esaltare ogni singolo momento. Ottima anche la CGI che solo in un paio di sequenze vacilla, per poi affilare gli artigli dall'inizio alla fine.
Guardiani della Galassia 3 non è un film perfetto, ma ha talmente tanto cuore e funziona sotto ogni punto di vista che quello che non va sono sbavature tranquillamente dimenticabili davanti ad un finale emozionante, sorprendente, soddisfacente ed appagante.
Grazie, James Gunn.
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]]>La magia secondo la Casa di Topolino & affini.
Se negli anni "90 eravate dei bimbi ricorderete bene la tendenza Disney dell'epoca di prendere grandi classici d'animazione che hanno sbancato al box office per spremerli come limoni tramite film dedicati al mercato homevideo o serie per il piccolo schermo, il cui scopo fosse esclusivamente vendere nuovo merchandise ispirato alla licenza originale. Questi progetti di norma erano noti principalmente per due motivi: il primo era il drastico calo qualitativo (dovuto alla riduzione del budget per la diversa distribuzione), il secondo era l'idea di espandere la mitologia ben oltre la storia originale introducendo nuovi personaggi che potessero offrire trame collaterali ad ampio respiro ma spesso molto meno impattanti dei titoli originali. Ecco, Moana 2 è vittima dello stesso processo contestualizzato però all'epoca moderna: quindi ecco avere un cast corale talmente poco approfondito da essere persino celato in corso di campagna marketing ed una storia televisiva con delle sottotrame che non grida solo "ehi, sono una serie TV!" ma sfacciatamente rincara la dose aggiungendo "E sono solo una prima stagione!" Fortunatamente sul fronte tecnico il discorso cambia drasticamente con un glowup letteralmente a qualsiasi aspetto (meno quello musicale, ma ci ritorneremo) al punto da risultare forse il più bel e curato film Disney da qualche anno a questa parte, in grado di rivaleggiare con la sorella Pixar. La vera domanda è: sarà sufficiente a salvare il tutto?
Oceania 2 riprende da dove si era concluso il primo film, con Vaiana ora navigatrice esperta e prossima ad assumere un incarico importante. Proprio durante la cerimonia di iniziazione la ragazza ha la visione di una profezia futura... una missione da compiere che la porterà sostanzialmente a fare esattamente la stessa cosa che ha fatto nel primo film: lasciare la sua terra natia per imbarcarsi in un viaggio che la vedrà ricongiungersi -per nostra fortuna- col Semidio Maui, qui più serio, eroico e con un indole da mentore in grado di restituire un grande senso di forza senza snaturare la componente comedy e umana, decisamente più riuscita. Ovviamente questo è solo l'incipit di un viaggio, che, esattamente come con il precedente rivelerà non poche sorprese, ma anche in questo caso molte delle tappe sono le medesime: l'incontro/scontro con i pirati, peripezie nella navigazione, posti pericolosi da esplorare alla ricerca di qualcuno o qualcosa, il naufragio che porta a incontri e rivelazioni... in cui salta immediatamente all'occhio la natura televisiva alla base della storia. Infatti ogni circa 20/25 minuti abbiamo un cliffhanger con uno stacco e il cambio di obiettivo e location, con tanto di posizionamento strategico delle canzoni e dei numeri musicali con la media di uno a puntata; evidenziando una palese struttura episodica. A differenza del primo film dove Vaiana è sempre a schermo salvo sporadici momenti in cui Maui parla con i suoi tatuaggi, in questo sequel ci sono momenti dedicati ai comprimari e alcuni brevi salti temporali tra una scena e l'altra come a volersi dedicare al nuovo "roster" di protagonisti. Lo spettatore più grandicello però non è stupido: il primo film aveva una chiosa netta e definitiva, ma sin dalle prime battute a suon di retcon capiamo invece che ci si trovi di fronte ad un mondo ripensato che reinventa la sua mitologia, la geografia e anche la stessa protagonista, che, per continuare con future storie -che sono ovviamente previste, telefonate- è stata costretta a diventare qualcun altro, altrimenti avrebbe sempre sfigurato dinnanzi a Maui, che ancora una volta si conferma il VERO mattatore del franchise.
Character design e animazioni conservano la riconoscibilità del primo film ma migliorano tutto ciò che è migliorabile: io stesso in corso di campagna marketing avevo evidenziato una pelle fin troppo "gommosa" rispetto alla bellezza che circondava i personaggi sotto ogni aspetto, cosa che in tutta onestà nel film non ho ritrovato. La vera bellezza stavolta non è da cercarsi in costumi esotici e tatuaggi: pori, ricrescita della barba, rughe, occhiaie e persino venature decorano i nostri personaggi con fisica dei capelli, rendering di piante, spiagge e rocce mai così vivide, luminose e colorate. Incredibili le onde e la resa dell'acqua, da lasciare a bocca aperta tanto sembri realistico e quanto risulti risonante in un film in cui l'oceano giochi un ruolo così importante. Musicalmente salvo una canzone invece il film è clamorosamente sottotono e poco ispirato, e devono essersene resi conto visto che nel film viene usata ben tre volte compresi i titoli di coda. La regia di Miller, Hand e Derrick Jr. è meno solida di quella di Musker e Clements ma se non altro è più contemporanea riuscendo nel compito di essere meno dispersivo -il sequel inizia decisamente prima rispetto il suo predecessore- e con un ritmo più bilanciato e sostenuto anche nella gestione delle atmosfere comedy ed action. Però se avevo avvertito il primo film inutilmente lungo, in questo secondo si percepisce qualcosa sia stato tagliato con l'accetta per adattarsi dal minutaggio televisivo allo screentime della sala: dal ruolo del villain (non pervenuto) al viaggio di maturazione dei comprimari che a un certo punto senza alcun coinvolgimento a schermo supera un brutto momento perché sì.
Se Moana 2 fosse stata la prima stagione di una serie animata su Disney+ alla luce di questa realizzazione tecnica sarebbe potuta diventare anche una delle più belle sorprese della stagione, ma, siccome arriva come un film per il cinema quasi una decade dopo l'originale viene percepito come l'inizio del "Vaiana Cinematic Universe"... e no, chi vi scrive non ne sentiva proprio il bisogno.
Meglio di Wish, ma proprio non ci siamo.
Vi è piaciuto il primo Inside Out?
Bene, vi piacerà anche il secondo perché... sono praticamente lo stesso film. La recensione potrebbe fermarsi già qui, ma offriamo un po' di contesto: Riley è passata all'adolescenza, e con la pubertà nuove emozioni si affacciano nella sua mente, emozioni con cui è difficile venire a patti perché la stanno cambiando e trasformando in un'altra persona, al punto che il conflitto interiore registrato dalla protagonista viene rappresentato dal "cambio di gestione" dello spettro emotivo. Ansia ha perfettamente chiaro come accompagnare la nostra ragazza attraverso questa nuova fase della sua vita (o almeno così crede) e così va detronando Gioia e con lei le emozioni 'base' del primo film per costruire una nuova Riley partendo dalle fondamenta, ossia offrendole una nuova consapevolezza di se. Il messaggio è importante: è impossibile aver chiaro come ci sentiamo, cosa proviamo e chi desideriamo diventare ad un'età così giovane dove il nostro sviluppo è solo all'inizio e la nostra personalità si formerà in base alle esperienze che viviamo, però non è molto diverso da quello che abbiamo già saggiato in precedenza con il primo capitolo... anzi, il processo è letteralmente il medesimo: un'emozione mette in dubbio l'autorità di Gioia > causa un problema > Gioia e una emozione (o più) vengono allontanate dalla console di comando > altre emozioni si improvvisano alla guida facendo deragliare Riley > questa cosa ha consapevolezze nella catena di montaggio > le emozioni capiscono che non esistono solo bianco o nero e che tutte sono ugualmente importanti decidendo di collaborare e contribuendo a costruire tutte le sfumature dello spettro umano > Riley ne esce migliore e più consapevole. Vi ricorda qualcosa? Esatto. Mann alla regia di questo sequel sostanzialmente ripropone lo stesso identico copione di Docter mescolando le carte in tavola e introducendo alcune dinamiche interessanti anche piuttosto riuscite, ma il film è letteralmente una copia carbone del primo (con crush, ricordi imbarazzanti ed oscuri segreti al posto dell'amico immaginario di turno).
Tecnicamente Inside Out 2 è superiore al primo film offrendo animazioni ancora più fluide e dettagliate nel "nostro mondo" ed un rendering di ambienti, tessuti, materiali, peli e capelli ancora più realistici; altrettanto bello ma meno ispirato il tour de force nel cervello di Riley che vive prevalentemente di rendita sulle location del primo film introducendo solo un paio di buone idee nella resa finale; sul fronte della colonna sonora invece ci attestiamo sulla qualità del primo film che era già molto buona, ma si ha la sensazione che si sia nutrito poco coraggio nella messa in scena: se è apprezzabile l'aver scelto di mostrare di più della vita di Riley fuori dalla sua testa rispetto a quanto fatto con il primo film, è altrettanto vero che sin da subito ci viene detto che Riley stia attraversando la pubertà e ciò venga rappresentato solamente da sbalzi d'umore e un brufolo sul mento, nulla più. Si sarebbe potuto parlare degli ormoni... e prima che gridiate allo scandalo frasi quali: "Ma come, è un film per bambini?!), sappiate che Turning Red, sempre Pixar tra l'altro, ha trattato un tema simile senza particolari difficoltà. E comunque Inside Out 2 NON È un film per bambini: tolte alcune sequenze nelle fasi centrali che tra le altre cose sembrano trovarsi lì solo per allungare il brodo, il film ha uno humor ed una scrittura un po' più adulta del primo capitolo, quasi a voler parlare ad un pubblico di adolescenti che di piccini.
Arrivato a fine visione ne sono uscito divertito e compiaciuto, ma meno emozionato rispetto al primo Inside Out perché ottenebrato da un martellante senso di déjà-vù che mi ha accompagnato per quasi tutto il film convincendomi che Mann questo seguito non lo volesse proprio fare, non avesse poi chissà quali idee ed abbia deciso di puntare tutto sull'usato garantito... e box office alla mano, ha fatto bene: il pubblico AMA l'usato sicuro, ed Inside Out 2 sicuramente potrà ripagare le aspettative, però la magia di Pixar io qui, proprio non l'ho sentita.
Magari la sentirò con un ipotetico Inside Out 3... se avrà più coraggio.
Per i 90 anni di Paperino a sorpresa arriva su Disney+ un nuovo corto di tre minuti che fa leva sulla nostalgia: animazioni 2D che ricordano i corti classici, ambientazioni retro che richiamano gli anni "40 e a sorpresa la voce di Donald eccezionalmente torna ad essere di Clarence Nash (da incisioni d'archivio) anziché quella di Tony Anselmo.
Il corto tecnicamente è pregevole, niente di eclatante tanto sul fronte del character design tanto su quello delle animazioni (sebbene rispetto a Once Upon a Studio il livello sia nettamente più alto) ma funziona per la storia che desidera raccontare. Ed anche qui l'approccio è dei più classici: in quella che parte come una lampadina fulminata che va sostituita un'escalation di incidenti va susseguendosi portando il papero più sfortunato del mondo ad un impeto di rabbia e frustrazione che ci avvierà ad un finale prevedibile e telefonato, ma non per questo meno divertente.
Si ha l'idea che Disney abbia fatto questo corto tanto per più che per celebrare gli anni di una delle icone più importanti di sempre della Casa del Topo, ed è un peccato perché Paolino Paperino meriti tanto, tanto di più.
C'è una netta differenza tra omaggio/tributo/celebrazione e fanservice, purtroppo Disney stavolta non ha saputo distinguere tra le due cose e tutto ciò che di Wish poteva ragionevolmente essere utilizzato come buildup dall'incredibile raccolta di storie che hanno contribuito a creare il più grande parco titoli di film per famiglie per oltre un secolo qui si traduce in una costante caccia alla citazione senza ne cuore ne anima.
Wish è didascalico ai limiti dello scolastico, derivativo e pigro con evidenti problemi di struttura e confuso nelle sue intenzioni tanto nelle caratterizzazione dei suoi eroi, comprimari e villain (Re Magnifico è un personaggio schizofrenico e inspiegabilmente machiettistico). Anche le canzoni che in questo genere di produzioni sono di norma il fiore all'occhiello hanno una pessima metrica ed una resa che sembra spesso e volentieri sbagliata non confezionando mai delle vere e proprie hit memorabili. Sul fronte tecnico peggio mi sento: se probabilmente l'intenzione era ricordare diversi stili del passato purtroppo la percezione è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto vecchio e datato in ritardo di dieci anni rispetto gli ultimi titoli anche prodotti dalla stessa Disney, con qualche timido tentativo di inserire alla CGI animazioni tradizionali, cel-shading ed ibridi che, nello stesso anno di Spider-Man: Across the Spiderverse però risultano ai limiti dell'imbarazzo.
Corollario a questa disastrosa operazione commerciale il pessimo doppiaggio italiano con Amadeus a cui va ricordato che sta doppiando un giovane capretto in un cartoon e non presentando il prossimo artista al Festival di Sanremo. Ma quindi è proprio tutto da buttare? Giusto i titoli di coda e la piccola sequenza dopo di essi fanno leva sulla nostalgia, ma quando una sala gremita di bambini si esalta nel vederli dopo un'ora e mezza di scena muta dinnanzi a battute e canzoni, allora è un problema, specie se ti chiami Walt Disney e questo è il lungometraggio che festeggia il (primo) centenario della tua storia.
Siamo soliti guardare dei film in streaming e chiederci: "Perché non l'hanno mandato al cinema?! Meritava di essere visto sul grande schermo!", a 'sto giro vi verrà spontaneo invece pensare: "Perché non l'hanno mandato in streaming?! Cent'anni fa tutto iniziava con un Topo, e meritava lui di trovarsi lì, in sala.
Vicino a compiere i 95 anni, Mickey Mouse torna protagonista assoluto di un nuovo corto appartenente alla serie Il Meraviglioso Mondo di Topolino, e vale la pena spendervi qualche parola perché si tratta di qualcosa di più di un semplice omaggio celebrativo.
Quando Topolino ritrova uno scatolone in soffitta pieno di vecchi costumi di scena e film quello che parte come un viaggio nei ricordi si trasforma presto nel caos totale: la pellicola del suo primo corto, Steamboat Willie, viene distrutta dal proiettore e dai fotogrammi tantissimi dispettosi Mickey in bianco e nero si riversano per le strade della città seminando caos e distruzione. Questa è una sottile metafora di cosa succederebbe una volta compiuto il centenario se Disney perdesse i diritti di sfruttamento sul personaggio e venisse utilizzato da chiunque senza alcun controllo; come monito sopraggiunge proprio la Marcia Disney, tema storico di Topolino che ripristina l'ordine come fosse eseguita da unb, pifferaio magico.
Il design di Paul Rudish si fa da parte per omaggiare tutti i design storici del Topo che nelle battute finali è un trionfo di nostalgia. Dieci minuti spensierati e intrisi di storia che tra una risata e l'altra spingeranno anche a riflettere.
Avete mai sentito parlare di "cattivo marketing per un buon film"? Ecco, è esattamente questo quello che è successo con Elemental, decisamente superiore rispetto a com'è stato presentato in trailer e spot.
Se pensavate che la pellicola volesse affrontare il classico tema de gli opposti che si attraggono ci avete preso, ma in realtà Elemental vuole raccontare molto, molto di più: si parla di divergenze generazionali, tradizione e modernità, razzismo, immigrazione ed integrazione; e ciascuna di queste tematiche viene affrontata con intelligenza, tatto, sensibilità ed onestà intellettuale impedendo allo spettatore di cadere vittima di retoriche melense ma anzi, potendosi immedesimare maggiormente nei personaggi e nelle loro storie. L'esecuzione è sempre ritmata e non conosce tempi morti, rendendo i 100 e passa minuti di film molto scorrevoli. Se i character design risultano nella CGI depotenziati rispetto gli splendidi artwork 2D mostrati ormai un anno fa, va da se che invece gli elementi, i reali protagonisti di questa storia risultano invece terribilmente curati e realistici, con l'acqua che è a sua volta star onnipresente del film.
Se cercate il viaggio dell'eroe, il villain da battere o tensione al cardiopalma Elemental non è a voi che parla: si tratta di quotidianità e problemi quotidiani, strizzando l'occhio ad un target eterogeneo ed in grado di emozionarsi e commuoversi. Menzione d'onore a Stefano De Martino, talent d'eccezione terribilmente portato ed in grado di restituire a Wade una grande umanità.
"Hai ragione. Ci sono tanti, tantissimi motivi per cui non potrebbe funzionare, ma ce n'è uno per cui invece funzionerà. Ci siamo toccati."
Disney sta perdendo la sua magia?
Una domanda che sorge spontanea davanti una pellicola che sembra aver spuntato da una lista degli ingredienti tutto il necessario per cucinare senza però mettervi l'amore per la cucina.
La dichiarazione d'amore ai carismatici avventurieri ed ai visionari mondi che visitavano ritratti agli spettacolari scritti di Jules Verne viene sprecata in un racconto tremendamente didascalico in cui non solo si possono prevedere gli sviluppi, ma persino i dialoghi. Un racconto che porta tre generazioni a scontrarsi in seguito alle aspettative e l'incomprensione con errori che si ripetono di padre in figlio e purtroppo anche a schermo: il film corre sempre con conflitti risolti in modo brusco, situazioni riciclate e senza respiro, comprimari abbozzati e fastidiosi. Il gap tra le generazioni poteva offrire spunti interessanti e coraggiosi per affrontare tematiche spinose quali amore interraziale ed omosessualità, invece si è preferito inserirle perché sì quasi a voler paventare un'apertura verso qualcosa che però non si ha mai il coraggio di raccontare, arrivando quasi come una strumentalizzazione.
Nel terzo atto c'è finalmente un po' di coraggio tanto nelle rivelazioni quanto nell'epilogo, ma ormai è troppo tardi. Intrigante la direzione artistica di ambienti e creature (seppur la CGI sembri inspiegabilmente in caduta libera dopo Raya), ma salvo l'adorabile mascotte Splat tutto arriva molto derivativo.
Vedere Pixar sacrificata allo streaming anziché il grande schermo è sempre un colpo al cuore, ma col senno di poi è stato un bene sia stato così perché se abbiamo avuto una pellicola con tematiche così mature e profonde lo si deve proprio al fatto che questa non sarebbe andata in sala, e a dirlo è la sua co-sceneggiatrice e regista Domee Shi (Bao).
Se nell'ultima decade Pixar ha sempre avuto una marcia in più di Disney, Red è forse uno dei massimi esponenti di questa teoria: un film adolescenziale profondamente in debito con gli anime e tratta con onestà i temi cardini dell'adolescenza alla major molto cari quali famiglia, differenze generazionali e amicizia, così come quelli più spinosi legati alla crescita, come la sfera sessuale. Il panda rosso gigante di Red (che deve tanto al Totoro di Miyazaki quanto al panda in Ranma ½ della Takahashi) è infatti la rappresentazione fisica dei cambiamenti che avvengono nella pubertà: dal ciclo mestruale alle pulsioni sessuali, che per l'appunto non avrebbero mai trovato spazio al cinema.
Una commedia young adult con protagonista una famiglia sinocanadese incastrata tra tradizione e modernità in una cornice anni "90 che nel terzo atto affila gli artigli omaggiando anche il filone kaiju, mostrando come l'inclusione se ben usata restituisce una fresca commistione tra due culture lontane e al contempo simili.
Alla vigilia della visione di Inside Out 2 pensavo fosse il caso di rivisitare il primo film, un po' per arrivare freschi di memoria al sequel, ed un po' per capire quanto fosse invecchiato... e non lo è neanche un po'.
Il film di Docter è intelligente, brillante, fresco, dolce e genuinamente commovente, perché, come tanti altri film Pixar riesce a mettersi in contatto con la parte più autentica ed intima di noi, quella emotiva. Il concept è semplice, ma terribilmente funzionale: "cosa succede dentro di noi? Quando e come si mette in moto cosa?" Sappiamo da sempre che la scienza definisce il nostro cervello come una sorta di 'super computer', ma il regista ci mostra chi questo va manovrandolo, ed è un manipolo di emozioni, un quintetto nello specifico, che suddivi per aspetto, personalità e colore veicola come dovremmo sentirci a seconda delle circostanze, come dovremmo rispondere a determinate situazioni e cosa dovremmo provare davanti alle sfide a cui ci pone la vita. Il passare degli anni, lo sviluppo di desideri, bisogni ed esigenze differenti nella vita di ciascuno di noi, e nel caso specifico di Inside Out, della piccola Riley rende sempre più definite le nostre emozioni e ne cambia l'importanza e l'operatività; ecco perché, se all'inizio Gioia prova a fungere da direttrice d'orchestra, poco alla volta Tristezza prendi le veci del suo naturale contraltare portando scompiglio nella quotidianità della nostra protagonista e costringendo le due emozioni più forti -che rappresentano l'una l'opposta dell'altra- a partire per un viaggio all'interno della complicata macchina delle emozioni umane tra ricordi, sogni e punti fermi al fine di preservare quelle che sono state le fondamenta emotive di Riley. Ciò che ne consegue è la naturale miscellanea di emozioni, volte ad insegnare agli spettatori più piccini (e ricordarlo a quelli un po' più grandicelli) che non può esistere gioia senza tristezza, digusto senza paura, ecc. La contaminazione delle sensazioni ed il fatto che la nostra esistenza non possa affidarsi ad un'emozione soltanto ma anzi abbracciarne le sfumature permette di bilanciare meglio il nostro equilibrio ed accettare anche ciò che di brutto, triste o frustrante ci capita.
La messa in scena è sagace, innovativa e realistica, l'umorismo è funzionale e non cade mai vittima di cliché e stereotipi, il character design semplice e funzionale rende immediatamente chiaro allo spettatore dove si trovi in ogni punto del viaggio, regalando anche qualche sorpresa e lacrima durante il percorso. La colonna sonora delicata e attenta impreziosisce i momenti centrali del film ed accompagna lo spettatore senza essere mai troppo invasiva. Forse alcune scene avrebbero potuto essere asciugate un po', ma qualche anno dopo Inside Out rimane uno dei migliori Pixar di sempre, e il desiderio e la curiosità di abbracciare le nuove emozioni che si affacceranno alla vita di una Riley in piena pubertà sono palpabili.
"Portala sulla Luna per me. D'accordo?"
Rewatch tattico alla vigilia del sequel.
Già all'epoca non rimasi particolarmente entusiasta dalla visione del primo film di Oceania in sala, perché se avevo amato la componente esotica di costumi, tatuaggi, musica e le reference alla mitologia polinesiana, sul fronte del ritmo ricordo nitidamente di averlo percepito profondamente incostante.
Questo rewatch sostanzialmente conferma entrambe le impressioni con me perdutamente innamorato della mitologia, le location, degli splendidi colori caldi e delle atmosfere in cui i protagonisti si muovono... ma ancora più annoiato dai momenti dispersivi che sono molteplici (da qui la mezza stella in meno in questo randevu): dall'inizio che pare interminabile con Vaiana impegnata in diverse attività quotidiane sull'isola in gag che si trascinano e ripetono, a lungaggini durante la navigazione con interazioni volte a reiterare la rivalità/sfiducia tra lei e Maui; per non parlare della tensione dello scontro con Tamatoa completamente distrutta prima dalla commedia e poi dalla musica. Probabilmente questo susseguirsi di contesti situazionali sorrette da gag slapstick potrebbero far leva sul pubblico dei più piccini -che è anche il target di riferimento, quindi bene così- ma dal punto di vista dell'esecuzione ad occhi più navigati il film risulta molto invecchiato, al punto che a fine corsa si pensa che questa storia avrebbe potuto comunque essere raccontata sacrificando anche una ventina di minuti dal cut finale.
Però ciò che ancora oggi funziona benissimo è il Maui di The Rock: irresistibile mattatore assoluto che va sovvertendo le aspettative degli spettatori a seguito della leggenda tramandata nel flashback iniziale che debutta con quella che è una delle migliori (se non la migliore) canzone del film. Il suo arrivo rende tutto più frizzante offrendo nuovi spiragli sulla personalità di Vaiana, mettendo in moto gli eventi della trama e bilanciando con più equilibrio i toni della pellicola con avventura, commedia, azione, dramma e il viaggio dell'eroina. Sul fronte tecnico la regia di Musker e Clements non è tra le più indimenticabili, ma riesce a valorizzare il mondo e i suoi protagonisti perché Moana è ancora gradevolissimo, ma le aspettative nei confronti del seguito restano decisamente più alte visto cosa ha raggiunto con la sorella Pixar tanto con il rendering di capelli, pelle e tessuti in Inside Out 2, quanto nella fisica e il realismo dell'acqua con Elemental. La vera sfida però sarà rendere altrettanto memorabili le canzoni, in quella che sulla carta originariamente sarebbe dovuta essere una serie TV e non un film per il cinema.
Se andrà bene o meno, ci riaggiorniamo domani.
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]]>Il meglio (e il peggio) dell'animazione giapponese.
Non so nulla di jazz.
È una musica che mi è capitato di ascoltare solo in film e serie TV dedicate. Non è che non mi piaccia eh, anzi, mi trasmette una profonda energia e dedizione da chi la esegue, come se esorcizzasse le sensazioni più profonde e sopite che ho nel cuore tirandomele fuori. Ma non conoscendo nessun artista nello specifico non ho mai avvertito la "spinta" per recuperare questo o quell'altro. Però di Blue Giant ho letto il manga e mi sono perdutamente innamorato tanto dei disegni quanto dei testi di Ishizuka, trovavo incredibile come l'autore riuscisse a farmi avvertire la musica attraverso le pagine. Ma il film di Tachikawa ha preso tutto quello che pensavo di conoscere e l'ha elevato.
Miyamoto è un talento innato nel sassofono, Sawabe ha affinato la sua abilità al pianoforte da quando aveva quattro anno, Tamada è un aspirante batterista: tre persone che non potrebbero essere più diverse tra loro e che si sono avvicinate alla musica in momenti differenti delle loro esistenze finiscono per formare un trittico vincente che lentamente con costanza, impegno, sudore e fatica scalano la vetta della musica jazz nella metropoli nipponica che non dorme mai affacciandosi alle vette del professionismo. Questo è solo l'incipit della storia, ma è quanto vi basta per salire a bordo di quello che non ironicamente sembra davvero un film di Chazelle se si fosse dato agli anime. Chi ha letto il manga si renderà immediatamente conto di come alcune delle parti iniziali dell'opera siano state tagliate, velocizzate se non addirittura raccontate tramite flashback (c'è, per quanto spicciola e minimale una struttura del racconto documentaristica molto interessante in cui versioni più adulte e invecchiate dei personaggi raccontano la vicenda ed offrono allo spettatore neofita tutti gli elementi di background necessari a capire da dove siano partiti i protagonisti), ma è una scelta che non pesa ai fini della visione: nonostante infatti il perno della storia sia Dai, il focus del film vuole essere il rapporto dei tre e il crescendo del loro legame che si manifesta tanto nelle interazioni personali sempre genuine e autentiche per quanto ovviamente vicini agli stilemi della narrativa giapponese, così come nelle abilità tecniche e musicali.
Nei momenti di quotidianità la regia non compie chissà quali guizzi, rende apprezzabili alcuni primi piani e dettagli sulla strumentazione musicale dei tre e su alcuni dischi in particolare che denotano anche quanto Ishizuka sia preparato sull'argomento e guidato da una passione smisurata per la musica jazz; ma durante le esibizioni e le jam session... cambia tutto. Sequenze oniriche dove movimenti di camera sembrano mettere le ali alla regia, tripudi di figure geometriche e soluzioni visive che sfidano logica, spazio e tempo con colori psichedelichi ed equalizer che si sposano ad assoli di sonorità, sinfonie e percussioni che trascineranno gli spettatori in un'altra dimensione, ubriacandoli e facendogli percepire la musica sino alle budella, come se i JASS (così si chiama la band dei protagonisti) stessero suonando usando le corde della nostra anima come strumenti. In quei momenti non rimane altro che restare con gli occhi sbarrati e la mascella spalancata a guardare la totale devozione alla musica, una dedizione che sembra quasi una forza superiore stia muovendo i personaggi mentre sudati e affannati continuano questa escalation in uno stato di trance.
Raramente mi sono imbattuto in esperienze musicali e visive così immersive, c'è tanto di Wiplash e qualcosa di Babylon, non esageravo quando dicevo che c'è tanto di Chazelle qui, ed è così assurdo ritrovare queste "vibes" in un prodotto d'animazione giapponese, ma il coinvolgimento che alcune sequenze sono in grado di creare risultano davvero potenti. Ci troviamo di fronte ad uno di quei progetti dove è possibile immaginare quale sarà l'epilogo, ma è come ci si arriva che fa la differenza; tant'è che la lunga, potente e liberatoria sequenza finale è una delle più belle e soddisfacenti che abbia mai visto.
Ishizuka è un autore prolifico, e, volendo ci sarebbe la possibilità di poter tornare in questo mondo con un sequel. Se questo è il modo con cui lo si intende fare, agiamo quanto prima.
Imperdibile.
Chiudevo la recensione della prima parte di Cosmos dicendo che "per l'atto finale si può e si deve fare di più" ed è stato fatto, eccome. Credo che l'atto finale di Sailor Moon rappresenti tecnicamente parlando il punto più alto ed equilibrato mai raggiunto dal franchise in animazione: riprendendo esattamente da dove ci eravamo lasciati la Parte 2 di Cosmos è totalmente votata e dedicata alla battaglia finale tra Sailor Moon e Galaxia (che non ironicamente rappresenta un po' il Thanos del Sailorverse visto che il primo film di Cosmos ha una chiusura molto simile a quella di Avengers: Infinity War): la narrazione finalmente respira e prosegue in modo più coeso, le interazioni tra i personaggi hanno il giusto tempismo e il climax finale regala alcuni momenti di epicità e di grande pathos.
Il character design è in assoluto il più bello e curato che l'opera della Takeuchi abbia mai avuto, un connubio perfetto tra quello del manga, l'anime storico e il progetto Crystal, un'evoluzione quasi naturale (... che avremmo preferito fosse giunto prima), espressivo, dolce, dettagliato e accompagnato da sequenze d'azione ottimamente animate ed incredibilmente fluide; qualcuno potrebbe aver da ridire sulla tendenza a riciclare alcune scene (trasformazioni e signature moves), ma fa parte del gioco e bisogna imparare ad accettarlo. La regia esalta le sequenze più emozionanti e adrenaliche, mentre le musiche, soprattutto nel terzo atto, accompagnano gli istanti finali scandendone la bellezza e la solennità. Paradossalmente a chi è andato bene il ritmo forsennato di Eternals e la prima parte di Cosmos questa seconda ed ultima potrebbe arrivare lenta e soprattutto fin troppo seriosa (un momento di comicità lungo tutto il film che ruota attorno a Chibiusa), ma trattandosi dell'epilogo ha assolutamente senso questa scelta.
Il sodalizio di Toei Animation e Studio Deen ha dato i suoi frutti, insieme alla regia di Takahashi che finalmente trova la giusta quadra per confezionare un buon film che farà felici i fan delle Pretty Guardian che in passato possono essersi sentiti "traditi" dall'assenza di alcune scene cardine del manga volutamente abbandonate nell'anime storico, qui ripristinate -a questo proposito non chiudete Netflix ai titoli di coda, vi perdereste il VERO finale- e il rimpianto che, con un budget più generoso, maggior tempo a disposizione e più amore nei confronti di Sailor Moon, l'intero progetto Crystal avrebbe potuto essere così sin dal principio... e forse avremmo avuto delle serie TV ad ampio respiro anziché due film.
Nonostante avessi accolto con curiosità ed entusiasmo il progetto Sailor Moon Crystal, sin da subito il prodotto aveva gravi problemi: dal character design sì più simile a quello del manga originale della Takeuchi ma troppo spigoloso e asciutto rispetto a quello con cui ero cresciuto con le serie degli anni "90 di Toei Animation; per non parlare del pacing e della messa in scena di tanti momenti che su carta (e all'epoca anche su pellicola) erano decisamente più epici e solenni di quelli di questo remake. Inoltre con Eternals si era cominciato a cavalcare il trend di condensare lunghi ed articolati archi narrativi in un paio di film che per forza di cose correvano tanto, troppo.
La prima parte di Cosmos continua la correzione estetica cominciata con Eternals, migliorandone ancora di più l'impatto visivo, ma purtroppo commette gli stessi errori di Eternals: nel manga Stars è un saga davvero pregna di nuovi personaggi, rivelazioni, colpi di scena, scontri e mitologia, e in questa Parte 1 bene o male c'è tutto ciò che è importante per comprendere la storia ma per tutto il tempo si ha la netta sensazione di correre disperatamente una corsa contro il tempo per spuntare tutti i momenti salienti da una scaletta compromettendo anche il ritmo del film e la ricezione dello spettatore. Si passa da assistere ad una sequenza emotivamente devastante per poi nel giro di un paio di minuti migrare verso atmosfere più ilari e siparietti comici, i combattimenti sono frequenti ma uno la fotocopia dell'altro: trasformazione della Sailor di turno, colpo speciale, contro-colpo del nemico, fine dello scontro. Ad onor del vero alcune di queste leggerezze sono figlie di un'epoca, quella dei primi anni "90, molto più cheesy, solari e trasognanti, ma in un film dove si corre sempre finiscono inesorabilmente col pesare di più. La regia ha alcuni momenti ispirati ma vengono sacrificati dal ritmo che inesorabilmente ha conseguenze sul montaggio. Questo alternarsi di commedia, dramma, spiegoni ed azioni lampo permea tutto il primo film facendo sì che il pubblico non particolarmente fresco di memoria fatichi ad assimilare tutte queste informazioni e personaggi a schermo.
Un buon lavoro è stato fatto sull'impianto audio, tanto con le musiche (Moonlight Densetsu come apertura è un colpo al cuore) tanto con la localizzazione italiana mai sul pezzo come stavolta per traduzione, adattamento e doppiaggio: suffissi onorifici, inglesismi, tecnicismi e quant'altro ancora vengono mantenuti e potrebbero ragionevolmente infastidire il pubblico estraneo a questo tipo di lettura, tutti gli altri andranno in brodo di giuggiole. In soldoni meglio di quanto fatto con Eternals, ma nell'atto finale si può e si deve fare di più.
Questa è la stagione cinematografica degli amici immaginari, dopo IF di Krasinski spetta allo Studio Ponoc raccontare gli amici immaginari e non lo fa dalla prospettiva di chi immagina, ma di chi viene immaginato: Amanda ha un amico immaginario, un bambino della sua stessa età, Rudger, con cui si lancia in incredibili avventure riempiendo la sua quotidianità di mondi e creature fantastiche. Quando un losco individuo accompagnato da un'inquietante bambina si palesa alla libreria dove la madre di Amanda lavora, la loro vita cambierà per sempre.
Non voglio anticiparvi di più su L'Immaginario perché pensavo il trailer avesse già svelato troppo e... siccome non mi sarei potuto sbagliare di più, desidero anche voi possiate godervi la medesima sorpresa. Il film diretto da Momose (Una Tomba per le Lucciole, La Città Incantata) su una sceneggiatura adattata da Nishimura (Il Castello Errante di Howl, Mary e il Fiore della Strega) dal romanzo omonimo di Harrold è una storia matura, attenta, delicata, introspettiva, profonda e molto dolce che si schiude come un fiore poco alla volta rivelando una mitologia ricca, complessa e sfaccettata capace di fare leva sull'emotività dei più piccini così come sulle emozioni dei più grandi. La narrazione stratificata su più livelli non solo fa affezionare gli spettatori ai protagonisti e i suoi adorabili comprimari, ma anche temere i suoi carismatici villain mettendo in scena una caccia al gatto col topo capace di lasciare gli spettatori col fiato sospeso infarcendo il racconto di colpi di scena, risate, momenti drammatici e tanta azione fino al soddisfacente epilogo. A differenza dei film dello Studio Ghibli - paragone d'obbligo essendo Ponoc formato da ex-membri - la matrice culturale del racconto ha un respiro più internazionale tanto nella scrittura dei personaggi quanto nelle movenze e questo può essere facilmente più digeribile dal pubblico generalista medio, per contro la profondità e il simbolismo sono meno marcati e semplificati, e questo potrebbe risultare poco stimolante se reduci dalla visione de, per dirne uno tra tanti, Il Ragazzo e l'Airone.
Tecnicamente The Imaginary è uno spettacolo per gli occhi: ambienti realistici e curati nei minimi dettagli restituiscono uno scenario londinese, paesaggi coloratissimi, evocativi e visionari incantano gli spettatori quando ci muoviamo nei folkloristici mondi immaginari. Nonostante una bellissima e sempre fluida animazione bidimensionale la faccia da padrone, c'è tantissimo spazio per la sperimentazione in tecnica mista con il cel shading, la colorazione digitale sfumata a mo di acquerello, deliziose tonalità pastello e elementi in CGI (non bruttissimi quest'ultimi, ma spesso fuori luogo e non all'altezza del magnifico impianto visivo). Splendida la soundtrack interamente localizzata in italiano per I brani cantati eccezion fatta per la fantastica canzone nei titoli di coda in lingua inglese.
Fa specie pensare che nessun distributore internazionale abbia creduto quanto basta ne L'Immaginario al punto da averlo potuto avere solo un anno dopo in streaming anziché portarlo al cinema per timore di scontrarsi con un film del calibro di Wish... perché questa pellicola sarebbe potuta tranquillamente diventare un'Oscar contender. Se avete un account Netflix e vi piacciono le belle storie, questo weekend sapete cosa fare.
La leggenda recita che chiunque riesca a trovare e percorrere il leggendario Tunnel di Urashima possa realizzare qualsiasi cosa desideri chiedendo come prezzo cent'anni di vita: saresti disposto a rinunciare alla tua vita, ad uscire dal tunnel invecchiato pur di realizzare il tuo più grande sogno? A questa domanda non hanno alcun dubbio nel trovare risposta Kaoru ed Hanashiro: il primo desidera riportare in vita il suo affetto più caro, la seconda vorrebbe conquistare un talento che non le appartiene. Eppure, mentre percorrono questo tunnel due persone completamente estranee poco alla volta mettono a nudo i loro sentimenti, le loro paure e si avvicinano fino ad instaurare un legame profondo, indissolubile, uno di quelli in grado di cambiarti la vita.
Dopo aver lavorato in sala a Digimon Adventure e Persona ed in TV con Bleach, Taguchi si mette alla prova con un franchise che non era mai stato animato prima, e anche se la sceneggiatura non è sua perché è tratto dall'omonima novel di Hachimoku, l'influenza di Shinkai nella regia, il montaggio e la messa in scena è cristallina: colori, suoni e paesaggi sono chiaramente ispirati dallo stile del regista che ha dato il via al rinascimento del cinema d'animazione romantico nel Sol Levante generando una vera e propria new wave di film sentimentali. Però del carisma e della personalità di Your Name resta solo un lontano ricordo, una copia sbiadita quasi: sfacciatamente derivativo nelle intenzioni The Tunnel to Summer, the Exit to Goodbye ha il pregio di essere asciutto, ritmato e diretto; nel minutaggio offerto allo spettatore la storia procede spedita e senza tanti fronzoli, con un sottotesto variegato ed ambizioso... che però si perde in facilerie, ridondanze ed una certa banalità quando si tratta di arrivare al succo della questione. In senso stretto questo non sarebbe nemmeno un grosso problema se siete neofiti del genere, ma ad uno spettatore con uno storico di visioni piuttosto navigato il racconto potrebbe risultare telefonato. Tecnicamente il lavoro di CLAP Studio è davvero buono sul character design e le animazioni dei personaggi, così come l'aspetto e la resa dei fondali, molto meno sul Tunnel di Urashina spoglio e con una CGI abbozzata, forse vittima del budget. Buona invece la produzione sonora tanto nelle tracce strumentali quanto in quelle cantate.
The Tunnel to Summer, the Exit to Goodbye è un lungometraggio gradevole, dolce, romantico e malinconico. I temi trattati sono importanti e la delicatezza con cui lo si fa è ragguardevole; resta il rammarico che con più coraggio, profondità e indipendenza il risultato finale sarebbe stato più brillante e riuscito.
Perché gli spokon hanno così tanto successo anche con quel pubblico che di norma gli sport non li segue? Perché al di là dell'agonismo creano un rapporto con lo spettatore facendoti empatizzare con i protagonisti, la loro storia, i loro sogni ed il traguardo che desiderano raggiungere sul fronte umano: questo fa sì che prima di arrivare come atleti, chi è seduto in sala veda i personaggi come persone. Ed ecco perché è un periodo d'oro per gli spokon al cinema, dopo l'eccellente The First SLAM DUNK che ha portato il pubblico a desiderare di giocare a basket, tocca ad Haikyuu! Battaglia all'Ultimo Rifiuto farci desiderare giocare a volley.
Scritto e diretto da Mitsunaka sulla sceneggiatura del manga originale di Furudate, Haikyuu! trascina lo spettatore subito nel vivo della partita: i giocatori della Karasuno e della Nekoma si preparano a sfidarsi in un'adrenalinica partita ricca d'azione, colpi di scena, sudore e lacrime in quello che sarà il match più importante delle loro vite.
Ho citato il quinto film tratto dell'opera di Inoue perché le similitudini sono parecchie, ed alcune piuttosto inaspettate: la più eclatante è il cambio di prospettiva dal punto di vista del protagonista, certamente meno invasiva/sovversiva qui, ma anche stavolta il focus si sposta dalla star originale del manga, Hinata, per dedicarsi maggiormente al suo rivale, Kozume, maggiormente approfondito tramite pov e flashback, impreziosendo lo spirito della narrativa e la sua immersione in un crescendo di pathos ed emozioni al cardiopalma.
Tecnicamente il film è superbo e riporta la qualità del character design e delle animazioni realizzate da Production I.G. ai fasti delle prime stagioni: sempre fluido, incredibile e realistico nella scene d'azione al punto che la fisica dei movimenti dei capelli, le pieghe delle divise e persino delle gocce di sudore lasceranno il pubblico a bocca aperta. Un tratto tradizionale che di tanto in tanto si appoggia alla CGI per offrire movimenti di camera suggestivi ed ispirati che spingono verso una sperimentazione ricca di sorprese e piacevole. Tuttavia è bene ribadire che Haikyuu! Battaglia all'Ultimo Rifiuto non è un film accessibile a chiunque: chi non ha letto il manga o visto le precedenti stagioni dell'anime televisivo sicuramente potrà godersi il match, ma difficilmente riuscirà ad entrare all'interno di alcune dinamiche che verranno date per scontate e non verranno reintrodotte da zero a mo di spiegoni; i fan di vecchia data invece noteranno quanto rispetto al manga il film prosegua veloce e forse penseranno che una release episodica vi avrebbe giovato... eppure rispetto la qualità raggiunta dalla quarta stagione, il risultato è pregevole.
Al di là di questo, Haikyuu! è l'ennesima riprova di come l'animazione giapponese a differenza di quella occidentale oggi risulti più fresca, varia, funzionale e vincente toccando temi, argomenti e stili che salvo poche eccezioni riesce molto meglio ad unire tradizione e modernità.
Com'è consuetudine dopo l'enorme successo planetario del film Demon Slayer: Il Treno Mugen, Aniplex ed Ufotable uniscono i finali delle stagioni della serie TV appena conclusa alla premiere della successiva in quello che a differenza di Mugen Train non è un film bensì un'esperienza cinematografica. Questa premessa è doverosa per giustificare il totale cambio di registro tra la prima e la seconda parte della storia.
Quello che Eagle Pictures porta in scena nei cinema italiani non è l'apice qualitativo raggiunto dalla produzione (per quello bisogna tornare indietro nel tempo, nel corso del finale della scorsa stagione che era riuscito a confezionare uno dei combattimenti più incredibili dell'animazione contemporanea televisiva capace di gettare ombre sulla qualità di alcuni titoli cinematografici pur essendo una produzione destinata al piccolo schermo), eppure è uno dei momenti più importanti, se non il più importante fin qui sullo sviluppo narrativo e le relazioni tra i personaggi, mi riferisco ad un grande colpo di scena sul personaggio di Nezuko. L'evento ha una messa in scena spettacolare ed emozionante a seguito di un combattimento molto provante che ha lasciato i nostri eroi stremati. Com'è consuetudine nella lunga premiere della quarta stagione vediamo Tanjiro & co. fare ritorno alla Villa delle Farfalle per curare le proprie ferite, e i Pilastri radunarsi per prepararsi a quella che sappiamo essere la battaglia finale.
L'evento al cinema dedicato a Demon Slayer è dedicato esclusivamente ai fan della prima ora, tutti gli altri potrebbero apprezzare character design, animazione, gag e musiche, difficilmente potranno però inserirsi all'interno delle vicende; tutti gli altri sentiranno a fine esperienza curiosità ed entusiasmo per il buildup che regia e montaggio costruiscono sul futuro, soprattutto nella seconda parte. Una premiere più tranquilla e discorsiva così com'è solito essere per l'apertura di un nuovo arco narrativo, che comunque è intrisa di qualche sorpresa anche per i lettori più accaniti del manga della Gotoge (che qui aggiunge qualche chicca interessante) e può genuinamente mettere hype su quello che sarà l'ultimo atto della guerra a Muzan.
È davvero difficile recensire l'ultimo capitolo dell'epopea cinematografica di City Hunter perché è un prodotto che ha scelto la via più coraggiosa, controversa ed ambiziosa possibile per raccontare quella che è probabilmente la storia più complessa ed emozionante del manga originale di Tsukasa Hojo, l'arco narrativo che scavando nel passato mai raccontato prima dello sweeper ne approfitta per creare un legame col presente e tessere la tela che svilupperà il futuro delle interconnessioni personali del protagonista.
Chiaramente sono passati più di 25 anni dalla fine del manga ed alcune cose non potevano essere trasposte in maniera fedele, un po' perché lo storytelling si è evoluto e trasformato in questo lasso di tempo, un po' perché Angel Dust vuole suscitare appeal anche ad un pubblico ed una generazione nuove che potrebbero essere estranee alle vicende del City Hunter di Shinjuku. Quindi escco alcuni eventi venire modificati e riscritti in una revisione storica completamente atipica per i tempi in cui viviamo: infatti quando prima parlavo di coraggio, rischio e controverse mi riferivo alla scelta di restare ancorati a tutte le pecularietà del personaggio di Ryo Saeba con tutti quegli atteggiamenti ed elementi che nella contamporaneità attuale verrebbero ragionevolmente considerati sbagliati e alla stregua di molestie sessuali, senza edulcorarli ma addirittura scegliendo di reiterarli; ovviamente la sensibilizzazione contemporanea potrebbe indignare, indisporre e infastidire parte del pubblico, altrettanti potrebbero invece apprezzare questa scelta paradossalmente più attinente all'originale di quanto lo fu la serie animata dell'epoca. Lo screenplay di Muto è molto attento nel bilanciamento del registro narrativo altalenando sempre comicità e dramma con sapiente equilibrio seppur delle volte la scelta di usare le gag come motore della narrazione anche per passaggi importanti e propendere verso un terzo atto particolarmente drammatico potrebbe confondere i neofiti e gli spettatori più giovani ed esigenti. Per contro la regia combinata di Takeuchi e Kodama confeziona quelle che sono senz'ombra di dubbio le sequenze action più cinematografiche del franchise con alcune degli inseguimenti e delle coreografie più belle viste in questo genere di storie. Il character design richiama maggiormente quello dell'Hojo dei giorni nostri, i personaggi sono più simili a quelli di Angel Heart che del City Hunter che fu, ma non è necessariamente una cosa negativa visto che parliamo di uno stile pregiato e ancora più curato e tondo, meno spigoloso. La stessa cosa non possiamo però dirla delle animazioni che in alcune sequenze è stellare ed in altre un po' sottotono palesando un dislivello piuttosto evidente con gli shot più curati. Un salto indietro nel tempo la soundtrack con alcune tracce city pop ed altri pezzi intramontabili lasciati con intelligenza in lingua originale ed accompagnati dai sottotitoli.
Ryo che smanetta con lo smartphone su Tinder, le gag sull'alzabandiera, il martellone di Kaori, i cameo di alcuni personaggi celebri di Hojo (e non solo!), il genderswap di alcuni personaggi chiave, un approccio moderno e fresco alla storia che però non tradisce il cuore dell'opera e la Tokyo degli anni "80, un adattamento ed un doppiaggio italiano fedeli come non mai possono disorientare ed estasiare lo spettatore nella medesima misura, sia questo giovane e nuovo al franchise o più navigato ed affezionato ad atmosfere, toni e personaggi. Non tutto brilla come dovrebbe e si ha la sensazione che vi sia qualcosa fuori posto, ma è indubbio che Angel Dust sia una delle pellicole più potenti ed emozionanti tratte da City Hunter, e se saremo abbastanza fortunati, neanche l'ultima.
Maborishi può significare diverse cose in lingua giapponese: "illusione", "fantasma", "sogno" o "visione"; e tutti sono sorprendentemente calzanti con quello che l'omonimo film scritto e diretto da Mari Okada (Maquia, Miyo - Un Amore Felino, AnoHana) rappresenta e desidera comunicare al pubblico.
Nel 1991, una violenta esplosione nell'acciaieria della piccola cittadina di Mifuse riempie il cielo di misteriose crepe luminose dalle quali escono voraci mostri di fumo. Da quel momento in poi la vita del 14enne Masamune e dei suoi amici cambierà per sempre portando alla luce segreti dal passato e verità nascoste. Svelare di più del mistero che poco alla volta si dipana nella sceneggiatura sarebbe fare un torto a chi leggerà questa recensione senza ancora aver guardato il film quindi sarò il più ermetico possibile su trama e narrazione, che ad onor del vero è complessa, intricata ed ambigua solo in apparenza visto che è frutto di una precisa scelta artistica che poco alla volta man mano che la storia prosegue sbroglierà la matassa in modo tanto lento quanto naturale. Maboroshi è un dramma fantascientifico che porta avanti folklore e realtà di provincia unita al classico racconto di formazione con al centro dei personaggi adolescenti, è l'occasione ideale per esplorare quindi temi portanti e caratteristici dell'età: paure e sogni riguardo il futuro, scoperta tanto nei confronti dell'amore e delle prime pulsioni sessuali verso gli altri così come scoperta di se stessi. Registro dei dialoghi e interazioni personali potrebbero risultare ostici per lo spettatore occasionale complice una cultura distante, ma in relazione a prodotti più classici è sorprendentemente internazionale e contemporaneo pur ambientandosi negli anni "90. Tecnicamente parlando lo Studio MAPPA (Attack on Titan, Jujutsu Kaisen, Chainsaw Man) è in grande spolvero in questo film originale: il character design è tanto commerciale quanto distintivo e ricercato, le location sono incredibili e dai dettagli molto realistici, le animazioni molto fluide e l'implementazione della CGI funziona con le animazioni 2D molto bene nella maggior parte dei casi, sottotono invece la colonna sonora che confeziona giusto qualche traccia particolarmente azzeccata (e fortunatamente anche nei momenti più importanti).
Senza neanche saperlo, Okada e Miyazaki hanno avuto nello stesso periodo idee molto simili con alcune analogie coincidenti nella trama e nel simbolismo; sebbene ci si interroghi su temi simili però, i messaggi che Maboroshi e Il Ragazzo e l'Airone lanciano sono per forza di cose molto diversi, quindi è un bene che i prodotti siano usciti nello stesso periodo nel nostro Paese così che il pubblico possa notare quanto sia importante riflettere sulla vita, le sfide che presenta, i dolori che può causare ma anche le incredibili gioie che valga la pena assaporare.
Il Ragazzo è l'Airone è un film tanto bello quanto difficile.
Nonostante il profondo orgoglio giapponese e il grande attaccamento alle tradizioni nipponiche, il Maestro Miyazaki in questo film prende in prestito da Hollywood un lusso che pochi altri maestri -seppur declinati al live action- si sono concessi: raccontare una storia più per se stessi che per il proprio pubblico.
Il titolo originale del film a questo proposito trovo sia più appropriato tanto per le tematiche trattate e come queste siano state espresse, quanto per preparare il pubblico alla visione: "E Voi, Come Vivrete?" L'omonimo romanzo del 1937 di Yoshino ha un ruolo importante sulle dinamiche di una storia, che, proprio come tante altre raccontate da Miyazaki nello Studio Ghibli affondano le loro radici nel period drama recente e soprattutto la II Guerra Mondiale: tre anni dopo il bombardamento su Tokyo in cui viene dato alle fiamme l'ospedale in cui sua madre perde la vita, Mahito ed il padre si trasferiscono in provincia alla tenuta di famiglia dove l'uomo si risposa con la sorella minore della moglie. Una nuova vita, una nuova casa, una nuova famiglia, una nuova scuola... destabilizzato in questo mondo alieno che lo rende incapace complici i continui cambiamenti di processare il lutto e voltare pagina, Mahito rifugge la realtà in ogni modo possibile ed inimmaginabile evitando il confronto con gli affetti (vecchi e nuovi) ed inseguendo qualsiasi distrazione possibile pur di non pensare. E qui entra in gioco l'Airone Cenerino, una figura misteriosa che trascinerà il ragazzo in un mondo fantastico svelando antichi segreti e verità nascoste sulla sua famiglia.
Il Ragazzo e l'Airone dicevamo in apertura, non è un film facile: a differenza del classico canovaccio Miyazakiano che vede l'eroe (e ancor più di frequente, l'eroina) della storia abbandonare il nostro mondo per viaggiare in mondi fantastici nei primi minuti del film, The Boy and the Heron ha un primo atto molto più lento, calmo, a tratti dispersivo per costruire un world building ed un parco personaggi molto ricco. Questa "carburazione lenta" ci permette da una parte di conoscere meglio Mahito e di famigliarizzare col suo dolore, ma al contempo ci fa scalpitare sulla poltrona come bimbi piccoli in attesa di salire sull'auto con i nostri genitori per partire alla volta di un viaggio o una vacanza: non vediamo l'ora di abbracciare l'avventura. Quando poi l'avventura decolla è uno spettacolo per gli occhi: un mondo ancora più empirico, visionario, sperimentale, con influenze passate e presenti alla filmografia dell'autore, ma meno palese ed esplicito: il simbolismo che permea questa sfera del film va ricercato con un occhio attento, minuzioso, perché le spiegazioni -e nemmeno tutte ad essere sinceri- arrivano solo alla fine. Miyazaki non spiattella la verità al pubblico, il viaggio dell'eroe è frammentato da numerosi pit-stop e personaggi e situazioni che apparentemente sembrano slegati dalla missione di Mahito e potrebbero sembrare meri virtuoismi riempitivi, ma il payoff viene offerto allo spettatore che ha la pazienza di godersi il viaggio, anziché la destinazione (sì soddisfacente, ma un po' frettolosa). E quando dicevo che questo film è "egoriferito" mi riferivo proprio al fatto che Miyazaki se ne frega di fornirvi le risposte che andate cercando, non è interessato a parlarvi di linearità nell'esposizione, Mahito è Hayao ed Hayao è Mahito: entrambi ricevono come dono dalla madre il romanzo da cui arriva il titolo originale della pellicola; entrambi hanno trascorso la vita ripudiando la realtà violenta e meschina della piaga della società ne mondo inseguendo scenari fantastici, sognando possibilità ed alternative migliori, e, proprio tramite il prozio del giovane protagonista possiamo apprendere delle paure per il futuro e dell'eredità postuma alla vita del Maestro che chiaramente non trova sicurezza nella prole, viste le avversità artistiche nei confronti dell'operato del figlio Goro. Ma tutto questo lo spettatore lo nota se conosce i trascorsi, la filmografia del maestro ed è pronto ad andare oltre dedicandosi al sottotesto.
Tecnicamente parlando invece il film è eccelso: l'animazione tradizionale la fa da padrone con sequenze fluidissime, dinamiche e dettagliate e il digitale gli viene in soccorso al bisogno in una maniera per nulla invasiva. Anche in questo film (forse marcata come non mai) ritorna la commistione tra occidente ed oriente che contraddistingue i film storici del Regista: dalle location che passano dall'essere costruzioni modeste e tradizionali e salottini ottecenteschi; dai risciò alle auto, dai kimoni ai completi, fino alla dinastia di Mahito stesso che ha connotati lontani da quelli tradizionali giapponesi. La colonna sonora di Hisaishi è una delle più belle ed ispirate con un paio di tracce tra cui il tema portante del film così delicate, intense e potenti che personalmente già la desidero candidata ai prossimi Oscar.
Il Ragazzo e l'Airone è il miglior film di Hayao Miyazaki e più in generale dello Studio Ghibli? Secondo me no, ma è sicuramente quello più intimo, maturo, personale e consapevole del Cineasta, una dichiarazione a cuore aperto di ansie, paure, sogni e desideri, e soprattutto anche una promessa a se stesso e al cinema rispondendo alla domanda nel modo più giapponese possibile:
E voi, come vivrete? Affrontando le nostre responsabilità.
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]]>Cronache del piccolo schermo.
In un periodo in cui tanto al cinema quanto in TV si tende a privilegiare lo forma dello spettacolo a discapito della sostanza dei contenuti, quanto è rinfrescante assistere ad una miniserie come Disclaimer, che mette sopra a tutto i personaggi.
Tratto dall'omonimo romanzo di Knight, la serie diretta in stato di grazia da Cuarón, racconta di Catherine (Cate Blanchett), affermata autrice di documentari che riceve per posta "Un Perfetto Sconosciuto", un libro di un'autrice sconosciuta che sembra dipingere un episodio specifico del suo passato che aveva però mantenuto segreto e che nessuno avrebbe dovuto conoscere, ha un attacco di panico. Quando qualcuno avvicina anche la sua famiglia e i suoi colleghi di lavoro mettendo loro la pulce all'orecchio agli eventi del libro, il mondo di Catherine rischia di sgretolarsi e inizia una corsa contro il tempo per risalire al responsabile e comprendere chi desideri distruggerla.
Un incipit striminzito per non svelarvi troppo della bellezza dello show, che ha una narrazione fitta e piena di svolte e colpi di scena insospettabili che ribalteranno completamente la prospettiva della visione e la percezione dei personaggi da parte degli spettatori. Disclaimer è una "revenge story" anticonvenzionale sotto ogni punto di vista possibile ed inimmaginabile: la voce narrante dello show non racconta ciò che succede a schermo ma i pensieri e le emozioni più intime dei suoi protagonisti (un cast stellare tra Kline, Baron Cohen e Partdridge) che vengono messe a nuido in maniera estremamente realistica e plausibile; una grande componente erotica che non scende a compromessi e viene messa in scena tanto dal punto di vista dei dialoghi quanto da quello visivo, con una George eterea e mozzafiato; la linea temporale degli eventi viene messa a schermo: dissolvenze a cerchio come un obiettivo di una macchina fotografica (elemento importantissimo ai fini della storia) per scandire gli eventi ambientati nel passato, una filigrana dai colori caldi e luminosi per differenziarli dalle tonalità più cupe e fredde che accompagnano gli eventi del presente; ultimo ma non meno importante è la componente italiana: mi rendo perfettamente conto che quanto sto per dire sia prettamente soggettivo ma rivedere alcuni scorci del nostro paese, l'impiego di alcuni brani musicali totalmente pertinenti da una parte a restituire la magia di cui lo Stivale è intriso da una parte e dare voce alle emozioni dei personaggi dall'altra.
Con una regia totalmente votata ai personaggi, capace di enfatizzare il loro spettro emotivo, una colonna sonora delicata e delle performance attoriali che gridano Emmy e Golden Globes a tutto spiano, Disclaimer è probabilmente la miglior miniserie dell'anno e non stupisce che a Venezia abbia riscosso più successo di tanti film: Cuarón prende il pubblico e gioca con la sua curiosità, stuzzica il suo aspetto più morboso, lo trasforma in giudice e carnefice e poi lo fa vergognare dimostrando quanto possa delle volte lanciarsi in giudizi troppo affrettati, e quanto sia indispensabile ascoltare due campane per avere una dimensione ideale in cui la storia si muova. Un trattato sociale che cambierà il modo di scrivere il drama sul piccolo schermo e che si conferma come uno dei fiori all'occhiello di Apple TV+.
I Winbury, una famiglia idilliaca costellata di artisti, persone facoltose e influencer si riunisce su un'isola nel Massacchussets per celebrare prima il 4 luglio, poi il lancio del libro della matriarca (Kidman) ed il matrimonio di uno dei tre rampolli della famiglia. Quando un lutto improvviso sconvolge i loro piani e la polizia locale inizia ad indagare oscuri segreti vengono alla luce, la famiglia Winbury si scopre meno idilliaca di quanto si crede... e il lutto potrebbe forse non essere accidentale come si crede.
Tratto dall'omonimo romanzo di Hilderbrand e adattata per la TV in una miniserie targata Netflix da Lamia (Resident Alien), lo show salta immediatamente all'occhio per l'incredibile cast di star: Kidman, Schreiber e Fanning su tuttə, che riescono con personaggi affabili, dialoghi contemporanei e sfacciati ad entrare immediatamente in sintonia col pubblico. The Perfect Couple è un mistery thriller che ha il pregio di mescolare atmosfere comedy a drama young adult facendosi scudo di uno dei temi tanto cari agli americani: le dinastie di ricchi bianchi privilegiate costruire su illegalità, dramma, tragedia e menzogne che una volta affermatesi nell'alta società un po' per noia e in po' per attitudine all'eccesso cedono a alcol, droghe e infedeltà. Quasi tutti i personaggi di The Perfect Couple sono sopra le righe, sboccati, e senza scrupoli, non spietati, senza scrupoli: non sono dei veri e propri villain, sono sempre convinti di essere dalla parte del giusto ed essere gli eroi di questa storia pur consapevoli delle proprie imperfezioni; questo crea immediatamente una discrepanza con il contraltare della serie, le forze dell'ordine, che invece rappresentano il pubblico, gli spettatori; la scrittura è un crescendo di rivelazioni e colpi di scena (alcuni telefonati, altri un po' meno, altri ancora... decisamente sensazionalisti e poco plausibili) con occasionali scene d'azione e momenti over the top. Bellezza, sensualità, denaro e potere in questo tipo di storie sono gli ingredienti di maggior successo, tuttavia per quanto godibile e discretamente curato sul fronte tecnico (la sigla d'apertura è deliziosa), basta consumare un po' di TV per rendersi conto di quanta poca personalità lo show abbia: il concept di Harper's Island, lo sviluppo di Big Little Lies e il registro narrativo de The White Lotus sono papabili dalla prima all'ultima scena risultando un po' una fotocopia che sa di già visto.
The Perfect Couple è una miniserie ritmata, scorrevole e godibile, un buon passatempo per il weekend, ma difficilmente si attesterà come una visione memorabile.
Il nuovo thriller psicologico creato e scritto da Morgan è un bel pasticcio. Situato nella fumosa, vibrante, sporca e fuori controllo New York degli anni "80 che lentamente stava abbandonando la sua piega razzista ma era ancora nel pieno del ciclone di quella omofoba, il figlio di Vincent (Cumberbatch), un burattinaio/attore in Good Day Sunshine un programma TV per bambini, sparisce nel nulla. Lo spettro della malattia mentale che aveva accompagnato l'uomo da piccolo -e mai realmente affrontata- insieme alla dipendenza di alcol e droga torna a manifestarsi con le sembianze di Eric, il nuovo personaggio che suo figlio aveva disegnato e proposto per il programma, suggerendogli di portarlo alla vita e presentarlo sul piccolo schermo, perché, se lo farà, il piccolo Edgar (Morris Howe) tornerà a casa.
La miniserie è molto ambiziosa e proprio per questo anche molto fragile nella sua esecuzione: Eric vuole raccontare il dramma di una famiglia, la gentrificazione della Grande Mela, la malattia mentale, la corruzione politica, il razzismo, l'omofobia e la disparità sociale intrecciando dramma, mistero, investigazione, sentimento e introspezione non riuscendo però a rendere giustizia a tutte le storyline nella giusta maniera. Alcuni potrebbero pensare che lo show meritasse più puntate per raccontare tutte queste cose, eppure la percezione di chi vi scrive è che la parte centrale risulti talmente annacquata e dispersiva che, le varie sottotrame esplorate per quanto socialmente e storicamente importanti non risultino sufficientemente interessanti ai fini della narrazione per ancorare lo spettatore al piccolo schermo. Sul fronte tecnico invece Eric brilla: Forbes presente alla regia di tutte le puntate palesa una direzione solida, con movimenti di macchina precisi ed attenti, soluzioni visive interessanti ed ispirate ed un mattatore che spogliato della tunica del Dr. Strange ci dimostra quale attore incredibile egli sia mostrandoci una performance sentita, versatile, vivida e dolorosa dalla prima all'ultima puntata. Plauso anche alla scelta dei brani inseriti nella colonna sonora volti ad impreziosire il racconto.
Un buon prologo ed un eccellente e soddisfacente epilogo guastati solo da una parte centrale, che se snellita probabilmente avrebbe reso questo viaggio più memorabile di come invece risulta una volta giunti all'ultima pagina.
La prima serie TV live action nell'universo cinematografico di Sonic ha un'identità davvero particolare, a tratti confusa, che mescola il registro e l'esecuzione di quanto già visto il film abbracciando a tratti una natura più kid e ad altri stranamente più adulta, al punto da farmi chiedere se lo show fosse davvero concepito per le famiglie o anche per i fan più grandicelli.
La premessa alla base della serie è piuttosto semplice: al termine di Sonic 2: Il Film, con Robotnik sconfitto il mondo ha ritrovato la pace, e mentre Sonic e Tails si godono la tranquillità in quel di Green Hills, Knuckles (Elba) che da quando ha memoria ha consacrato la propria vita alla via del guerriero fatica a trovare uno scopo. Chiedendo aiuto ai suoi antenati, si palesa lo spirito di Pachacamac (Lloyd) che gli affida una missione: addestrare il Vicesceriffo Wade Whipple (Pally) a diventare un guerriero, mentre prova a capire quale sia il suo posto nell'universo ora che il Master Emerald è sano e salvo. La serie si trasforma quindi in un bizzarro viaggio on the road in cui si mescolano spionaggio, complottismo, un torneo bowling, coming of age e famiglie disfunzionali. Il primo appunto da fare sul fronte narrativo è che, nonostante la serie si intitoli Knuckles, molto più spazio è stato dato al suo co-protagonista umano Wade, cosa che potrebbe probabilmente deludere i fan dell'echidna rosso ma che ha perfettamente senso per aggirare le problematiche di budget (medesima manovra attualizzata da un altro popolare franchise Paramount, Transformers), rendere l'esperienza godibile ad un pubblico di genitori ed al contempo raccontare una storia in cui il pubblico potesse identificarsi ed empatizzare; questo per chi vi scrive non è un vero e proprio problema perché è una condizione implicita a cui lo spettatore è dovuto scendere a patti tanto nel primo e ancor di più, nel secondo film dedicato al porcospino blu della SEGA; ma capisco che chi invece sia cresciuto con videogame, serie animate e fumetti possa invece trovare frustrante e a seconda dell'età anche cringe certe scene e situazioni perché qui arriva la percezione di 'stranezza' di cui accennavo in apertura recensione. Abbiamo sfidato a più riprese la sospensione dell'incredulità con i personaggi di Robotnik, Stone e lo stesso Wade, ma in questa miniserie le macchiette bizzarre e sopra le righe non si contano e le continue sequenze action, bislacche e dai dialoghi improbabili rendono Knuckles più vicino ad una versione family friendly di Ted anziché i film di Sonic. Non che sia un problema per i più grandicelli: in un paio di occasioni c'è sottotesto sessuale, ci sono battute di stampo politico e sociale (i parallelismi tra gli echidna e gli ebrei sono dissacranti) e sebbene non vi sia una rottura esplicita della quarta parete i personaggi delle volte agiscono e si relazionano come se fossero consapevoli di poter utilizzare frasi ad effetto per enfatizzare situazioni e scontri.
Tecnicamente Knuckles è invece sbalorditivo: la qualità delle scene action e della CGI è alla pari con i film e la coreografia delle battaglie è sempre di facile comprensione e godibile. Buone le scene in esterna -numerosi sono set e location- così come la valanga di easter egg e rimandi ai videogiochi originali e le strizzate d'occhio ad altre licenze Paramount (qualcuno ha detto Tartarughe Ninja?) e accenni ad eventi che potrebbero venire esplorati in Sonic 3: Il Film. Fiore all'occhiello della produzione è però il comparto sonoro con una playlist di pezzi rock ed hip-hop a scandire le puntate dove c'è spazio persino per una piccola ma ispirata opera rock.
Knuckles è uno show semplice, leggero e spensierato, con una scrittura interessante e divertente, un cast divertito e divertente, alcuni guizzi interessanti ed altri piuttosto infantili e poco riusciti, ma in linea di massima non si distacca troppo da quello che aveva già costruito al cinema e si rivela un primo esperimento coeso e interessante che con qualche aggiustata di tiro potrebbe dar via in futuro ad altri progetti collaterali basati su altri personaggi della saga (l'imminente Shadow su tutti).
Di adattamenti Il Talento di Mr. Ripley ne ha avuti parecchi, ma l'approccio scelto da Zaillian è talmente differente per registro, formato, scrittura ed esecuzione che avrebbe davvero poco senso fare paragone con i precedenti.
La miniserie Netflix racchiusa in otto episodi viene infatti girata interamente in bianco e nero e sin dalle prime battute racconta in chiave noir un thriller dal punto di vista di un vero e proprio villain come protagonista: il Tom Ripley di Andrew Scott è arrivista, glaciale e calcolatore; una vera mastermind criminale con cui è impossibile empatizzare anche se ci vengono offerti scorci del proprio passato, tenete a mente questo particolare perché dopo ci ritorneremo e sarà fondamentale. Questo contabile con la propensione alla truffa vive alla giornata nella New York degli anni "60 e quando gli viene offerta l'opportunità della sua vita di riportare dall'Italia il giovane rampollo della famiglia Greenleaf (Flynn), realizza piuttosto in fretta che desidera ucciderlo per rubarne l'identità e continuare a perpetrare la bella vita in Italia elaborando un complesso e malvagio piano criminale.
Il formato televisivo permette alla storia di godere di un minutaggio che concede un ampio respiro, e questo permette al racconto di esplorare dinamiche e registri differenti: a seconda del contesto Ripley è un drama, poi un racconto a tinte noir, un crime psicologico, successivamente un thriller, ma sorprendente anche una comedy ed uno dei biglietti da visita più onesti dell'Italia. Sono numerose le sequenze che premiano i nostri paesaggi, il nostro clima, la nostra cucina, la nostra moda, ma soprattutto la nostra storia, la nostra arte e la nostra musica; al di fuori del quadrato Scott/Flynn/Fanning/Summer (e una sorpresina nelle battute finali), tutto il resto del cast è nostrano e non solo restituisce un affresco dell'epoca ma regala anche interpretazioni convincenti e degne di nota. Tra questi citiamo Lombardi, Buy, Esposito, Crucitti... ma l'elenco dei caratteristi partenopei sarebbe interminabile. Lunghe sequenze interamente senza dialoghi accompagnate da scene di quotidianità, musica e arte dipingono uno scenario da dolcevita sempre perseguito dagli americani e che permettono qui in modo più disincantato e realistico di comprendere perché Ripley si sia innamorato della nostra cultura ed abbia visto in Caravaggio quasi un mentore, un insegnante. Il Ripley di Andrew Scott sensibilmente più agé di quello scritto dalla Highsmith è un cattivo di quelli veri: compie atti efferati ed è attento ad ogni singolo dettaglio, anche quello più scrupoloso; simula interrogatori e conversazioni prima di averle davvero coi suoi interlocutori ed è spietato e glaciale anche nel più difficile dei momenti. Un'interpretazione molto fisica la sua che in più di un'occasione restituisce anche un senso di realismo nel passaggio che dal pensiero lo conduce all'azione mostrando quanto sia difficile la strada del crimine... e per questo ha successo: finalmente un cattivo per cui lo spettatore non prova empatia, non riesce a fare il tifo ed anzi, non vede l'ora che commetta il più singolo e marginale errore affinché venga arrestato. Uno scenario che progetti più commerciali ma con lo stesso POV non siamo più abituati a sperimentare con progetti quali Joker, Crudelia, ecc. Tecnicamente Ripley è sontuoso: una regia splendida e fatta di dettagli e particolari sempre attenta, precisa e ogni tanto con guizzi di virtuosismo; ripaga la scelta del b/n (dando spazio a briciole di rosso solo in momenti specifici), ottimo il montaggio volto a cullare lo spettatore ed il missaggio della colonna sonora che tra suoni ambientali e musiche d'epoca immerge lo spettatore completamente nel racconto.
Probabilmente visto quanto è diventato iconico il film del 1999 e tutte le differenze che ne conseguono quali: la totale assenza di un aspetto romantico (soprattutto nella sua accezione gay) che viene affrontato esclusivamente tramite scene di corrispondenza epistolare; la scelta di un approccio diverso nella scrittura dei personaggi ed un Ripley un po' più in là con gli anni, potrebbe far storcere il naso ai fan dell'originale... ma chi vi scrive invece trova un solo ed unico difetto: un generale allungamento di brodo ed una perdita di pathos nelle ultime due puntate che potrebbero spezzare la tensione rischiando di perdere l'attenzione del pubblico, ma il payoff è talmente soddisfacente che è possibile passarvi sopra chiudendo un occhio.
Se riuscirete a giudicare questo adattamento esattamente per quello che è, non è difficile capire perché Ripley potrebbe fare incetta di nomination ai prossimi Emmy e Golden Globes.
Dopo una valanga di produzioni pretenziose intenzionate a raccontare il Giappone ma con un approccio culturale prettamente statunitense, finalmente arriva Shogun, una splendida miniserie che racconta usi, costumi, pregi (e atrocità) di una cultura terribilmente affascinante e che negli anni ha spadroneggiato nell'immaginario collettivo del pubblico occidentale.
La premessa è quella di adattare l'omonimo romanzo di Clavel trasportando gli spettatori dritti dritti nel Giappone del 1600 dove a seguito della scomparsa del Taiko i cinque reggenti tramano nelle retrovie un modo per agguantarsi il potere e guadagnarsi la nomina di Shogun. Sullo sfondo degli intrighi politici del Sol Levante si affaccia una trama dal sapore più internazionale che vede l'arrivo di un vascello olandese in cui il Pilota inglese protestante (Jarvis) mira a creare un'alleanza di scambi con il Giappone in barba ai nemici portoghesi cattolici che stanno poco a poco all'insaputa dei nipponici colonizzando l'Asia. Quando il potente busho e signore del Kanto Toranaga (Sanada) scopre le intenzioni dell'Anjin lo prende sotto la sua ala come alleato intenzionato a scoprire tutti i segreti e le arti di combattimento del suo popolo sfruttando le doti di interprete della nobile Mariko (Sawai) con cui inesorabilmente scatterà un travolgente sentimento nei confronti di Blackthorne.
Le premesse di Shogun sono molto simili a quelle de Il Trono di Spade, sebbene con due sostanziali differenze: la totale assenza di elementi sovrannaturali (c'è una grande componente esoterica e spirituale che permea la ritualità, le azioni e la coscienza dei suoi protagonisti, ma lo show non lascia mai dubbi su quanto sia realistico e come tutto il resto rimanga vincolato alla sfera della fede), e nessun crollo narrativo sul finale. Complice l'adattamento fedele del libro - che a differenza di Game of Thrones una conclusione ce l'ha - gli spettatori avranno la possibilità di avere un vero e proprio epilogo.
Tecnicamente la produzione è maestosa: panorami mozzafiato, location e set dettagliatissimi, costumi e makeup incredibili e una valanga di comparse. Regia, montaggio e fotografia esaltano il tutto impreziosendo la produzione di prestigio ed offrendovi grande prestigio. Shogun non strizza l'occhio al fanservice ed usa tutto solo al bisogno: grandissime e crude sequenze d'azione, scene di sesso quando l'intimità prende il sopravvento e tante, tantissime sequenze di dialogo dal registro altissimo... e che forse potrebbero tediare lo spettatore generalista abituato ad un ritmo maggiormente serrato. Un altro ostacolo per il pubblico medio potrebbe essere l'alto numero di dialoghi sottotitolati, ma che nel contesto della narrazione diventano fondamentali per affrontare le barriere linguistiche tra i personaggi.
Shogun è un incredibile esempio di narrazione televisiva d'alto livello dal respiro internazionale capace di mescolare intrighi di sesso, politica e potere che sicuramente nel corso della prossima stagione di premi figurerà tra i grandi protagonisti.
Quando in TV o al cinema si racconta di stalking o violenza si tende complice l'ovvia statistica a raccontare il punto di vista femminile, raramente quello maschile. Ecco perché Baby Reindeer diventa un prodotto estremamente importante: non solo affronta in modo sincero, spietato e senza tanti fronzoli il problema ma approfondisce sul fronte umano le conseguenze degli abusi sull'abusato portando lo spettatore ad empatizzare così tanto con il suo protagonista al punto da provare lo stesso dolore, la medesima angoscia con la consapevolezza che questo racconto sia purtroppo ispirato ad una sconvolgente storia vera.
Questo perché Gadd oltre che essere il protagonista, l'autore ed il produttore della serie è anche la reale vittima degli abusi, un attestato di grande coraggio e forse liberazione nel momento in cui c'è quello splendido monologo di sfogo a cuore aperto. Il suo Donny racconta una storia che per quanto romanzata e spettacolarizzata per fini televisivi è spietataments sincera. In un contesto in cui è facile pensare ci siano solo buoni e cattivi, Baby Reindeer approfondisce in modo viscerale e drammatico le vulnerabilità dell'animo umano, la sofferenza e l'incapacità di reagire a ferite e soprusi causando problematiche a catena.
Ad una narrazione potente serve una realizzazione tecnica altrettanto potente, e nel primo, quarto e settimo episodio questo è esattamente ciò che succede: una regia coraggiosa e piena di virtuosismi offre soluzioni interessanti che permettono giochi di camera interessanti che insieme al montaggio ed una colonna sonora studiata tanto nella sslection di pezzi quanto nelle score originali permettono il giusto mix di leggerezza e dramma. Perché Gadd è uno standup comedian e riesce ad infarcire lo show di momenti ilari e ben riusciti essendone il narratore volti anche a spezzare la tensione quando l'ombra di Martha (una fantastica Gunning) si affaccia scatenando terrore nel pubblico. Qualcosa scricchiola in corso d'opera: la produzione delle altre puntate funziona certo, senza particolari guizzi e con un ritmo di scrittura e messa in scena più sbilanciato e dispersivo, al punto che alcune sequenze sembrano un allungamento di brodo.
Baby Reindeer è una miniserie potente, violenta, strappalacrime, coinvolgente e sconvolgente che ha lo scopo di sensibilizzare la coscienza pubblica della nostra società e attenzionare anche politica e autorità su quanti cavilli e problematiche siano ancora presenti per chi decide di denunciare e chiedere aiuto.
È solo metà gennaio ed ho probabilmente visto il finale di stagione più visionario e surrealista dell'anno.
The Curse nasce dal genio combinato di Fielder e Safdie che recitano nella serie a fianco di una splendida ed ispirata Stone in quella che è una delle produzioni più ambiziose, sperimentali e naif degli ultimi anni. Prodotta dalla A24 lo show parla di una coppia di neo-sposi intenzionata a lanciare uno show televisivo in streaming dedicato alla riqualificazione delle case in un paese situato sul confine tra USA e Messico portando la contaminazione di diverse culture locali. Quando a seguito di un fraintendimento Asher (Fielder) viene "maledetto" da una bambina la sua vita sentimentale e professionale va lentamente a rotoli a seguito di incidenti e sfortune. Inizialmente l'uomo non dà peso alle parole della bimba, quando però si confida con la moglie Whitney (Stone) e il miglior amico nonché regista e produttore dello show Dougie (Safdie) capisce che deve provare a fare ammenda per scrollarsi questa maledizione di dosso. Da questo incipit piuttosto banale si susseguono tantissime storie e racconti collaterali che vanno a sovrapporsi e mescolarsi portando in scena problemi di ogni tipo nelle più disparate sfumature: relazionali, coniugali, sessuali, famigliari, d'amicizia... passato e presente si mescolano portando alla luce traumi insoluti, scheletri nell'armadio e repressioni.
The Curse è un viaggio all'interno dello spettro emotivo dell'essere umano mostrando debolezze, vizi, capricci, timori, bisogni e desideri che popolano la nostra quotidianità. La regia è quella caratteristica dei prodotti d'essai e surreali, plausibilmente figlia di Lynch e Gilligan tanto che è possibile rievocare momenti ed atmosfere spesso già assaporate in prodotti quali Twin Peaks e Breaking Bad: sono numerose le sequenze di silenzio che si concentrano maggiormente su dettagli e particolari, che si perdono in primi piani e sequenze (apparentemente) slegate alla trama principale e proprio per questo potrebbero ragionevolmente scoraggiare lo spettatore medio, occasionale e votato ad una visione passiva che necessita risposte e spiegoni. Ebbene, lo show ama perdersi in momenti di quotidianità in cui i personaggi si aprono, mostrano nervi scoperti e parlando del più e del meno offrono tutti gli strumenti che servono allo spettatore che si pone alla visione in modo attivo di unire i puntini e trovare una risposta. Il finale, che sembra completamente over the top è in realtà la conseguenza ultima del titolo e che era stata profetizzata dallo stesso Asher solo una puntata prima... ma quanti nel pubblico hanno realizzato davvero questa cosa?
The Curse premia il pubblico attento e partecipe, quello che gode delle visioni impegnate, del sottotesto e vive perdendosi tra le righe. Non a caso per tutta la serie si fa beffe della TV spazzatura, delle logiche produttive alla base dei reality e dell'ipocrisia di cui questo sistema è pregno, mostrando uno spaccato tra esperienza in camera e dietro le quinte tremendamente realistico in ogni singola bassezza. Qui la serie diventa quasi documentaristica presentando un mondo pieno di falsità e menzogne, ma anche di personaggi umani in tutte le loro fragilità, impegnati a seguire il loro aspetto migliore per salvaguardare i rapporti personali, quelli lavorativi, l'opinione pubblica sui social... a costo di sacrificare anche i propri principi seguendo la corrente.
Da tenere d'occhio questa A24, che dopo aver fatto la differenza sul grandeschermo ora sembra intenzionata a prendersi anche quello più piccolo.
L'eterna lotta tra scienza e religione, razionalità e fede, casualità e destino, mente e cuore ambientato però nell'America degli anni "50 con al centro tematiche importanti quali femminismo, emancipazione, razzismo, omofobia e classismo.
La storia è scritta in maniera attenta, delicata, brillante, squisitamente dolce e con un pizzico di divertimento. Negli otto episodi c'è spazio per raccontare tante storie diverse di tanti personaggi diversi a cavallo tra passato e presente, in cui ci vengono svelati segreti, mostrati colpi di scena e presentate diverse soluzioni visive e creative ricche di sperimentazione e coraggio. Nonostante Lezioni di Chimica sia una serie spesso corale e con episodi focalizzati sui punti di vista di diversi personaggi è indubbio che il cuore dello show sia una fantastica Brie Larson capace di mostrarsi fredda, calcolatrice, goffa, brillante, dolce, fragile, coraggiosa, forte, sensibile e con tantissime altre sfumature, in quella che potrebbe essere una performance degna di venire ricordato come career role.
Qualcuno potrebbe tacciare Lessons in Chemistry di essere smielato e lezioso, però credo che lo show -tratto per altro da un omonimo libro- provi a bilanciare momenti crudi a delicati, duri a morbidi, drammatici a divertenti, proprio come uno slice of life dovrebbe fare. Sul fronte tecnico nulla da eccepire: con una fotografia cinematografica ed una narrazione ad ampio respiro in cui una regia scolastica ma intelligente ed una soundtrack d'epoca ed ispirata si intrecciano, confezionano un piccolo gioiello del period drama più recente che ancora oggi si dimostra tremendamente attuale.
Con l'anime di Scott Pilgrim ero convinto avrei potuto rivivere l'avventura della graphic novel originale di Bryan Lee O'Malley in maniera espansa e più fedele rispetto a quanto il film live action di Edgar Wright potesse offrire complici problematiche legate al minutaggio, il budget ed ovviamente i limiti che offre un prodotto live action... e invece quello che O'Malley e Wright hanno fatto con Scott Pilgrm: La Serie è esattamente lo stesso identico processo creativo che il maestro Hideaki Anno ha applicato con Evangelion Rebuild.
E me lo sarei dovuto aspettare già dal titolo originale della miniserie: "Takes Off", perché dopo una premiere che in maniera fedele ricostruisce per filo e per segno il primo atto del fumetto e del film, il finale della puntata prende il volo con un colpo di scena incredibile in cui Scott Pilgrim "decolla", "prende il volo"... "se ne va." Ed è l'occasione ideale per esplorare nuove dinamiche, scenari e relazioni dei comprimai e dell'incredibile parterre di protagonisti della serie dal punto di vista della co-protagonista, Ramona Flowers che dovrà risolvere un mistero che coinvolge tutti i personaggi dell'opera. Ponendosi come starting point ideale la miniserie può quindi essere vista da chiunque ma, se avrete visto il film ed ancor meglio letto la storia originale questo show vi arriverà in maniera completamente fresca, attuale, matura e incredibilmente intelligente, offrendovi quindi una nuova prospettiva all'universo creato da O'Malley. Tutto ciò che avete amato di Scott Pilgrim è sempre lì: dai riferimenti alla cultura pop più disparati all'estetica cartoonesca e videoludica dalle grandi influenze nipponiche, dal flow delle musiche indie, pop, rock ed elettroniche alle sbalorditive e spettacolari sequenze action... ma stavolta c'è anche uno sguardo al futuro, all'introspezione di personaggi dapprima utilizzati solo come macchiette e soprattutto ad una rilettura dei POV che portano anche a cambiamenti drastici e spiazzanti capaci di impreziosire alcune delle personalità più monolitiche (Todd, Wallace e il Giovane Neal su tutti) trasformandosi dal racconto di Scott a quello di una generazione.
Tecnicamente parlando ScienceSARU ha fatto un lavoro incredibile riuscendo a catturare e restituire completamente lo spirito del design originale delle tavole di O'Malley e sposarle a frenetiche scene in cui 3D e CGI si fondono magistralmente a più classiche animazioni 2D, con una regia sperimentale e giocherellona capace di celebrare cinema, live action, cartoon ed anime; sul comparto sonoro non siamo da meno con le splendide canzoni originali del film e delle ispirate tracce strumentali composte dagli Anamanaguchi che già si occuparono della soundtrack del videogame Scott Pilgrim VS The World, inoltre sul fronte del doppiaggio se in America è ritornato a dar voce ai rispettivi personaggi il cast originale in toto, in Italia lo stesso si è fatto con i doppiatori del film dell'epoca restituendo totalmente l'effetto nostalgia.
Scott Pilgrim: La Serie è una produzione solida, granitica e dal coraggio titanico. Scegliere un franchise iconico così amato e decidere di ricostruirlo e reinterpretarlo per continuare ad essere costantemente rappresentativo e moderno è stata una scelta rischiosissima, e probabilmente non tutti ne saranno soddisfatti perché la sospensione dell'incredulità viene messa a dura prova, ma se ci si fida arrivati all'epilogo non si avrà la percezione di un "Game Over", bensì con gli occhi lucidi, un sorriso che va da un orecchio all'altro ed il cuore pieno non si vedrà l'ora di giocare il prossimo capitolo.
Grazie per quest'opera così piena di passione, coraggio e amore.
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