Quello che segue è un post, non un saggio sul signoraggio. In esso si prescinde totalmente dall’analisi marxiana del valore, del denaro e della moneta. I brani marxiani proposti alla fine del post si possono considerare quasi delle digressioni incidentali di carattere storico sul debito pubblico e, implicitamente, su quello che noi chiamiamo “signoraggio”. Marx è uno degli autori più citati e meno conosciuti della letteratura scientifica; non è un caso e tale evidenza è confermata dal livello di miserabile mistificazione in cui ci dibattiamo ogni giorno.
Nei tempi antichi, superata la fase del baratto, quando la base monetaria consisteva esclusivamente in metallo prezioso (equivalente universale), chiunque ne disponesse poteva portarlo presso la zecca di stato dove veniva trasformato in moneta. Il “signoraggio”, così come fu chiamato a partire da una certa epoca, non era altro che il compenso richiesto dagli antichi sovrani per certificare, attraverso la propria effigie impressa sulla moneta, la purezza e il peso dell’oro, dell’argento o del bronzo e garantiva potere liberatorio nei rapporti di scambio. A ciò si aggiungeva un piccolo costo per il conio delle monete pagato dal privato alla zecca statale. I diritti spettanti al sovrano e il costo di conio erano esatti trattenendo parte del metallo prezioso, ed infatti il valore nominale della moneta e il valore intrinseco non coincidevano perfettamente; l’imposta sulla coniazione serviva a finanziare la spesa pubblica.
Bisogna tener conto che la moneta metallica aveva un proprio valore intrinseco perché costituita da pezzi coniati in metalli pregiati, cioè in valori di scambio aventi titolo di equivalente universale; essendo tali metalli delle merci, esse stesse fungevano da misura del valore delle altre merci. Quando il sovrano o lo stato chiedevano un prestito ad un banchiere privato, questi in cambio di un interesse cedeva a credito dei valori effettivi sotto forma di moneta coniata in metallo pregiato, oppure titoli di credito che avevano una copertura effettiva nelle riserve auree o argentee della banca.
Da molto tempo ormai questo stato di cose è mutato. Il moderno signoraggio ha assunto una dimensione che va ben al di là di una semplice tassa per il diritto di emissione. Ma leggiamo cosa ha da dire in proposito la Banca d’Italia in un suo documento ufficiale:
«Ai giorni nostri, un governo che voglia utilizzare il signoraggio per finanziare il proprio deficit non ricorre alla stampa diretta di moneta, ma utilizza un procedimento indiretto. Il Tesoro emette titoli governativi fruttiferi [titoli di stato] per un importo pari al deficit da finanziare. Ma, anziché essere collocati presso i risparmiatori, tali titoli vengono sottoscritti dalla banca centrale […]. La banca centrale stampa quindi il denaro necessario per acquistare i nuovi titoli di stato emessi, e lo consegna al Tesoro nazionale, che se ne serve per compiere i propri pagamenti».
Chiaro? Oggi non è più lo Stato direttamente a battere moneta, ma la banca centrale, cioè un istituto privato che la moneta la stampa semplicemente. Tale stampa ha un costo modestissimo di carta e inchiostro, ma soprattutto essendo tale moneta cartacea priva di qualunque copertura aurea o valutaria, in realtà la banca non presta nulla allo Stato (se non appunto moneta cartacea priva di valore intrinseco) e riceve in cambio titoli di stato di pari importo che la banca commercializza facilmente sul mercato. In sostanza la banca compie solo una registrazione contabile del prestito, ma riceve al contempo titoli di stato che vende sul mercato e che rappresentano il debito pubblico (è chiaro che a scadenza dei titoli questi vengono rimborsati, ma è altrettanto evidente che vi è una costante creazione di un'enorme leva finanziaria di cui la banca dispone). In tal modo lo Stato ha trasferito alla banca quello che un tempo era la sua sovranità monetaria e il “signoraggio” viene così a includere un vero e proprio potere sul debito.
Questo, grossomodo, in poche e semplici parole è l’arcano del “signoraggio” di cui tanto spesso si discute. Scrive Marx nel I Libro de Il Capitale, cap. 24 (Einaudi pp. 926-928):
«Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico […].
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.
Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale […].
Poichè il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d’interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia in seguito un aumento delle imposte. D’altra parte, l’aumento delle imposte causato dall’accumularsi di debiti contratti l’uno dopo l’altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l’ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per render l’operaio sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui l’influsso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione dell’operaio salariato, qui ci interessa meno dell’espropriazione violenta del contadino, dell’artigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe media, che il sistema stesso porta con sé. Su ciò non c’è discussione, neppure fra gli economisti borghesi. E l’efficacia espropriatrice del sistema è ancor rafforzata dal sistema protezionistico che è una delle parti integranti di esso.
La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale ad esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nell’espropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni».