Un pomeriggio al sole
(La paura di dimenticare)
La signora Anita era seduta sulla panca appoggiata al muro bianco della casa , e , rilassata , offriva le membra al caldo abbraccio del sole di luglio, per raccoglierne tutto il calore, fino a riscaldare il midollo delle ossa , attraverso quella strana pelle un po’ avvizzita , attraverso quelle vene così evidenti sotto il colore dorato dell’epidermide , per far riscaldare anche gli organi interni che, a suo dire, conservavano ancora il freddo del suo passato.
La figura dalle forme scarne, i capelli bianchi come la neve, che contrastavano con l’abbronzatura del viso, il naso aquilino, spartiacque tra i due laghi profondi e scuri degli occhi, tutto era offerto al sole, perfino le dita restavano aperte e distese per accogliere il calore.
Era capace di restare immobile per ore, su quella panca dura, con le spalle ed il capo appoggiate a quel muro bianco, nell’angolo del giardino trasformato in orto, dove il sole d’estate indugiava dal tardo mattino al pomeriggio inoltrato, creando un’oasi di luce nella quale trovavano rifugio, insieme ai gatti, la signora Anita e le villeggianti che ospitava nella sua grande casa.
Nei pomeriggi di sole, abbronzarsi era un modo di trascorrere insieme qualche ora nell’ovattato sopore del “dopo-mangiato”, scambiando pensieri e desideri, sogni e ricordi, in un disordine selvaggio e pieno di fantasia.
La grande casa bianca, con le persiane ed il tetto scuri, aveva due entrate: sul davanti al piano terra e sul dietro al primo piano, così da rendere i due spazi indipendenti.
L’estate il piano superiore ospitava sempre qualche famiglia che voleva trascorrere qualche mese in montagna, in quella valle verdissima, con il torrente che scorreva a fondo valle , il Biois, con le case arrampicate sul fianco esposto a levante, così da prendere il sole da quando compariva dietro il crinale del monte di fronte, sino a quando scompariva alle spalle di quello al lato lontano.
Il piccolo paese, sulla statale che portava ad uno dei passi delle Dolomiti, viveva del turismo estivo ed invernale.
L’aria tesa, lavata dalle fronde dei boschi e profumata dalla resina dei pini di montagna, rinfrancava i polmoni e lo spirito di chi la respirava.
La signora Anita e le sue amiche, sedute sulla panca, osservavano, filtrando la luce tra le ciglia socchiuse, i bambini che giocavano girando dietro lo steccato, per nascondersi sotto alle panchine del piccolo chiosco di legno, costruito in mezzo al prato scosceso, nell’unico terrazzamento esistente, e ricordavano le avventure belle e brutte del passato.
Una bimba dagli occhi curiosi, paffutella e pigra, adorava sedersi ai loro piedi per ascoltare le “fiabe” di vita vissuta.
La signora Anita era ebrea, e ,negli anni della guerra, era una giovane sposa che viveva nel ghetto di Venezia. Abitava in una delle Calli, aveva una bella casa con le stanze grandi e luminose, raccontava, con l’altana che guardava i tetti delle case sul Canal Grande. Se si sporgeva un po’ vedeva il campanile di una chiesa, Venezia è piena di “cese”, “canaii”, “gati”e..”sorsi” (topi) naturalmente, le vecchie e care “pantegane” che “le spaventa anca i gati coi so oceti rossi come el fogo”.
Nel ghetto di Venezia le leggi razziali, all’inizio, venivano interpretate un po’ a modo loro, la gente era abituata a convivere con razze e religioni diverse, mori, arabi, nordici, slavi, turchi, ostrogoti e, forse, i veri nemici, per un veneziano erano gli austriaci, quelli del ..”..sul ponte sventola bandiera bianca.”! Quelli erano ancora nel sangue dei veneziani e quel “bafetin” di Hitler era austriaco, e Mussolini “ghe ‘ndava drio!”…”tute monade! I ‘brei xe venesiani da sempre, no i xe miga foresti, … par cosa vuto che i sia nemisi!”!
Solo pochi accettavano le norme razziali, la maggior parte dei veneziani continuavano la loro vita senza dar retta alle grida fasciste o naziste.
Venezia è, ancor oggi, una repubblica a se stante nel sangue dei suoi cittadini, la mentalità del vero veneziano autoctono è il prodotto di secoli di vita sul mare, di commerci di tutto e con tutti. La vera “razza superiore”, per chi è nato a Venezia, è il veneziano puro, frutto della miscela dei più pregiati DNA, selezionati dalla vita dura del marinaio, dell’esploratore, del commerciante.
Anche il dialetto è una barriera per gli estranei, solo se nasci nelle calli, tra l’odore dell’urina dei gatti, mescolata alla salsedine e alla muffa dell’umidità permanente , solo se muovi i primi passi sul granito lucido dei corridoi in penombra, solo se succhi il latte da un seno offerto davanti ad una finestra sul canale, solo se ti addormenti con la nenia della “Nineta” , solo allora fai parte di quella razza eletta, che non rinuncia alla sua flemma se non per bestemmiare quando interferisci con la loro quiete, di quella parte di umanità che non permette ad alcuno di imporle il suo pensiero, capace di rispondere, magari tra i denti, senza mai chinare, se non in apparenza, il capo.
Così la signora Anita ed il suo piccino continuavano a vivere nel ghetto, dovevano solo fare attenzione a non incappare in qualche stupido “foresto” che non avrebbe rispettato le regole non scritte.
Ma il tempo e la guerra cambiano tante cose, ed anche tra i veneziani “doc” qualcuno cambia idea.
Quelle case nel ghetto sono belle e le camicie nere sono autorizzate a prenderne possesso.
Gli ebrei hanno il meglio del commercio a Venezia, le botteghe più in vista sono le loro. Ed allora perché non perseguitare gli ebrei? Farli sparire e prendersi tutto?!
La signora Anita ha tanti amici “ariani “ che non sono d’accordo con le “sparizioni” legalizzate e le offrono aiuto.
Lei sa su di chi può contare, ma è pronta a tutto, anche al tradimento, il mondo è diventato così strano!
-“ Una mattina , saranno state le tre e dormivamo tranquilli, ma, come sempre ormai, con un occhio solo perché giravano voci di retate improvvise sempre più frequenti, quando sento bussare piano alla porta.
Mi alzo subito, era il Nani che, con gli occhi stralunati, mi diceva che i fascisti stavano portando via tutti quelli della zona ed erano già dal Notaio Camberle, e stavano arrivando anche nella mia zona!
Non chiedo niente , corro in camera e m’infilo i vestiti pronti sulla sedia, preparati nell’evenienza che… già! Proprio di dover scappare in fretta.
Prendo la borsa preparata nell’armadio, poi corro a prender Pietro nel suo lettino , non lo vesto ma lo avvolgo bene nella coperta, Lui mi guarda in silenzio, ha capito che non deve piangere, non so perché, ma sa che non deve farlo. Lo stringo al petto e passo la borsa a Nani, nella borsetta ho già tutti i soldi e gli ori (era pronta anche quella), poi, giù per le scale, saranno passati al massimo tre minuti, e via nella calle scura attaccati alle pareti viscide, verso le fondamenta nuove , dove abita la Rosy, la sorella del Nani, che “..la ne speta “..
Dio! La paura! Non credo di aver mai tirato il fiato per tutto il tragitto!…ma la strada era libera, i fascisti erano dall’altra parte.”
La signora Anita fissa con gli occhi socchiusi un punto lontano, quasi il ricordo fosse un film proiettato sulla montagna di fronte.
Le parole fluiscono dalle labbra sottili, dipinte con un rossetto rosso carminio, che s’infiltra nelle piccole rughe attorno alla bocca. La voce è sommessa al ricordo del “cuore che batte impazzito”, degli occhi spalancati nel buio, del bimbo che non piange, della corsa nella notte, del rumore degli scarponi dei soldati che si allontana alle sue spalle.
Il Nani era il “fratello di latte” di suo marito, quel suo primo ed unico amore, partito per lavoro da tre mesi e sparito nel nulla. Mille ipotesi.. tante ricerche… le voci di treni rastrellati.. secchi di lacrime, un bimbo da curare e proteggere…. in quegli anni nessuno poteva fermarsi a compiangersi. Si doveva combattere per sopravvivere, per trovare, con il pane quotidiano, la speranza di un domani.. qualsiasi domani fosse, ma sempre domani.
Il momento storico era pieno di mostruosa stupidità e bestialità e le lacrime erano un lusso.
Per fortuna c’erano gli amici veri, quelli che mettono a rischio la loro vita per aiutarti, meglio dei fratelli, molto meglio di tanti parenti.
Che corsa verso la casa della Rosy, e poi in silenzio su per le scale, poi dietro la porta dello sgabuzzino, con il rumore dell’armadio tirato avanti per nasconderla,…
¬ “ Zitto mio piccolo amore, zitto zitto e fai la nanna, la mamma ha paura, ma tu non devi piangere, non fare rumore..”
La luce fioca della candela faceva brillare quegli occhi neri come se dentro ci fosse una brace, le piccole mani si muovevano, una afferra una ciocca di capelli neri, l’altra infila il pollice in bocca, e pian piano, il sonno interrotto riprende lieve la via dei sogni.
In lontananza si sentiva lo sciabordio dell’acqua del canale e qualche voce acuta portata dalla brezza mattutina, la candela, quasi finita, si stava spegnendo, non c’era molta aria nello sgabuzzino, la branda preparata da tempo, lo occupava quasi per intero.
Meglio scegliere come rifugio una stanza senza finestre, perché i tedeschi contavano le finestre prima di controllare le stanze! Picchiavano anche i muri per sentire se c’era il vuoto.
Il campanile segnava le ore.
Le quattro, nemmeno i gatti giravano più per Venezia durante la notte, tanti erano scomparsi, pochi continuavano a guardare la luna dai tetti.
Silenzio e solo silenzio, che portava le voci lontane.
La signora Anita si ferma, persa nei sui pensieri, la casa lasciata in fretta, nemmeno il tempo di chiudere a chiave…già tanto buttano giù la porta! .. non si torna indietro per rischiare la vita per due vestiti. Nella borsa c’era tutto quello che serviva. …il po’ di denaro rimasto, i gioielli, la foto di mamma e papà, morti da ….. secoli… la foto del matrimonio.. i certificati … i vestiti di ricambio, il fornellino a spirito per scaldare qualcosa … non si sa mai.
Gli occhi socchiusi nella luce del pomeriggio sembrano frugare ancora nella borsa, le mani offerte al sole muovono impercettibilmente le dita, come in un gesticolare negato. Nell’improvviso silenzio l’atmosfera si riempie dello stormire delle fronde accarezzate dalla brezza pomeridiana, mescolato al fruscio del torrente che scorre in fondo alla valle.
La signora Anita rincorre i ricordi mentre le ascoltatrici sono ancora avvolte dalle sue parole, solo la bimba avida di “storie” non sa attendere il normale flusso degli eventi ed incalza la ripresa del racconto con :
¬ “ …poi sono arrivati i crucchi?”-
La denominazione gergale suscitava , nella piccina, l’immagine dello stereotipo del Tedesco con gli stivaloni lucidi e gli occhi di ghiaccio, che incuteva terrore al solo apparire, figura, per antonomasia, del male.
Un sorriso appena accennato rivela il piacere per l’interesse suscitato, ed un lungo e lento respiro precede la continuazione del racconto:
¬ “Per fortuna avevano fatto il pieno nel ghetto e non hanno pensato di continuare col resto di Venezia. Alle sei della mattina il Nani e la Rosy ,pian piano, spostano l’armadio per farci uscire.
“ No ghe se più nisun in giro , te pol vegner fora, cosi parlemo del da farse.”
Sono uscita come da se fossi qualcun altro, non riuscivo nemmeno a pensare, le gambe sembravano piene di botte da quanto dolevano, non avevo quasi più sangue nelle vene, solo acqua, nella quale dondolava il cervello come se fosse in gondola, stavo per svenire e la Rosy mi ha preso sottobraccio e fatto sedere sul sofà.
¬ Per quella volta l’avevo scampata, ma dovevo riuscire a recuperare la lucidità per pensare a dove andare, non potevo stare a lungo a Venezia, non era più sicura, ma dove andare? Avevo immaginato tante volte l’evenienza, ma in quel momento non riuscivo proprio a pensare; la paura era stata tanto grande che mi aveva fatto dimenticare anche che cosa voleva dire pensiero! Solo le immagini della notte riuscivano a passare le barriere della paura generando altra paura! Vedevo le ombre dalle quali spuntavano i fantasmi delle guardie, sentivo ancora dietro le mie spalle il respiro affannoso del Nani, (Che Dio lo Protegga come lui ha protetto me e Pietro, è l’uomo più buono che ci sia al mondo,) sentivo ancora il puzzo del canale e le voci che gridavano “Rauss!!”, tutto il resto non lo capivo, anche le voci che mi parlavano sembravano essere altrove.
¬ “ Tien! bevi el se cafè de orzso, ma almanco el se caldo e sucherà! Così el te tira na scianta su! Bela stremida sta note eh! ”.
¬ La Rosy cercava di rincuorarmi con la sua tranquilla serenità, riportandomi alle normali esigenze quotidiane, e lentamente io ricominciavo a rivivere, come quel sole che sorgeva, dalla bruma del mattino, nelle calli di quella Venezia che conoscevo tanto bene. Pietro dormiva tranquillo nella branda, con le braccine appoggiate al cuscino, indifeso e tenero, dovevo pensare a lui, pensare dove andare e come arrivarci! “
L’espressione della faccia rivolta al sole rivela, anche sotto la rigidità della posizione, l’angoscia mai dimenticata di quel momento.
I bambini corrono intorno berciando come scimmiette allegre, ed il vento continua a raccontare le sue favole passando tra i rami. La bimba accovacciata nel sole guarda rapita le rughe del volto, che si accentuano nelle varie espressioni.
¬ “Il Nani e la Rosy andavano e venivano dalla stanza affaccendati nelle incombenze quotidiane, tutto doveva restare normale per non suscitare l’interesse dei vicini. Erano gente fidata, ma non si poteva mai dire….meno persone al corrente dei fatti e maggior sicurezza.
Ma non era opportuno restare. Sia il giorno che la notte decine di occhi spiavano da dietro le persiane. L’effetto peggiore di quel regime era il sospetto che aleggiava anche nelle famiglie stesse.
Pensate che alcuni genitori, fascisti convinti, spingevano i figli, sin dalle elementari, a controllare i compagni e i maestri e, poi, riferire loro.
Potete immaginare quanti innocenti finivano ai Piombi, torturati e anche uccisi di botte!!
“I Bocia no i ga miga el discernimento par capire serti discorsi! Spero che quella gente la staga brusando nel più profondo dell’inferno!”!
Dove potevo andare? Come fare per non far correre rischi a quella brava gente!? Essere Ebrei o aiutare gli Ebrei era la stessa cosa. Finivi comunque nel gruppo di quelli che mandavano in Germania! “.
Il sole scottava sulla pelle, solo la brezza fresca che spirava dalla valle verso il monte concedeva di offrirsi in quel modo ai suoi raggi.
La signora Anita, invece, si rifugiava nell’angolo protetto, dove anche il muro scottava, ed il riverbero della parete, imbiancata a calce, faceva socchiudere gli occhi della bambina, che non abbandonava neppure per un istante di fissare il volto scavato, per coglierne la più piccola espressione.
Anche Pietro, di tanto in tanto, si univa al gruppo, e , per un po’, ascoltava le storie, prendendo il sole seduto sul ceppo di legno di un vecchio albero, tagliato tanti anni fa.
Pietro era un ragazzo, o meglio un uomo, alto e magro, con gli occhi neri pieni di una triste dolcezza, con i capelli neri e lucidi che brillavano nel sole, con lo stesso naso della madre e le mani bellissime, dalle dita forti ed agili come quelle di un pianista che spacca la legna tutti i giorni. Era sposato con una fanciulla dai capelli lunghi e castani, molto timida, che non si univa al gruppo che di rado, e restava in disparte senza partecipare ai discorsi. Avevano un bambino di pochi anni, che assomigliava al papà.
Pietro parlava poco, aveva un tono di voce profondo con una nota di durezza che non spariva neppure quando sorrideva nel parlare. La bimba ne subiva il fascino, ma qualche cosa la spingeva addirittura a trattenere gli sguardi a lui rivolti, non osava avvicinarlo in alcun modo. Cercava di immaginarlo bambino, privo di quegli strani “tic” che lo costringevano a storcere la bocca o girare di scatto la testa, che la madre diceva essergli venuti per le paure di quei primi anni di vita. Non riusciva ad immaginare altro che quegli occhi grandi e tristi.
Il racconto della Signora ogni tanto si interrompeva, poi riprendeva con il ritmo dei pensieri che non sempre possono essere tradotti in parole;
-“Il Nani, visto che il coprifuoco era finito, con la scusa di comprare il latte, sarebbe andato verso casa mia per vedere cos’era successo, io dovevo stare tranquilla, se avessi avuto paura potevo chiudermi nello sgabuzzino, tanto la Rosy era capace di spostare l’armadio. Pietro poteva passare per il nipotino della Rosy, il piccolo di sua figlia aveva la stessa età, e così non sarebbe stato al costretto nello sgabuzzino. Non c’era fretta di decidere, prima dovevamo pensare bene a tutto, perché un errore sarebbe stato la fine!
Quando Nani è tornato erano le sette passate, aveva la solita bottiglia di latte in mano e una busta con un po’ di pane sotto il braccio.
Aveva incontrato un amico che portava via da Venezia la gente passando per la laguna, era fidato perché lavorava anche per i partigiani che operavano verso Padova e su per Trento, dove era scappato suo figlio per non andare a fare il militare con i tedeschi. Procurava cibo e vestiti, se avevi qualcosa allora pagavi, se no.. beh! Pazienza! Tanto di fame non sarebbe morto, diceva. Ma trattava solo con gente conosciuta, era meno pericoloso anche se comunque il rischio era alto! Di quei tempi non si era mai sicuri di nessuno!
Gli aveva regalato un pezzo di pane fatto dalla moglie con la farina …”robada alla mensa dei ofisiali, tanto ghe ne gera tanta!” dalla nuora. Nella cucina della mensa Ufficiali lavorava la moglie del figlio più vecchio, che era soldato in Croazia, nella sussistenza, e si arruffianava i generali così da proteggere la famiglia a Venezia. Anche la “so dona”, da brava cuoca faceva la sua parte con i tedeschi e le camicie nere!,…. preparava certi risotti col nero di seppia!!! … e poi si faceva saltar fuori la farina ed altro per la sua famiglia! “.. basta che tei ciapi par la gola! Tanto sempre omeni i se’!!… Anca quel crucco del capo-cogo, … do smorfiete, lavorar ben e duro, e el sera tuti do i oci!”.
Il Nani non aveva ancora parlato di noi, ma aveva trovato la strada giusta per la fuga. Prima di tornare era passato anche vicino alla mia casa. C’erano ancora le finestre chiuse, ma non aveva osato andare a vedere; un altro amico, incontrato in latteria, gli aveva detto che avevano rastrellato tutti quelli della calle vicina, avevano sparato tra gli occhi a quella povera vecchia mezza paralitica, che viveva da sola vicino al dottore. Il dottore era già scappato con tutta la famiglia da una settimana. Evidentemente qualcuno lo aveva avvisato che ci sarebbe stata una stretta anche a Venezia.
Quella bella ragazza, che stava con la madre e due fratelli più piccoli nella casa davanti alla bottega del fornaio, l’avevano portata al comando con la camionetta del Oberfhurer , di certo non l’aspettava un bel destino! Se le andava bene sarebbe diventata la “schiava” di qualche graduato, e quando non fosse più servita… allora caput!!! Anche quelli del negozio di pasticceria pareva fossero scappati prima dell’arrivo dei fascisti. Ma nulla era certo!”
Il sole “mangiava” le piccole nuvole bianche che si rincorrevano nel cielo cavalcando turbini di vento irrequieti, scomparendo poi nelle onde di calore dei suoi raggi. Un gatto bianco e nero puliva con cura maniacale la sua pelliccia, seduto tra i vasi di pelargonio rosso sul davanzale della cucina.
-“Miriam, quella ragazza si chiamava Miriam, ed era una maestrina dolcissima, adorava i bambini e , quando ci incontravamo, faceva sempre sorridere Pietro giocherellando con lui. E’ scomparsa quel maledetto giorno e non si è più saputo nulla! Solo uno dei fratelli, finiti nel campo di Dachau, è riuscito a sopravvivere, era un bambino sveglio e sano, e con l’aiuto di un Kapò, che ne aveva fatto il suo piccolo schiavo giocattolo, aveva salvato la pelle, ma forse solo quella, perché non era più riuscito a diventare un uomo normale. Povero ragazzo! Tornato aveva cercato la sorella, voleva dirle che la mamma era morta subito, appena arrivata nel campo, mentre suo fratello grande era finito tra i lavoratori ed era stato ucciso dalla polmonite e dalla fame. Anche mia sorella è scomparsa durante una retata, anche lei forse è finita in un campo! Dopo la guerra ho cercato in tutti gli elenchi, ho guardato tutte le foto e i filmati che ho trovato, ho chiesto a chiunque per sapere …. , ma niente! Non sono riuscita a saper niente! Sparita nel nulla, come tante!”
Tra le ciglia socchiuse gli occhi appaiono umidi al ricordo tanto caro. La sofferenza vissuta nella scomparsa del marito prima, della sorella poi , nessuno dei due né certamente morto né ancora vivo, lo struggimento dell’attesa, l’angoscia dell’immaginare torture ed aberrazioni note per altri, la vita che scorre ineguagliabilmente e dolorosamente viva, tanto da far dolere anche li piacere d’essere vivi … tutto è riassunto nella smorfia del volto della signora Anita, che, ancora una volta, domina il dolore dei ricordi più duri e riprende il racconto:
-“ Il Nani e la Rosy seduti al tavolo della cucina guardavano Pietro che beveva il latte appena portato e mi chiedono cosa devono fare : parlare col Tony, aspettare di sapere cosa è successo a casa mia, non fare niente. ….. “ Niente?! Non sono capace di far niente! Devo risolvere il problema. Forse a Padova, da mia sorella, posso trovare rifugio” , rispondo, ” ma non sono sicura di quello che dico, perché non la sento da quindici giorni e, anche se è sposata con un cristiano e rischia di meno per via del cognome con cui è conosciuta, è sempre a rischio! Poi suo marito è soldato con gli alpini e lei vive con la suocera, di quella non mi fido perché è una vecchia becera che sopporta a mala pena mia sorella per amore del figlio! Poi le varie cognate … magari c’è qualche fascista convinta! Forse se il Tony va su per Trento potrei arrivare in montagna dove ho la casa. Forse là, in quella valle secondaria, dove bisogna andarci apposta perché non porta da nessuna parte se non sulla montagna, forse posso stare tranquilla. Là tutti mi conoscono da quando ero ragazza! Si è la cosa migliore! Parlane col Tony!”
L’idea mi sembrava buona, sentivo rinascere la speranza, vedevo la vecchia casa come un rifugio sicuro, se fossi riuscita a raggiungere la zona di Trento poi sarebbe stato facile arrivare, anche a piedi, fino là ! Sono un bel po’ di chilometri, ma si potevano fare! Tanto era quasi estate e si sarebbe potuto dormire anche all’aperto.
Il sole arroventava le borchie di ferro della panca, ma erano i ricordi che bruciavano di più.
La voce della Signora Anita in certi momenti diveniva solo un sussurro, ma il racconto continuava perché nessuno poteva cancellare l’orrore di quegli avvenimenti, ed il raccontarli era come esorcizzare un fantasma trasformandolo in una fiaba, ed era la bimba seduta su di un ceppo proprio di fronte a lei, con lo sguardo attento che le dava l’impulso a seguitare.
“Bene o male anche quella maledetta giornata passò; bene dovrei dire, perchè Nani, trovato Tony all’osteria, l’aveva invitato a casa con una scusa, per fare in modo che mi mettessi d’accordo con lui.
L’amico era un tipico veneziano, dai tratti del viso poteva aver avuto per parenti lontani anche dei mori, parlava con una voce baritonale che sembrava rimbombare nel torace, aveva occhi grandi e neri come il carbone, che si trasformavano in fessure brillanti quando pensava intensamente. Dovevo fidarmi di lui, come mi fidavo del Nani, potevo forse fare altro?
Mi accordai per passare dalla laguna. Lui andava spesso a portare roba a Jesolo, poi conosceva tutti i canali che portavano verso San Donà di Piave, e da lì si poteva andare col carretto del suo amico, che faceva le botti, fino a Conegliano, portando su botti nuove e vuote e tornando poi indietro con quelle vecchie da riparare, e almeno qualche damigiana piena, così se incontravi i crucchi ..” te‘i imbriaghi e i te deventa megio che amisi!”... Da Conegliano, con qualche mezzo di fortuna, sarei potuta arrivare a Belluno. Poi sarebbe stata facile, una lunga passeggiata in salita verso Agordo , Cencenighe, Celat ! Dovevo solo viaggiare senza farmi vedere, sperando di incontrare meno gente possibile, perchè la mia faccia non è proprio da “ariana” !
Tony mi avrebbe segnalata ad alcuni amici partigiani che stavano su per quelle montagne, anzi, a Conegliano, il socio del suo amico era dovuto “sparire” per non andare in guerra con i tedeschi, e la moglie andava spesso a trovare i suoi genitori che vivevano a Belluno, forse avrebbe potuto aiutarmi. “
La bimba, con i capelli illuminati dal sole, che pian piano si allontanava verso il tramonto, ascoltava rapita, non muoveva neppure un muscolo pur di non perdere quella che per lei era una fiaba. Amava, odiava, si commuoveva come la signora Anita, in una simbiosi empatica che coinvolgeva entrambe creando quasi un pianeta a parte, il pianeta dei ricordi per l’una, della Storia, quella con la S maiuscola, per l’altra.
Le altre persone presenti, cullate dalle onde di calore del sole tra una folata di vento e l’altra, seguivano il racconto, forse già sentito, senza intervenire.
C’era la signora Maria, con i suoi occhi celesti come il cielo all’alba, nascosti dietro le lenti degli occhiali da sole, amica di tanto vecchia data, da ritenersi quasi messa nella stessa culla della signora Anita, che continuava a sferruzzare annuendo di tanto in tanto.
Poi la signora Anna, alta e massiccia, riempiva di se una sedia sdraio posta vicino alla panca, ed ogni tanto chiudeva gli occhi dietro alle lenti scure, per un tempo sufficiente da far pensare ad un sonnellino. Il cicaleccio dei bimbi, la voce melodicamente roca dell’amica, il fruscio del vento ed il lontano brusio del torrente , la cullavano, e, lo diceva talvolta, le facevano dimenticare di essere al mondo, facendole sognare il paradiso.
“La notte passò tranquilla nello sgabuzzino. Avevo preferito dormire chiusa dentro, così mi sentivo più sicura. Tra le braccia tenevo, quasi stretto, il mio piccolo Pietro per assaporarne il profumo e trarne la forza per difendere a tutti i costi la sua vita.
Mi ricordo di aver dormito ben poco la prima notte, tesa ad ascoltare i rumori, sempre con il pensiero della partenza che sarebbe dovuta avvenire all’improvviso, quando fosse stato il momento favorevole per passare senza essere visti.
Tony sarebbe venuto a prendermi all’improvviso, dovevo essere pronta e uscire in massimo cinque minuti.
Pensavo a mio marito, pensavo a mia sorella che non avrebbe saputo nulla perchè sarebbe stato troppo pericoloso avvisarla.
Forse non avrei più visto i tetti delle case di Venezia, forse non avrei sentito più l’odore delle calli, anche quello mi pareva un profumo in quei momenti.
Sento ancora il battito del mio cuore in quelle ore. Per anni interi non sono riuscita a passare una sola notte senza sognare quei momenti! Per anni ho avuto l’incubo di svegliarmi e dover ripercorrere la strada ora da qui ora da lì, ma sempre col pericolo nella mente e con l’angoscia nel cuore.
Destino? Non sono più stata capace di pensare al domani, tanta è stata la forza con cui mi sono costretta a vivere ora per ora, sempre nel presente, altrimenti sarei impazzita! Cercare la forza di andare avanti, di lottare, di fidarmi di qualcuno, decidere quale fosse la strada giusta, è stata la cosa che più mi è rimasta dentro, dopo la paura!
Tre giorni e due notti sono passati prima che Tony trovasse il momento giusto. All’osteria aveva avvertito il Nani di tenermi pronta per la mattina dopo, e così è stato.
Alle quattro di mattina con una borsa, una borsetta ed un fagotto, il Pietro, son partita in barcone, nascosta sotto un grande telo, verso la laguna.
Ho ancora davanti agli occhi il baffo di schiuma che intravedevo tra il telo e la barca, sento ancora il gelo di qualche spruzzo che mi arrivava sul viso da qualche fessura, anche se ero rannicchiata come un rotolo di corda, e come la corda ero rigida e nello stesso tempo pronta a qualsiasi manovra.
Verso il centro della laguna il Tony ha spostato il telone per farci respirare.
Pietro, dormiva tra le mie braccia, quanta paura che si svegliasse piangendo nel momento meno opportuno! Ma non è successo, quasi un miracolo!
Vicino a San Donà, di nuovo coperti dal telone fino all’arrivo ad un piccolo molo sul canale nella campagna, alle porte del paese.
Ormai il sole era alto, e sul molo c’era un omino, seduto su di un carretto pieno di botti, che fumava tranquillo con gli occhi persi verso il mare.
Tony, accostata la barca dalla parte del carretto, senza parole o segnali ci ha fatti scendere e ci ha fatto nascondere in uno spazio creato tra il cassone del carro e le botti accatastate. C’era un terribile odore di vino inacidito, ed il calore del sole aveva creato una strana atmosfera ovattata. Una mano mi ha porto una caramella, una vera rarità a quel tempo, serviva per non far piangere il bimbo, ma tra le mie braccia c’era un piccolo uomo che pareva conscio di quello che stavamo facendo, e si limitava a sbarrare gli occhioni neri, stringendo la mia mano che gli cingeva la vita.
Forse saranno stati i fumi dell’alcool, oppure la tremenda stanchezza per la tensione della fuga, o forse è stata solo la forza di vivere che mi ha fatto addormentare insieme al mio bimbo, credo, ma, un solo istante più tardi sono stata svegliata , eravamo arrivati nel cortile interno di una casa di campagna, oltre San Donà, quasi a Motta di Livenza e l’omino, senza dire parola, ci faceva strada verso la casa, dove c’era solo una vecchia seduta davanti al camino, mentre sulla stufa bolliva qualcosa.
La donna senza età, con un sorriso mesto, accarezzava la testa del cane ai suoi piedi, dovevano avere vissuto le stesse esperienze, perché avevano la stessa stanchezza negli occhi, e la stessa pazienza nelle movenze.
Tony ci ha fatti sedere alla tavola e ci ha messo davanti una scodella colma di latte e un piatto di polenta fredda.
Mentre mangiavamo in silenzio, è arrivata una ragazza dagli occhi del verde più verde che avessi mai visto, bruttina nell’insieme, ma gli occhi valevano tutto.
Tony ha detto che si chiamava Dora, e ci avrebbe aiutato ad arrivare a Belluno, lei conosceva tutte le strade di campagna della zona, avremmo dovuto solo usare la bicicletta, ne aveva una con un cesto sul davanti, Pietro ci sarebbe potuto stare comodo. Del pericolo nessuno parlava, tanto lo si sapeva.
La voce di Dora era chiara e melodiosa, parlava sommessamente, non sprecava le parole, organizzava il viaggio cercando di pianificare ogni cosa parlando con l’omino, a cui si riferiva come “zio Bepi” , o alla donna, che era “zia Anna”. Sapeva i nostri nomi, e sorrideva spesso a Pietro, impegnato con il latte e polenta, ma attento ad ogni cosa. Trasmetteva una sensazione di sicurezza e di calma che rassicurava tutti, in fondo faceva quel percorso almeno una volta la settimana per conto suo, avere con Lei un fardello pesante come una donna ebrea ed un bimbo non sembrava essere nulla di speciale. Forse non era la prima volta, ma non glielo chiesi mai, neppure dopo la guerra quando l’ho cercata per ringraziarla, e l’ho trovata con tutti i capelli bianchi per uno spavento che aveva preso, di cui non aveva mai voluto parlare, ma che era rimasto anche nel fondo dei suoi occhi, un’ombra scura in quel verde così bello, la tristezza lasciata da qualche orrore vissuto a cui non aveva potuto che assistere.
Talvolta la vita impone di scegliere senza concedere tempo o spazio ai sentimenti, bisogna usare la ragione per fare la cosa giusta, e durante la guerra, mille e mille volte il cuore doveva essere chiuso nella cassaforte della ragione, per percorrere la strada dell’opportuno, salvo poi a morire dentro, soffocati dalla sofferenza talmente grande da far imbiancare i capelli e sparire ogni traccia di sorriso nello sguardo.”
L’angolo della casa iniziava ad essere meno soleggiato, e la brezza soffiava sempre più fresca, indicando che il pomeriggio cominciava ad essere inoltrato, le ombre si allungavano sulla montagna mentre la vita nelle stradine del paese tornava lentamente a scorrere dopo il riposo meridiano. Sui viottoli tra le case cominciavano a comparire i ragazzi in cerca di compagnia, tra i pini ed i castagni volavano le cornacchie gracchiando, e i bambini cominciavano a reclamare la merenda, quegli splendidi panini che profumavano di “pane” , farciti con burro e marmellata, il burro della valle e la marmellata di mirtilli o ribes o more o lamponi o fragole, colti dai cespugli o dai rovi lungo i sentieri tenuti segreti, come i luoghi dove crescevano i funghi più belli.
Solo la piccola seduta davanti alla signora Anita non sentiva che le parole dette, vivendo il racconto con la sua fervida fantasia, e non avrebbe mai voluto che s’interrompesse, ma il tempo non era tiranno e le storie potevano essere raccontate con calma, impiegando anche giorni e giorni, rimandando a “domani” altri ricordi, da disperdere nel sole della siesta, perché la vita acquista altro valore quando viene vissuta dopo tante tragedie, ed il tempo si dilata, rendendo sensibile ogni istante di cui è formato ogni secondo, che forma ogni minuto, che forma le ore della tua vita.
“Basta per oggi, andiamo a preparare un po’ di caffè e poi facciamo due passi verso Forno passando per il bosco, così cogliamo qualche fragola da fare questa sera, ci state? Non imbronciarti piccina, la storia è ancora lunga, ma se te la racconto vuol dire che finisce bene, non ti pare? Dai, vieni, ti regalo qualche prugnetta di quelle che ti piacciono tanto, le ha colte Pietro questa mattina. Andiamo…”
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Sarò felice di ricambiare la visita se me lo concederete.