Il momento in cui leggermente sbronza alle 2 di notte, con la gola rauca, come se avessi fumato mille sigarette, lasci la tua stanzetta del karaoke, specchiandoti per vedere in che condizioni è la tua frangia, ecco in quell’esatto momento capisci che è stata una bella serata. Di questi tempi non si direbbe, ma è possibile ancora tirare moderatamente tardi.
Io e i miei colleghi di VICE siamo da House of Ronin, per un aperitivo/cena leggera che si trasformerà in una serata che ricorda la spensieratezza del pre-pandemia. House of Ronin ha fatto, e sta facendo molto discutere a Milano: un palazzo in piena Chinatown, Piazza Morselli, con chiare ispirazioni asiatiche pop—una preponderanza giapponese per l’impronta della cucina e del design, ma con riferimenti anche a città come Bangkok e Hong Kong. Il perché stia facendo discutere è presto detto: il progetto ha avuto dei costi di realizzazione non indifferenti —la proprietà si è presa carico anche della ristrutturazione della piazzetta antistante—e verso novembre gli addetti ai lavori, insieme a qualche giornalista, ipotizzavano che sarebbe stato un posto molto costoso senza molta sostanza. Non è proprio così, e vi spiegherò perché più sotto.
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Passeremo la nostra serata a Madame Cheng’s, un bar con quattro sale karaoke dove puoi bere e mangiare all’interno. Bere e mangiare bene. Datemi le prime note di Torn di Natalie Imbruglia, dei buoni cocktail allo Shochu e sarò predisposta a tirare tardi e a non struccarmi prima di andare a letto.
House Ronin apre con un soft opening a dicembre 2021, e a gennaio dice di essere pronto a fare sul serio. Alcuni punti sono ancora in rodaggio, ma si può dire serenamente che a Milano una “cosa” così non c’era. Ogni piano dedicato a un concetto, con una carta dei cocktail e una proposta gastronomica diversa, ambiente che cambia radicalmente appena varchi una porta, che sia anche solo quella del bagno.
Al piano terra c’è Piccolo Ronin, un listening bar: qui è chiara la matrice giapponese, non foss’altro per l’idea alla base. In Giappone, nel secondo Dopo Guerra, questa tipologia di bar dove si ascoltava musica—non si poteva ballarla—ha ispirato tantissimi locali dedicati all’ascolto meditato e slow di vinili, soprattutto in città come Los Angeles o San Paolo. I prezzi sono in linea con la zona e con la fighetteria media milanese: cocktail a 10 euro, vino e birre a partire da 5 euro. Il cibo è di matrice panasiatica, con gusti abbastanza semplici e rassicuranti (i tanto di moda bao, spiedini di carne e vegetariani, curry giapponese di verdure, takoyaki).
Noi qui facciamo un aperitivo veloce, prima di andare nella nostra sala karaoke dove ceneremo e berremo ancora. I cocktail virano tutti abbastanza sul dolce, ma qualcosa vola dritto e deciso e ti fa salivare parecchio—come il Monte Kita (ibisco, mace, sichuan, bitter lemon) o il 1888 (tequila, mezcal, tè Sencha, cetriolo).
Al primo piano troviamo il ristorante Robatayaki, dove lo chef Gigi Natri, arrivato da Roma, interpreta alcuni piatti della cucina giapponese con qualche virata italo-eurocentrica. Le sale all’interno del ristorante, così come tutti gli ambienti e i bagni—se i vostri amici tardano a tornare dalla toilette è perché si stanno facendo più di un selfie—sono fatti per suscitare ricordi cinematografici, e un fattore wow complessivo che ti butta in un vortice fra l’incredulo e il comfort.
Il secondo piano è quello protagonista della nostra serata a base di karaoke, sake, cocktail e i piatti di Robatayaki. Da Mandame Cheng’s ci sono quattro sale, ognuna studiata con un suo design e con una sua capienza. Quella dove siamo noi è per 8 persone e i costi per affittarla un paio di ore vanno da 160 euro in su (dipende a che ora lo prenotate, si va dall’aperitivo fino alle 2 di notte, e in quale giorno della settimana). Ci sono sale più piccole per 6 persone, e ugualmente scenografiche, e salette più capienti, come quella dove c’è un palo per la lapdance.
Il piano di Cheng’s ha una lista dei cocktail ancora diversa dal Piccolo Ronin, il bar al piano terra: i costi iniziano a lievitare ma così come la qualità della mixology, curata da Riccardo Speranza. Siamo sui 14 euro a cocktail: prendo il The Code (soba schochu, lemongrass, Gochugaru Chili Bitter), il prototipo del mio drink preferito, che dopo aver bevuto diversi bicchieri di sake mi porta a iniziare a cantare con Vincenzo le prime canzoni dei Backstreet Boys; gorgheggiamo come se fossimo a Sanremo.
Sempre al secondo piano è pronto ad aprire un Omakase Sushiyaki, l’unico aspetto davvero giapponese di Ronin: il maestro Katsu Nakaji arriverà a giorni direttamente da Tokyo, proponendo un’esperienza di altissimo livello—comprensibilmente anche abbastanza costosa.
Torno spesso sull’aspetto economico non tanto per sottolineare quanto la nostra esperienza sia stata speciale, ma per rendere chiaro come questo palazzo abbia diversi budget e come sia potenzialmente alla portata di diverse fasce di pubblico. Robatayaki ha un ticket medio che può andare dai 50 ai 90 euro a persona, ma dal Piccolo Ronin i prezzi non sono più esosi che in altri posti del centro città.
Il terzo piano è quello che probabilmente non vedrete mai—ci hanno vietato anche di pubblicarne le foto—a meno che non abbiate un amico che lavora qui dentro o, come noi, non abbiate il privilegio di un tour guidato: è un members club che ha un suo cocktail bar, un piccolo palco e sarà esclusivamente a disposizione degli iscritti. È forse il posto più particolare e nascosto della struttura, ma anche quello meno chiassoso in fatto di design.
Ma torniamo a noi, che siamo in una saletta e possiamo stonare, bere bene e mangiare. Le sale karaoke soprattutto nella zona di Chinatown a Milano non sono certo una novità, ma quasi sempre i cocktail—spesso inclusi con formule abbastanza convenienti dentro l’affitto della sala—rischiano di farti venire un hangover devastante come se avessi bevuto del cherosene. Qui sta per me la novità: una cocktail list pensata bene ed eseguita altrettanto. Certo fa il suo lavoro anche la location: probabilmente neanche Euphoria riuscirebbe ad eguagliare l’estetica della nostra sala specchiata.
Fra qualche stuzzichino e un Livin La Vida Loca di Ricky Martin—“ma era la canzone del video dove ballava Nina Moric?”— arrivano anche le portate dalle cucine di Robatayaki. Per Marta e Alice diverse soluzione vegane/vegetariane squisite, come il Cavolfiore al miso con mizuna, sake e sesamo e Funghi in tempura.
Per la parte onnivora del tavolo Reale di Manzo canadese più altri uramaki più o meno tradizionali. Ci sono altri piatti del menu che ero molto curiosa di provare, come i ramen, il risotto all’anguilla e la soluzione hot pot con shabu shabu, ma non erano cibi che purtroppo si prestavano allo sfacelo della nostra saletta, né ai movimenti decisi di Vincenzo, che trovava la sua dimensione da “karaoker” professionista nella foto qui sotto (e che ci ricorda molto un suo pezzo.)
Il clima con il sake e i successivi cocktail—prendiamo un Takeyoshi Muramaki (Awamori, shitake, sake koshu, bitter), Tsushima (Honjozo sake, umeshu, shichimi togarashi) e un Wokou (Mugi shiso shochu, tè Genmaicha, umami bitter)— si riscalda, e arriviamo a un classico del karaoke stonato bene: “Vivo per lei”.
Mentre cerchiamo di replicare il contro-canto, fallendo, e di lavorare sul nostro diaframma come ci hanno insegnato le puntate di Amici di Maria De Filippi, finiamo il fiato, sfiniti verso le 2; un po’ sudati, un po’ increduli che quattro ore siano passate così in fretta.
“Una serata da pre-pandemia” dice Vincenzo.
Prendo un taxi, lascio Alice e Beatrice a casa, non mi strucco e vado a letto. Hangover il giorno dopo: moderato e felice.
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