L’insalata shuba è fatta a strati di barbabietole, patate, uova e aringhe affumicate tenute insieme dalla maionese il cui ultimo strato è rosa shocking e sembra una lasagna cucinata da un cuoco strafatto di acidi.
Ho sempre preferito gli skyline brutalisti a quelli di vetro e acciaio “Made in USA”, ed è forse per questo che non mi tiro indietro quando trovo i sapori forti e acri della cucina nata a est della Cortina di Ferro.
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Questi sapori sono di casa sono di casa in un ristorante di Roma, Associazione Culturale Caucaso, in zona San Paolo. Ben mimetizzato tra una trattoria di quartiere e un’osteria moderna, da quasi quindici anni è il polo enogastronomico della comunità est europea della Capitale.
Caucaso ai tempi fu “Matrioska” –come l’insegna suggerisce–, prima che l’inizio della guerra in Ucraina rendesse impossibile anche solo nominare parole russofone. Ma non è mai stato un ristorante russo: è da sempre un melting pot di persone ucraine, russe, armene, moldave, georgiane e bielorusse che convivono e si divertono assieme.
L’ingresso è alla fine di una rampa che scende al piano sotterraneo di un palazzo, come per l’accesso a un parcheggio. Il ristorante ha l’estetica elegante alla paraffina della casa di una vecchia zia o di un albergo di provincia, con le pareti coperte di specchi che poggiano su uno stucco veneziano rosa e i quadri con le cornici pesanti. I tavoli sono apparecchiati con cura, i coperti non più di quaranta.
Quando entriamo c’è una saletta privata con luci blu e flash stroboscopici dove si sta festeggiando un compleanno a suon di hit est-europee; Il DJ passa anche una versione house della canzone sovietica Katjuša (noi ne facemmo una versione italiana, partigiana, “Fischia il Vento”), prima di virare verso ben altro immaginario con Bailando e Danza Kuduro. Gli invitati gradiscono sia la prima che la seconda parte della selezione musicale e in tutto il locale si respira un’atmosfera entusiasta, ma composta, con le persone che a giro si alzano dai tavoli, ondeggiano davanti alla consolle e tornano a mangiare borsh e caviale, mentre i camerieri fanno slalom educati servendo piatti coloratissimi.
È chiaro che qui il protagonista sia il cibo, ma sarebbe sbagliato tagliare fuori anche le altre attività aggregative, come il karaoke, le esposizioni d’arte e le partite di scacchi.
Siamo entrati in punta di piedi con la strana sensazione di essere in casa d’altri, ma dopo Katjuša che mi riporta ai tempi più barricaderi dell’adolescenza e dopo il primo bicchierino di vodka, mi è sembrato subito di essere stato invitato alla festa. Tutti qui sembrano conoscersi e, se non si conoscono, brindano dopo avere scoperto di avere lontani parenti in comune, dopo aver scoperto di passare le vacanze estive a qualche km di distanza. E se non hanno niente che li colleghi, sembra che ci pensi la loro viscerale passione per le aringhe a metterli d’accordo.
Il proprietario, Gagik Aveetisjan, ci porta un menu, che è ricchissimo e non si limita ai soli piatti russi, ovviamente: è un viaggio tra Russia, Polonia, Ucraina, Armenia, Georgia, Bielorussia e Moldavia, un omaggio gastronomico a questi popoli e queste culture.
Gagik Aveetisjan è armeno, arrivato a Roma nel 1999, e ci dice di aver aperto l’associazione proprio per costruire un luogo di ritrovo per la comunità dell’Est, che 14 anni fa qui era pulviscolare e dispersa. Ecco perché scelse il nome “Mastrioska”: “Doveva essere un contenitore che al suo interno accoglie, una dentro l’altra, tante differenti identità,” ci spiega Gagik Aveetisjan. “Questo posto è, ed è sempre voluto essere, un luogo aperto per le persone e in particolare per le persone dell’ex Unione Sovietica,” continua Aveetisjan. “Prima della pandemia eravamo un punto di riferimento forte per la comunità. Poi, quando è scoppiata la guerra, sono cominciate telefonate di minaccia solo perché credevano fossimo russi, fino a che non ci hanno suggerito di cambiare il nome dell’associazione.”
Eravamo rimasti al menu, torniamoci. Per qualche piatto c’è persino una foto scontornata con il nome sia in cirillico, sia in italiano. Il che ci aiuta non poco, in questa gastro-playlist pressoché inifinita di portate del Caucaso. Preso dalla paura di perdermi l’imperdibile, chiedo a Gagik di aiutarmi nella scelta. “Ci penso io,” mi dice.
Il risultato è stato una sorta di menu degustazione per farmi assaggiare quello che lui pensa essere il meglio della sua cucina.
Si parte con un “amuse-bouche” molto est europeo: bicchierino di vodka accompagnato da una fetta di pane di segale con cetriolo e burro. Non poteva esserci partenza migliore. Il cameriere li trasporta su una paletta di legno con disegni floreali. “Noi prima di mangiare ci disinfettiamo” dice Gagik con il vago accenno al sorriso di chi non vuole nasconderti di saperla lunga.
Poi gli antipasti: melanzane con panna acida e noci, l’insalata russa e quella shuba, fatta a strati di barbabietole, patate, uova e aringhe affumicate tenute insieme dalla maionese il cui ultimo strato è rosa shocking e sembra una lasagna cucinata da un cuoco strafatto di acidi. E ancora: il salmone marinato e le tartine di pane di segale con il caviale di salmone che esplode in bocca tipo le palline del Solero Shots, ma meglio.
Mi sto ancora interrogando sul sapore, colore o consistenza mi abbia colpito di più, se il gusto acre della melanzane, quel tenerissimo salmone marinato o il trip inaspettatamente delicato tra aringhe e barbabietole della shuba, quando arrivano a tavola il borsh rosso di manzo e a seguire i khinkali –ravioli georgiani ripieni di carne e spezie che si mangiano aggiungendoci sopra del pepe nero–.
Gagik sembra un santone culinario e mi spiega con attenzione sacrale il rito del mangiarli, come rispettare il gesto di prenderli rigorosamente con le mani e rigorosamente per la punta per poi rovesciarli e portarli alla bocca. Sembra che senza questa cerimonia il piatto perda il suo senso di esistere. In effetti è proprio così, perché nel raviolo c’è un accenno di brodino che senza questo movimento andrebbe perso per sempre tra piatto, tovaglia e vestiti.
È anche il momento in cui decido di rompere ogni indugio e passo dal bere un buonissimo vino georgiano che Gagik paragona a un Chianti, al pasteggiare con vodka ucraina. È imparagonabile a quella che siamo abituati a bere nei cocktail allungata con la tonica o a quella che finisce in qualche improbabile shot dolciastro e colorato. Ha un aroma delicato che sovrasta il sapore dell’alcool, il che complica non poco le cose dato che è molto facile finire col berne parecchia.
Il menù continua con l’iconico spezzatino di manzo alla Stroganoff cotto nella panna acida e il manzo allo spiedo, per finire con la torta “Napoleone”, cioè una millefoglie, ma con la crema al burro.
Quando mi alzo dal tavolo una delle invitate al compleanno mi chiede una foto, si mette una rosa tra i capelli e tiene in mano un piatto con una torta. Mi metto a sedere con loro: sono un gruppo di polacchi che vivono fuori Roma. È la prima volta che si ritrovano qui al Caucaso, ma ne avevano sentito parlare benissimo e sono felici di essersi ritrovati in una situazione come questa, e io non stento a crederlo.
Quando Gagik ha aperto l’associazione, lo fatto per costruire un angolo dove sentirsi a casa. Oggi è un angolo in cui a casa si sentono in molti.
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