ESPERIENZA DOPPIA: MPS ed MP
La prima: Mucopolisaccaridosi
Mia figlia Elisa ha compiuto 26 anni a maggio. Alla nascita sembrava in piena salute ma verso i quattro anni e mezzo, più o meno all’arrivo del nostro secondo figlio, Michele, Elisa mostrò dei segni che facevano intravedere che qualcosa non andava: rideva in modo strano ed evidenziava qualche difficoltà nell’apprendimento a scuola. Fu proprio la maestra della scuola materna, tra l’altro mia amica, a segnalarmi alcune stranezze di Elisa; il pediatra di base non si era ancora accorto di nulla.
Iniziò allora il nostro girovagare presso medici e strutture ospedaliere per capire cosa stesse succedendo.
Furono giorni d’angoscia e già Verona si ipotizzò che si trattasse di mucopolisaccaridosi, ma solo ad Heidelberg, in Germania, dove portammo Elisa, si giunse alla diagnosi definitiva, cioè al terzo tipo delle mucopolisaccaridosi (MPS III ), ovvero sindrome di Sanfilippo, malattia genetica metabolica molto rara. Ci fu detto che non esistevano cure per la guarigione.
Ad Heidelberg venimmo a conoscenza dell’esistenza delle associazioni MPS austriaca, tedesca ed inglese. Uno dei momenti più dolorosi per mio marito e me, fu quando incontrammo i genitori dell’associazione austriaca nel corso di un convegno nel maggio 1990.
In Austria vedemmo alcuni ragazzi con la stessa malattia di Elisa ma già più grandi. Ci furono raccontate le loro storie: più avanti sarebbe accaduto lo stesso ad Elisa.
Allora nostra figlia, che aveva sette anni, stava ancora bene. Era autonoma in molte funzioni e parlava in modo abbastanza appropriato. Quando era più piccola diceva che le sarebbe piaciuto diventare una ballerina: “Mamma, quando mi compri il tutù e le scarpette?”. Cantava volentieri, la sua voce era squillante e intonata. Le piaceva comporre puzzle. Era molto affettuosa, e capace di ammirare un tramonto sul lago, di dolersi, di commuoversi se vedeva una persona star male o infortunata: “Vero che dopo la aggiustano, mamma?”. A volte era cocciuta e non si spostava dalla sua posizione: “Ho detto di no!”. Sapeva anche chiedermi scusa se vedeva che mi arrabbiavo: “Scusa, non lo faccio più! Mamma amore!”. Io soffrivo nel vedere che a scuola non raggiungeva i risultati dei suoi coetanei e sono stata meglio solo quando ho smesso di fare confronti ed ho guardato ad Elisa come ad una bambina a sé, originale. Ad un certo punto Elisa non ha più parlato, ma gli occhi, grandi e scuri, sono belli ed espressivi e le si illuminano ancora quando cantiamo qualche motivo che conosce o la facciamo divertire.
Periodicamente è soggetta a crisi epilettiche.
Cammina ancora, un po’ incerta all’inizio poi più sicura ma solo se sostenuta da due persone. I percorsi più lunghi ora li fa sulla sedia a rotelle, la stessa che viene agganciata ad un dispositivo ( lo SCALAMOBIL ) per scendere o salire le scale.
Dopo la prima media ha frequentato un reparto diurno presso un Centro educativo e riabilitativo, lo stesso centro che ora frequenta, presso un altro reparto, dal lunedì mattina al venerdì pomeriggio.
Presso questo Centro come alle scuole elementari e medie o altre strutture, Elisa ha incontrato medici, maestre ed operatori socio-sanitari preparati e molto disponibili a prendersi cura di lei.
Sappiamo che le cure per questa malattia sono “palliative”, non esiste una terapia risolutiva, in particolare per la forma che ha colpito Elisa. La malattia diventa perciò “cronica” e la gestione di un bambino affetto da una malattia cronica è una lotta quotidiana.
La serenità familiare, come altri aspetti della vita del resto, è in equilibrio molto precario per tutti (anche per chi non ha figli con la mucopolisaccaridosi ). Basta poco, a volte, per turbarlo. Noi perdevamo questo equilibrio ogni volta che Elisa faceva un passo indietro. Poi, piano piano, attraverso un gioco di ‘ misteriose’ forze, interne ed esterne alla famiglia o a noi, si ricomponeva, si riconquistava e così cambiava di nuovo il clima e tornava il sereno . Molto hanno contribuito gli aiuti di parenti e amici. Le avversità o una malattia mettono alla prova la solidità o meno dei rapporti di amicizia o dei legami affettivi, anche quelli tra coniugi.
La presenza di suo fratello è importante per Elisa, che si vivacizza quando lo vede e scherza con lei e lo è anche per noi perché ci ha aiutato a non tagliare i ponti con il mondo dei ragazzi che stanno bene.
Al ritorno dall’Austria, dopo le angosce dei primi tempi, riuscimmo a reagire e ci ripromettemmo di fare tutto il possibile per Elisa. Era duro avere una figlia affetta da una malattia rara di cui pochi sapevano darti informazioni. Ci sembrò opportuno non guardare troppo in là negli anni, per non farci prendere da pensieri tristi.
All’inizio molte riflessioni e molti sentimenti accompagnavano le nostre giornate: “ Perché è capitato proprio a lei, perché una forma così rara?”.
Provavamo sentimenti di colpa per non aver saputo trasmettere alla nostra bambina tutto ciò che avevamo desiderato per lei, per il suo futuro. Eravamo increduli che sarebbe avvenuta una tale trasformazione da non poter più essere in relazione con lei come lo eravamo fino ad allora. Ci sentivamo soli. Soffrivamo di non poter scambiare con altre persone sentimenti ed esperienze, così come fanno spesso soprattutto le mamme quando i propri figli stanno attraversando gli stessi problemi.
Iniziò allora il nostro girovagare presso medici e strutture ospedaliere per capire cosa stesse succedendo.
Furono giorni d’angoscia e già Verona si ipotizzò che si trattasse di mucopolisaccaridosi, ma solo ad Heidelberg, in Germania, dove portammo Elisa, si giunse alla diagnosi definitiva, cioè al terzo tipo delle mucopolisaccaridosi (MPS III ), ovvero sindrome di Sanfilippo, malattia genetica metabolica molto rara. Ci fu detto che non esistevano cure per la guarigione.
Ad Heidelberg venimmo a conoscenza dell’esistenza delle associazioni MPS austriaca, tedesca ed inglese. Uno dei momenti più dolorosi per mio marito e me, fu quando incontrammo i genitori dell’associazione austriaca nel corso di un convegno nel maggio 1990.
In Austria vedemmo alcuni ragazzi con la stessa malattia di Elisa ma già più grandi. Ci furono raccontate le loro storie: più avanti sarebbe accaduto lo stesso ad Elisa.
Allora nostra figlia, che aveva sette anni, stava ancora bene. Era autonoma in molte funzioni e parlava in modo abbastanza appropriato. Quando era più piccola diceva che le sarebbe piaciuto diventare una ballerina: “Mamma, quando mi compri il tutù e le scarpette?”. Cantava volentieri, la sua voce era squillante e intonata. Le piaceva comporre puzzle. Era molto affettuosa, e capace di ammirare un tramonto sul lago, di dolersi, di commuoversi se vedeva una persona star male o infortunata: “Vero che dopo la aggiustano, mamma?”. A volte era cocciuta e non si spostava dalla sua posizione: “Ho detto di no!”. Sapeva anche chiedermi scusa se vedeva che mi arrabbiavo: “Scusa, non lo faccio più! Mamma amore!”. Io soffrivo nel vedere che a scuola non raggiungeva i risultati dei suoi coetanei e sono stata meglio solo quando ho smesso di fare confronti ed ho guardato ad Elisa come ad una bambina a sé, originale. Ad un certo punto Elisa non ha più parlato, ma gli occhi, grandi e scuri, sono belli ed espressivi e le si illuminano ancora quando cantiamo qualche motivo che conosce o la facciamo divertire.
Periodicamente è soggetta a crisi epilettiche.
Cammina ancora, un po’ incerta all’inizio poi più sicura ma solo se sostenuta da due persone. I percorsi più lunghi ora li fa sulla sedia a rotelle, la stessa che viene agganciata ad un dispositivo ( lo SCALAMOBIL ) per scendere o salire le scale.
Dopo la prima media ha frequentato un reparto diurno presso un Centro educativo e riabilitativo, lo stesso centro che ora frequenta, presso un altro reparto, dal lunedì mattina al venerdì pomeriggio.
Presso questo Centro come alle scuole elementari e medie o altre strutture, Elisa ha incontrato medici, maestre ed operatori socio-sanitari preparati e molto disponibili a prendersi cura di lei.
Sappiamo che le cure per questa malattia sono “palliative”, non esiste una terapia risolutiva, in particolare per la forma che ha colpito Elisa. La malattia diventa perciò “cronica” e la gestione di un bambino affetto da una malattia cronica è una lotta quotidiana.
La serenità familiare, come altri aspetti della vita del resto, è in equilibrio molto precario per tutti (anche per chi non ha figli con la mucopolisaccaridosi ). Basta poco, a volte, per turbarlo. Noi perdevamo questo equilibrio ogni volta che Elisa faceva un passo indietro. Poi, piano piano, attraverso un gioco di ‘ misteriose’ forze, interne ed esterne alla famiglia o a noi, si ricomponeva, si riconquistava e così cambiava di nuovo il clima e tornava il sereno . Molto hanno contribuito gli aiuti di parenti e amici. Le avversità o una malattia mettono alla prova la solidità o meno dei rapporti di amicizia o dei legami affettivi, anche quelli tra coniugi.
La presenza di suo fratello è importante per Elisa, che si vivacizza quando lo vede e scherza con lei e lo è anche per noi perché ci ha aiutato a non tagliare i ponti con il mondo dei ragazzi che stanno bene.
Al ritorno dall’Austria, dopo le angosce dei primi tempi, riuscimmo a reagire e ci ripromettemmo di fare tutto il possibile per Elisa. Era duro avere una figlia affetta da una malattia rara di cui pochi sapevano darti informazioni. Ci sembrò opportuno non guardare troppo in là negli anni, per non farci prendere da pensieri tristi.
All’inizio molte riflessioni e molti sentimenti accompagnavano le nostre giornate: “ Perché è capitato proprio a lei, perché una forma così rara?”.
Provavamo sentimenti di colpa per non aver saputo trasmettere alla nostra bambina tutto ciò che avevamo desiderato per lei, per il suo futuro. Eravamo increduli che sarebbe avvenuta una tale trasformazione da non poter più essere in relazione con lei come lo eravamo fino ad allora. Ci sentivamo soli. Soffrivamo di non poter scambiare con altre persone sentimenti ed esperienze, così come fanno spesso soprattutto le mamme quando i propri figli stanno attraversando gli stessi problemi.
Il bisogno di confrontarsi e di conoscere il futuro
Nel cercare di non guardare troppo in là nel tempo eravamo però combattuti dal bisogno di conoscere il futuro per essere preparati, più sereni nell’affrontare le evenienze. Eravamo adirati con le istituzioni sanitarie perché ci eravamo dovuti rivolgere ad un ospedale tedesco per avere la diagnosi definitiva. Sentivamo la mancanza di qualcuno con cui confrontarsi e che ci sapesse dare delle risposte ed attorno a noi non avevamo ancora individuato nessuno che fosse in grado di farlo.
Probabilmente eravamo anche alla ricerca di qualcosa che ci permettesse di essere attivi, di non subire passivamente ciò che era irrevocabile e che ci permettesse di dare comunque un senso, un significato alla vita di Elisa.
Era molto forte dentro di noi anche la spinta per conoscere se ci fosse una terapia per queste malattie o se ci fosse in atto una ricerca diretta a ciò. Con molta delusione scoprimmo che le malattie metaboliche rare non venivano prese molto in considerazione dalla scienza medica visto che interessavano un numero limitato di casi; i costi per la ricerca venivano ad essere troppo elevati rispetto al numero di pazienti che ne avrebbero beneficiato.
Oggi qualcosa si è mosso e si sta muovendo, grazie soprattutto ai fondi raccolti dalle Associazioni per le MPS.osi, sia italiana che estere e, per alcune forme, si sono già visti dei risultati significativi.
Decidemmo di contattare e incontrare altre famiglie pensando a qualche forma di aggregazione.
Prima di quell’incontro avevo esaminato dei testi sull’associazionismo che mi furono trasmessi da una assistente sociale che collaborava con l’ “ Associazione per la lotta contro la fibrosi cistica” di Verona.
Probabilmente eravamo anche alla ricerca di qualcosa che ci permettesse di essere attivi, di non subire passivamente ciò che era irrevocabile e che ci permettesse di dare comunque un senso, un significato alla vita di Elisa.
Era molto forte dentro di noi anche la spinta per conoscere se ci fosse una terapia per queste malattie o se ci fosse in atto una ricerca diretta a ciò. Con molta delusione scoprimmo che le malattie metaboliche rare non venivano prese molto in considerazione dalla scienza medica visto che interessavano un numero limitato di casi; i costi per la ricerca venivano ad essere troppo elevati rispetto al numero di pazienti che ne avrebbero beneficiato.
Oggi qualcosa si è mosso e si sta muovendo, grazie soprattutto ai fondi raccolti dalle Associazioni per le MPS.osi, sia italiana che estere e, per alcune forme, si sono già visti dei risultati significativi.
Decidemmo di contattare e incontrare altre famiglie pensando a qualche forma di aggregazione.
Prima di quell’incontro avevo esaminato dei testi sull’associazionismo che mi furono trasmessi da una assistente sociale che collaborava con l’ “ Associazione per la lotta contro la fibrosi cistica” di Verona.
Mi colpirono soprattutto alcune affermazioni del libro “ Le malattie croniche e mortali dell’infanzia. L’angoscia di morte” di L. Cagno e F. Ravetto, ossia queste:
“Quando lo spettro di una malattia cronica e/o mortale si abbatte su un nucleo familiare, prendono forma in ciascuno dei suoi componenti le relative angosce di morte, particolarmente intense allorchè colpito è un figlio, quell’altro ‘ se stesso’ cui l’adulto primariamente affida l’illusione della propria immortalità…lo smarrimento che coglie allora i familiari…assume i connotati di una vera e propria perdita di identità sociale…si è di fronte a un momento difensivo particolarmente delicato che esige, per non involversi e scompensarsi in una depressione senza fine, la presenza di una entità che si ponga come mediatrice tra individuo, famiglia e collettività…consentendo alle angosce del singolo di stemperarsi nella accettazione e nella consapevolezza comuni…
Ecco che ritrovare nell’associazione un mondo di altri ‘ simili a sé’ nella stessa situazione patologica e di angoscia, consente di colmare almeno in parte il vuoto prodottosi, attraverso il recupero di una ‘ identità collettiva’, socialmente partecipata…ecco che, mentre diventa possibile, attraverso il mezzo istituzionale rappresentato dall’associazione, coinvolgere gli altri e renderli consapevoli, nasce la speranza della loro comprensione partecipata al lutto personale…l’angoscia non deve più essere nascosta dentro di sé e così la malattia perde il suo carattere di tabù, di vergognoso segreto da celare, diventa bandiera unificante in cui ci si riconosce e per cui si può combattere”.
“Quando lo spettro di una malattia cronica e/o mortale si abbatte su un nucleo familiare, prendono forma in ciascuno dei suoi componenti le relative angosce di morte, particolarmente intense allorchè colpito è un figlio, quell’altro ‘ se stesso’ cui l’adulto primariamente affida l’illusione della propria immortalità…lo smarrimento che coglie allora i familiari…assume i connotati di una vera e propria perdita di identità sociale…si è di fronte a un momento difensivo particolarmente delicato che esige, per non involversi e scompensarsi in una depressione senza fine, la presenza di una entità che si ponga come mediatrice tra individuo, famiglia e collettività…consentendo alle angosce del singolo di stemperarsi nella accettazione e nella consapevolezza comuni…
Ecco che ritrovare nell’associazione un mondo di altri ‘ simili a sé’ nella stessa situazione patologica e di angoscia, consente di colmare almeno in parte il vuoto prodottosi, attraverso il recupero di una ‘ identità collettiva’, socialmente partecipata…ecco che, mentre diventa possibile, attraverso il mezzo istituzionale rappresentato dall’associazione, coinvolgere gli altri e renderli consapevoli, nasce la speranza della loro comprensione partecipata al lutto personale…l’angoscia non deve più essere nascosta dentro di sé e così la malattia perde il suo carattere di tabù, di vergognoso segreto da celare, diventa bandiera unificante in cui ci si riconosce e per cui si può combattere”.
Maturammo l’idea di dare forma giuridica al nostro gruppo. L’atto costitutivo venne firmato il 5 giugno 1991 a Verona, alla presenza di un notaio, dai quattro soci fondatori tra cui io che ne fui presidente per molti anni.
Nei primi tempi, quando tutte le telefonate arrivavano a me ( non c’era ancora un numero specifico dell’associazione e la sede era casa nostra), è stato difficile affrontare le domande dei genitori che avevano conosciuto da poco la diagnosi della malattia del proprio bambino e che non sempre ricevevano risposte esaurienti o chiare dai medici. Mi trovai a rispondere a domande come: “Quanto è grave la malattia? Come andrà a finire?”. Potevo solo attingere alla mia esperienza, alle informazioni dei medici più esperti che cominciavamo ad individuare, sia in Italia che all’estero, a quelle delle altre associazioni MPS inglese, tedesca ed austriaca. Ancor più difficile , più avanti, è stato parlare con famiglie che erano state provate dal dolore per la perdita di un figlio.
Tante volte, attraverso le pagine del giornalino, mi sono lamentata del peso degli impegni associativi. Mio marito più volte è rimasto a casa per accudire i figli ( consumando giorni di ferie perché allora non erano ancora in vigore le agevolazioni previste dalla legge 104) mentre io ero fuori casa per convegni, incontri ed altri impegni associativi, questi ultimi più intensi dal 1993, anno in cui andai anticipatamente in pensione ( insegnavo matematica e mi piaceva farlo) per seguire meglio Elisa e l’associazione.
Per fortuna altre famiglie si sono assunte la responsabilità di alcuni incarichi. Così siamo riusciti a realizzare progetti ritenuti prioritari:
la promozione della ricerca;
l’informazione e l’aggiornamento alle famiglie e ad operatori che, in vari ambiti, seguono persone affette da MPS;
la pubblicazione del giornalino e degli opuscoli relativi alle singole sindromi;
l’ascolto telefonico; gli incontri annuali ;
le iniziative di raccolta fondi ( gli appelli lanciati attraverso giornali e TV non erano mai producenti come lo erano invece i banchetti di beneficenza nei luoghi dove conoscevano noi e i nostri figli);
i contatti con le associazioni ed i centri MPS esteri;
le apparizioni in TV attraverso trasmissioni in diretta e registrate;
un sito su Internet.
Quando il nostro attuale presidente, si propose come successore nella conduzione del’associazione ebbe tutta la mia gratitudine ed un consistente fardello sulle spalle.
Rimasi nel consiglio direttivo il tempo necessario per passare le consegne e fino al convegno del 2004 fui presente ai vari incontri.
Così per un po’ ho potuto vedere ancora volti nuovi, purtroppo tutti con le medesime angosce iniziali, le stesse domande, la stessa incredulità. Visitando il sito dell’associazione e il forum, nonché passando in rassegna le foto che mi venivano inviate, ho potuto in un certo senso, cioè virtualmente, continuare a conoscere alcune nuove famiglie che hanno aderito all’associazione durante questi anni della mia assenza e questo mi ha fatto sentire meno lontana.
Nei primi tempi, quando tutte le telefonate arrivavano a me ( non c’era ancora un numero specifico dell’associazione e la sede era casa nostra), è stato difficile affrontare le domande dei genitori che avevano conosciuto da poco la diagnosi della malattia del proprio bambino e che non sempre ricevevano risposte esaurienti o chiare dai medici. Mi trovai a rispondere a domande come: “Quanto è grave la malattia? Come andrà a finire?”. Potevo solo attingere alla mia esperienza, alle informazioni dei medici più esperti che cominciavamo ad individuare, sia in Italia che all’estero, a quelle delle altre associazioni MPS inglese, tedesca ed austriaca. Ancor più difficile , più avanti, è stato parlare con famiglie che erano state provate dal dolore per la perdita di un figlio.
Tante volte, attraverso le pagine del giornalino, mi sono lamentata del peso degli impegni associativi. Mio marito più volte è rimasto a casa per accudire i figli ( consumando giorni di ferie perché allora non erano ancora in vigore le agevolazioni previste dalla legge 104) mentre io ero fuori casa per convegni, incontri ed altri impegni associativi, questi ultimi più intensi dal 1993, anno in cui andai anticipatamente in pensione ( insegnavo matematica e mi piaceva farlo) per seguire meglio Elisa e l’associazione.
Per fortuna altre famiglie si sono assunte la responsabilità di alcuni incarichi. Così siamo riusciti a realizzare progetti ritenuti prioritari:
la promozione della ricerca;
l’informazione e l’aggiornamento alle famiglie e ad operatori che, in vari ambiti, seguono persone affette da MPS;
la pubblicazione del giornalino e degli opuscoli relativi alle singole sindromi;
l’ascolto telefonico; gli incontri annuali ;
le iniziative di raccolta fondi ( gli appelli lanciati attraverso giornali e TV non erano mai producenti come lo erano invece i banchetti di beneficenza nei luoghi dove conoscevano noi e i nostri figli);
i contatti con le associazioni ed i centri MPS esteri;
le apparizioni in TV attraverso trasmissioni in diretta e registrate;
un sito su Internet.
Quando il nostro attuale presidente, si propose come successore nella conduzione del’associazione ebbe tutta la mia gratitudine ed un consistente fardello sulle spalle.
Rimasi nel consiglio direttivo il tempo necessario per passare le consegne e fino al convegno del 2004 fui presente ai vari incontri.
Così per un po’ ho potuto vedere ancora volti nuovi, purtroppo tutti con le medesime angosce iniziali, le stesse domande, la stessa incredulità. Visitando il sito dell’associazione e il forum, nonché passando in rassegna le foto che mi venivano inviate, ho potuto in un certo senso, cioè virtualmente, continuare a conoscere alcune nuove famiglie che hanno aderito all’associazione durante questi anni della mia assenza e questo mi ha fatto sentire meno lontana.
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La seconda: Parkinson
Scrivevo prima che la serenità familiare è sempre in equilibrio precario. Tuttavia, negli anni, l’angoscia iniziale della nostra famiglia aveva lasciato il posto all’accettazione della realtà, alla volontà di crearsi spazi sereni in cui tutto appariva ‘normale’, pur cambiando le aspettative, la scala dei valori in cui si credeva, le relazioni con gli altri.
Nel 2004 però l’equilibrio in questione ha subito uno scossone così energico che si è proprio sgretolato per bene e si sta ricomponendo con fatica.
Avevo 52 anni e mi venne diagnosticata una “ sindrome extrapiramidale”, malattia neurologica, che spiegava i disturbi che già da un po’ di tempo mi affliggevano, confermata poi in “ sindrome di Parkinson”.( M P )
E qui inizia un’altra vicenda che narra di come mio marito, che da dicembre 2007 è fortunatamente in pensione, sia stato costretto a prendersi i permessi lunghi sfruttando la legge 104 i primi tempi, quando Elisa tornava a casa ogni giorno, e poi della decisione, non certo facile, di lasciarla al Centro durante la settimana e anche talvolta le domeniche.
Per quanto mi riguarda, sto ancora combattendo perché per questa malattia, come per le MPS-osi, non c’è ancora una terapia risolutiva. Esistono parecchi farmaci e altri sistemi che attivano la ‘dopamina ‘, neurotrasmettitore carente nel cervello, responsabile del movimento e di altre funzioni.
Nei momenti critici perdo parte della mia autonomia e dipendo dagli altri. Ho anche pianto ma quando il farmaco funziona per un po’ di tempo mi concedo l’illusione della normalità e riesco ancora a fare progetti.
Ho cambiato parecchi medici e da parte di tutti c’è stato l’impegno per la ricerca della
combinazione di farmaci più idonei per far fronte all’evolversi della malattia, anche se non ricordo di avere avuto lunghi periodi di benessere. ( a quanto pare il mio Parkinson è COMPLICATO)
Durante una di queste prove, sono caduta in uno stato di “acinesia” per cui non avevo equilibrio per stare in piedi né la forza di muovermi per prendere cose.
Il brutto è che è capitato tutto dall’oggi al domani e che i medici non mi hanno illustrato questa possibilità ( cosa che probabilmente può anche non verificarsi). Ci sono voluti quasi più di 2 mesi perché le cose migliorassero per poi capire che il farmaco usato era difettoso.
Così da novembre sono passata alla introduzione continua di un dopaminergico (apomorfina):una apposita siringa immette il farmaco sottocute attraverso un catetere ed un ago, con un flusso programmato da una micro pompa.
Ci vuole del tempo per capire come trovare l’equilibrio tra questo farmaco e quelli precedenti; insorgono noduli sottocutanei e discinesie ( movimenti involontari che non si riescono a controllare e ti lasciano indolenziti i muscoli).
E’ una brutta sensazione sentire il corpo che si muove contro la propria volontà.
Si è evidenziata anche una sindrome del tunnel carpale alla mano sinistra per la quale sono già stata operata.
Insomma bisogna rompere fiale, riempire siringhe, spostare aghi ed ho attrezzato a contenitore di farmaci un piccolo carrellino che gira per casa. che però cerco di ignorare il più possibile con lo sguardo.
Dovrei uscire più spesso e invece riordino vecchie cose o la casa come se non si potesse lasciare qualcosa in sospeso e impartisco ordini agli altri ( che, per fortuna non ubbidiscono sempre) per ciò che non riesco più a fare.
Sono dimagrita e peso 43 chili.
Durante questi 5 anni mi si è fatta più chiarezza sull’evoluzione della patologia da cui sono affetta e sul fatto che ”indietro non si torna”.
Devo dire che in questi ultimi mesi sono poco ampi i miei orizzonti e la mia mente è spesso rivolta al mio male, anche perché il mio corpo me lo ricorda spesso. Ho letto da qualche parte che il dolore fisico, qualunque esso sia, stravolge e inibisce la formazione del pensiero. L’unica preoccupazione è riuscire a provare sollievo. Dicono che il dolore fa cambiare , fa crescere… Io credo che si verifichi se dal dolore se ne esce.
Un fatto che mi angustia in particolare è che non posso più seguire Elisa in prima persona. E’ vero che è in mani fidate, ma non sono quelle della sua mamma , è vero che ha quasi 26 anni e tutti i figli a quell’età non sono più sotto le ali dei genitori, ma è anche vero che i suoi 26 anni sono come quelli di un bimbo di pochi mesi.
Mio marito si prende i suoi spazi e fa bene altrimenti farebbe fatica a sostenere la situazione e cerca di far uscire anche me, di scuotermi senza molto successo. Penso che l’altro mio figlio Michele poi dia il massimo di ciò che possa dare un ragazzo di 21 anni.
Siamo supportati anche da parenti e numerosi amici che con affetto ci sono concretamente e moralmente molto vicini.
Sono quindi fortunata…perché non sono sola e sono aiutata…ma la vita per me non è più la stessa , non mi sono ancora adattata a questo cambiamento e non accetto i limiti che la malattia comporta. Tuttavia non mi sono ancora data per vinta e dopo aver combattuto per anni per Elisa, ora saremo impegnati su più fronti: l’allenamento non ci manca.
Mi è difficile pregare ma se mi fosse concesso di esprimere un desiderio, dopo quello che chiede la guarigione per Elisa, per me e per tutti quelli come noi, che difficilmente si realizzerà, chiederei che tanta sofferenza non andasse sprecata ma venisse trasformata in capacità di scoperta della cura per tante malattie e che l’amore per l’uomo e la solidarietà avessero il sopravvento sulle leggi del profitto..
Maggio 2009
ANNA
Dedico a tutti coloro che leggeranno questo scritto la seguente poesia.
UN CREDO, UNA SPERANZA
( Tratto dalla lettera di una mamma dell’associazione MPS austriaca )
Io mi stupisco dell’operosità degli uomini,
in ogni situazione impossibile voler comunque fare qualcosa,
non rinunciare,
ricercare le energie più nascoste,
farle uscire e metterle in moto.
E’ la voglia di voler veramente vivere,
essere vivi, contro tutti gli oracoli di morte,
contro le impossibilità che paralizzano,
contro le soluzioni di aiuto opprimenti,
contro le statistiche
e per sperare
e trovare sempre nuove strade
in una vita che valga la pena di vivere.
In noi vi è nascosta una energia insopprimibile
ed un Credo,
che fa diventare l’impossibile possibile.
Noi dobbiamo metterci nuovamente nel flusso di questa Forza.
Dedico a tutti coloro che leggeranno questo scritto la seguente poesia.
UN CREDO, UNA SPERANZA
( Tratto dalla lettera di una mamma dell’associazione MPS austriaca )
Io mi stupisco dell’operosità degli uomini,
in ogni situazione impossibile voler comunque fare qualcosa,
non rinunciare,
ricercare le energie più nascoste,
farle uscire e metterle in moto.
E’ la voglia di voler veramente vivere,
essere vivi, contro tutti gli oracoli di morte,
contro le impossibilità che paralizzano,
contro le soluzioni di aiuto opprimenti,
contro le statistiche
e per sperare
e trovare sempre nuove strade
in una vita che valga la pena di vivere.
In noi vi è nascosta una energia insopprimibile
ed un Credo,
che fa diventare l’impossibile possibile.
Noi dobbiamo metterci nuovamente nel flusso di questa Forza.