Narrare la giustizia nel XII secolo
Pubblicato come capitolo 2 del volume ‘Italica gens’. Memoria e immaginario politico dei cavalieri cittadini, Roma 2018 (La
grammatica del confronto)
Nella cultura degli annalisti
Sorga dunque il Dio degli eserciti e punisca Milano e Cremona; governi e protegga
me, che sono un suo fedele oppresso e denudato, come si legge in questa mia opera, che
parla dei giusti e degli ingiusti.1
Con queste parole si chiude la Historia Mediolanensis di Landolfo di San Paolo, uno
tra i più ricchi testi storiografici italiani della prima metà del secolo XII. L’Historia di
Landolfo è uno di quei casi (poco frequenti nella storiografia italica di questo periodo) nei
quali la figura dell’autore emerge nettamente. Landolfo – membro di una famiglia ben
inserita nel clero milanese – fu allontanato dalla chiesa di San Paolo in Compito, sulla quale
riteneva di vantare dei diritti, escluso dal Collegio dei decumani e privato delle prebende
che ne derivavano. Ciò lo indusse a una battaglia ventennale combattuta in varie sedi di
giudizio per essere reintegrato nel proprio ruolo. Landolfo è una figura a suo modo
liminare ed esemplare, un intellettuale vissuto a cavallo di un crinale storico: quello della
fine dell’egemonia ecclesiastica sulla cultura scritta. La sua formazione era stata quella
tipica di un rampollo di buona famiglia destinato a far carriera nei ranghi del clero secolare.
Da giovane fu a Orléans, poi a Tours e a Parigi, ove fu allievo di un maestro del rango di
Guglielmo di Champeaux. La sua doveva quindi essere una cultura teologica sostenuta da
una solida formazione grammaticale ricevuta già nella sua città. Ben poco di essa, certo, si
ravvisa nel suo libellus, ma i motivi vanno ricercati nella scelta di un modello espressivo
meno alto rispetto a quello epico-storico, più caratteristico dell’età in cui visse. La sua
competenza retorico-grammaticale era tuttavia apprezzata a più livelli anche dai laici della
sua città: Landolfo fu infatti maestro di scuola e scriba dei consoli. Parlando di come si
guadagnava da vivere mentre cercava di riappropriarsi dei diritti sulla chiesa di famiglia,
lascia trapelare un’informazione tanto cruciale per la storia comunale (la presenza di una
precoce “cancelleria”), quanto da lui avvertita come degradante: «Rimanendo in sospeso
il giudizio, io continuavo a vivere in città nella casa annessa alla chiesa contesa e partecipavo
alla vita pubblica: ero scriba, lettore, insegnante e redigevo le lettere per i consoli».2 Tutto
quanto sappiamo di Landolfo e della sua lotta si deve alla Historia. Il testo non si limita a
descrivere questa disavventura personale, ma si allarga a considerare le travagliate vicende
dell’episcopato milanese a cavallo dell’anno 1100, tra difesa della tradizione locale e
ingerenze romane. Esso è tuttavia concepito come una lunga premessa alla situazione
presente ed è un modo per offrire a chi legge uno strumento prezioso di giudizio:
distinguere i «giusti» dagli «ingiusti».
Cominciare l’indagine sulle fonti a partire da Landolfo di San Paolo significa non
Landulphi Junioris, p. 39, rr. 23-25: «Surgat igitur Deus exercituum, qui Mediolanum et Cremonam corigat, et me
acolitum oppressum et expoliatum, quemadmodum in hac mea copia, continente probos et pravos, legitur, iure
gubernet et protegat».
2 Landulphi Junioris, p. 15, rr. 31-33: «Quia in ipsa [domo NdR] vivendo lector, scriba, puerorum eruditor, publicorum officiorum et beneficiorum particeps, et consulum epistolarum dictactor, salva mea querela, in ecclesia et in
ipsa civitate Mediolani videor».
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sciogliere il dubbio che perseguita chiunque si occupi della prima storiografia cittadina: in
quanto uomo di Chiesa Landolfo apparteneva ancora al “vecchio” mondo, quello nel quale
erano ecclesiastici tutti gli intellettuali; d’altra parte, il suo punto di vista e perfino le sue
modalità espressive sono nuove. Ne consegue che non possiamo far coincidere l’inizio del
“genere” con la diffusione degli intellettuali laici. La storiografia dei milanesi Arnolfo o
Landolfo Seniore – che scrissero entrambi entro gli anni Ottanta del secolo XI – è già
cittadina come quella di Landolfo di San Paolo e degli scrittori laici successivi.3 La nostra
analisi, dunque, non comincia dalle prime attestazioni del genere. L’inizio è invece
determinato da fattori politici. Solo le scritture successive alla stagione della lotta per le
investiture possono, a nostro avviso, esser considerate testimonianza di un nuovo modo
di pensare. Solo il trauma della delegittimazione reciproca delle autorità universali poteva
forgiare una nuova mentalità, nella quale le autorità tradizionali mantenevano ancora un
ruolo, ma il peso assunto dalla politica locale era assai maggiore che nel passato. Se, quindi,
Landolfo di San Paolo fu un intellettuale vecchio stile quanto a formazione, il modo
attraverso il quale egli guardò al mondo politico sembra esser stato un po’ diverso rispetto
a quello dei suoi predecessori.
C’è un legame, assai più antico del testo di Landolfo, tra scrittura della storia e
giustizia.4 La storia, in effetti, può esser considerata come un deposito di argomenti a
sostegno delle opinioni presenti. Nella cultura medievale, a causa del prestigio di cui
godeva la tradizione, questo era particolarmente vero.5 Per limitarci al mondo italico,
ricorderemo almeno le parole del vescovo cronista del X secolo Liutprando da Cremona,
irato contro Berengario d’Ivrea, nella cui corte aveva militato prima di passare al servizio
del, ben più generoso, Ottone I: «Siano dunque per loro [Berengario e sua moglie Guilla,
NdR] queste carte un’antapódosis, una pariglia, in quanto smaschererò την ασεβεῖαν, la loro
infamia, agli uomini di oggi e di domani».6 Ricordare i torti e le ragioni – disporre i fatti
nell’ordine in cui sono avvenuti e identificare così le responsabilità – è di per sé un’opera
di giustizia.
Che la dimensione della giustizia, inclusa quella concreta dei tribunali, potesse
interessare non solo Landolfo di San Paolo, ma un buon numero degli storiografi di questo
periodo non è difficile da dimostrare. I laici che nel XII secolo si affacciarono al mondo
della scrittura storica erano soprattutto notai e giudici, i quali potevano avere un contatto
frequente con la pratica del diritto, dei tribunali, della documentazione giudiziaria. 7 Gli
studiosi hanno messo in rilievo quanto la figura del notaio-cronista abbia inciso nella
costruzione di una nuova sensibilità storiografica, attenta al contemporaneo, al locale, al
dettaglio cronologico.8 In quella che possiamo considerare la prima stagione della
Zabbia, La città e la sua memoria, pp. 65-67.
V. sopra.
5 Come ha mostrato Hans Werner Goetz riguardo alla controversia sulle investiture: H. W. Goetz, Geschichte als
Argument, p. 68.
6 Liutprando, Antapodosis, p. 172, rigo 11-14: «Sit igitur eis praesens pagina antapódosis, hoc est retributio, dum pro
calamitatibus meis την ασεβεῖαν eorum praesentis futurisque mortalibus denudauero»; la traduzione è di Paolo
Chiesa. Per una valutazione dell’impatto della vendetta letteraria di Liutprando sulla sua opera rimando all’introduzione di Chiesa, pp. XLIII-LX.
7 Busch, Die Mailänder Geschichtsschreibung; Wickham, Lawyers’ Time, p. 285.
8 Sinteticamente: Arnaldi, Il notaio-cronista; Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina; sul dettaglio cronologico, ancora
Wickham, Lawyers’ Time, pp. 287-8; sulla cultura: Zabbia, Formation et culture des notaires, p. 317.
3
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storiografia cittadina laica (gli anni Sessanta e Settanta del secolo XII) anche il ruolo
giocato dai giudici è significativo e resta tale fino ai primi decenni del secolo seguente.
Evidente è il ruolo di un giudice e di vari notai nella stesura degli annali genovesi entro la
prima metà del Duecento. I primi annali, quelli scritti da Caffaro, denunciano un intervento
teso, non solo a trascrivere le parole dell’autore o un testo precedentemente preparato, ma
anche a integrare nello scritto gli stilemi del documento notarile, probabilmente per
conferirgli maggiore credibilità. Si tratta di una procedura da mettere in connessione con
la “pubblicazione” dell’opera, voluta dai consoli di Genova nel 1152. In questa data
sarebbe infatti intervenuto un notaio – quel Macobrio effigiato nel codice degli Annali –
il quale avrebbe contribuito a certificare l’affidabilità dell’opera con il suo ruolo di scriptor
e con l’inserimento di formule di autenticazione.9 Caffaro stesso, pur non portando il titolo
di iudex, era un frequentatore dei tribunali: nel 1130, ad esempio, fu tra i consoli del placito
che amministravano la giustizia in città, mentre, qualche anno prima (nel 1121 e nel 1123),
era stato inviato a Roma per difendere – di fronte al papa – gli interessi genovesi in Corsica
contro le pretese pisane.10 Il successore nella stesura degli annali, Oberto, era un
giurisperito, mentre erano notai Ottobono, Ogerio Pane, Marchisio e Bartolomeo.11 Anche
nel resto della produzione storiografica dalla fine del secolo XII prevalgono gli scrittori
dotati del titolo di giudice o di notaio. Erano certamente giudici i lodigiani Ottone e
Acerbo Morena (padre e figlio), lo era anche Salem, figlio e continuatore dell’annalista
pisano Bernardo Maragone. Esperto di diritto era Sicardo, vescovo di Cremona. Più vicino
alle competenze tecniche del notariato era l’ubiquo maestro di retorica Boncompagno da
Signa.12 Nella generazione successiva era causidico il vicentino Gerardo Maurisio, giudice
e notaio il fiorentino Sanzanome, notaio il piacentino Codagnello.13 Al tramonto della
storiografia dei cavalieri-cittadini incontriamo il padovano Rolandino – che fu notaio, ma
anche maestro di retorica – e il veronese Parisio da Cerea, notaio anch’egli.14
Nel corso del secolo XII il profilo del notaio si allontanò da quello del giudice di
professione: nella formazione del notaio, in particolare, rivestiva un ruolo determinante il
praticantato.15 Tuttavia entrambe le figure continuarono a condividere la frequentazione
di scuole di grammatica e retorica, considerate preliminari sia alla pratica notarile, sia alle
scuole di diritto, come dimostra la difficile collocazione disciplinare di alcune opere di
Boncompagno.16 Diversi scrittori italici di cose locali fin verso gli anni Sessanta del secolo
Arnaldi, Studi sui cronisti, pp. 101, 239-241; Arnaldi, Il notaio cronista, p. 297; Placanica, L’opera storiografica di Caffaro,
pp. 24-28.
10 Sui particolari biografici si veda Petti Balbi, Caffaro.
11 Airaldi, Nasello, Oberto; su Ottobono v. Annali genovesi, II, p. XXIII; Bezzina, Ogerio Pane; Filangieri, Marchisio scriba;
Pistarino, Bartolomeo scriba.
12 Capo, Morena, Acerbo; Capo, Morena, Ottone; Ceccarelli Lemut, Maragone, Bernardo; Coleman, Sicard of Cremona; sulle
competenze di Boncompagno: Rossi, “Rhetorica est liberalium artium imperatrix, et utriusque iuris alumna", p. 1919, oltre,
naturalmente, a Pini, Boncompagno.
13 Su Maurisio: Arnaldi, Studi sui cronisti, p. 31 e segg.; Fiorese, Maurisio, Gerardo; su Sanzanome si veda Chronica de
origine, pp. 135-145; su Codagnello: Arnaldi, Codagnello, Giovanni.
14 Su Rolandino: Arnaldi, Studi sui cronisti, pp. 79, 111-133; introduzione di Flavio Fiorese a Rolandino, Vita e morte,
pp. XI-XVI. Su Parisio: Arnaldi, Studi sui cronisti, pp. 7-25; Varanini, Parisio da Cerea.
15 Zabbia, Formation et culture, p. 306; tuttavia la tradizione raccolta da Odofredo testimonia l’interesse di Irnerio per
il mondo notarile: Cortese, Il diritto, pp. 64-67.
16 Arnaldi, Studi sui cronisti, pp. 159-160; Zabbia, Formation et culture, pp. 305-306; Meyer, “Felix et inclitus notarius”,
pp. 53-56. Sulle opere di Boncompagno: Rossi, “Rhetorica est liberalium artium imperatrix, et utriusque iuris alumna". Sul
ruolo delle arti liberali nella formazione dei giuristi si veda anche: Cortese, Il diritto, pp. 107-110.
9
XII potevano vantare una formazione grammaticale solidissima, e si cimentavano in una
franca emulazione degli antichi. È il caso del bergamasco Mosè del Brolo, autore, tra l’altro,
di un articolato elogio poetico della propria città, il Liber Pergaminus.17 I versi d’imitazione
ovidiana del Liber e soprattutto la sua straordinaria conoscenza del greco (fu a
Costantinopoli, ove si dedicava anche alla raccolta di libri) lo collocano tra i maggiori
intellettuali italici della prima metà del secolo XII. Una formazione forse non così
internazionale, ma certamente fondata sull’imitazione di Virgilio doveva avere l’anonimo
autore del Liber Cumanus, un lungo poema dedicato allo scontro tra Como e Milano degli
anni 1118-1127, scritto non molto più tardi.18 D’imitazione virgiliana sono anche gli
esametri dell’anonimo Liber Maiolichinus sull’impresa marinara pisana contro il regno
musulmano di Maiorca degli anni Dieci del secolo XII.19 A Virgilio, ma anche a Ovidio,
Orazio, Lucano e Stazio si rifanno i versi del Carmen de gestis Frederici I. Imperatoris in
Lombardia, opera di un uomo colto – probabilmente un laico bergamasco – assai coinvolto
nella vita politica delle città lombarde della metà del secolo.20 Una discreta formazione
retorico-grammaticale e un certo interesse per l’ambito giudiziario costituiva dunque il
bagaglio culturale comune degli storiografi italici dei secoli XII e XIII. Per questa via siamo
tentati di superare la distinzione scolastica tra scrittori chierici e scrittori laici e di cogliere
una traccia di continuità tra la storiografia cittadina dei giudici e dei notai e quella
tradizionale – d’impianto dinastico, istituzionale o universale – prodotta soprattutto nei
grandi monasteri e nei capitoli cattedrali.21 La stessa formazione grammaticale conobbe,
però, un cambiamento nei decenni centrali del secolo XII nell’ambito delle città dell’Italia
centro-settentrionale. Un approccio più pratico, basato essenzialmente sulla composizione
prosastica di testi epistolari, sostituì la tradizionale imitazione dei poeti classici.22 Il
proliferare della storiografia locale trent’anni più tardi – ora prevalentemente in prosa – fu
probabilmente anche l’esito del numero accresciuto dei laici alfabetizzati attraverso un
percorso formativo più breve e professionalizzante.23 Come Landolfo di San Paolo si
collocava sul crinale posto tra egemonia culturale ecclesiastica e laicizzazione dei saperi,
così Caffaro è probabilmente l’antesignano di una generazione di laici formatasi fuori dagli
schemi scolastici tradizionali. Nella sua prosa si trovano numerose suggestioni scritturali,
ma quasi nessuna citazione della letteratura antica, eccezion fatta per un richiamo a
Cicerone e per un brano di Sallustio, del quale, tuttavia non è chiaro se l’annalista
conoscesse la provenienza esatta.24 Caffaro, dunque, non imita nessun modello illustre, ma
si limita a elencare anno per anno le imprese della sua città. Non che gli storiografi delle
generazioni vissute a cavallo del 1200 non conoscessero gli antichi: Boncompagno da
Signa, ad esempio, era con tutta evidenza un conoscitore degli autori classici, anche se non
17
G. Gorni, Il "Liber Pergaminus". Oltre che nell’introduzione al Liber, i particolari biografici sull’autore
sono criticamente analizzati in G. Gorni, Mosè del Brolo.
Anonymi Novocomensis, su cui Grillo, Una fonte.
Liber Maiolichinus, alle pp. XIII e XIV sul modello letterario.
20 Carmen de gestis, pp. XVI-XVII per i modelli classici e, sullo stesso argomento, Gesta di Federico I in Italia, pp. XXI.
21 Guenée, Histoire et culture historique, pp. 45-55.
22 Witt, The two latin cultures, pp. 266-267 e 288-290; sulla scrittura in prosa come più accessibile si veda il giudizio
di Rolandino da Padova riportato in Arnaldi, Studi sui cronisti, p. 142.
23 Sul ruolo dell’ars dictaminis nella formazione del politico e della cultura politica dei comuni nel secolo XII si veda
ora Hartmann, Ars dictaminis.
24 Placanica, L’opera storiografica di Caffaro, pp. 29-31, 38.
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li citava in maniera esplicita.25 Il minor livello di elaborazione di una parte della storiografia
successiva ai decenni centrali del XII secolo potrebbe quindi essere l’effetto non solo o
non tanto del mutamento dei modelli – dai grandi poeti antichi, ai ben più modesti (e
accessibili) maestri di ars dictaminis – quanto piuttosto di un allargamento della platea dei
possibili fruitori e dell’approccio più frequente e corrivo alla scrittura che le necessità
dell’amministrazione urbana richiedevano.26
Se vi è un rapporto tradizionale e consolidato tra scrittura storica e giustizia, se molti
annalisti erano anche uomini di legge, o, più semplicemente, scrivevano per professione
atti aventi valore di prova giuridica, è ipotizzabile che abbiano impiegato linguaggi e stilemi
delle procedure giudiziarie per conferire ai loro scritti maggiore autorevolezza o anche solo
un tono congruo al loro intento comunicativo? D’altra parte, quante delle scritture che
consideriamo “pragmatiche”, cioè “non letterarie”, lo erano davvero per gli standard degli
uomini dei secoli XII e XIII? Il problema è di vasta portata, non ultimo per il fatto che
richiede di considerare testi studiati da tradizioni disciplinari molto distanti, come la storia
letteraria e la storia del diritto.27 Soffermarsi sulla relazione tra giustizia e storiografia è
tuttavia fruttuoso non solo per cogliere sfumature di stile, ma forse anche per dire qualcosa
sui mutamenti delle percezioni e della mentalità del periodo che indaghiamo. La presenza
di una superiore autorità arbitrale creava uno spazio di confronto politico e offriva dunque
materia per la narrazione. Quando, per ragioni che cercheremo di comprendere, questi
spazi di confronto si diradarono cambiò anche il modo di raccontare la politica.
Attorno al Barbarossa: la creazione di uno spazio pubblico
La fase storica sulla quale ci soffermiamo è quella del diffondersi di un’accezione
via via più tecnica sia della nozione di giudice, sia di quella di giudizio. Nel corso del secolo
XII e soprattutto del successivo per iudex si cominciò a intendere una figura professionale
abbastanza definita, formata in scuole conosciute e spesso rinomate.28 Nel Medioevo,
però, era tradizionalmente l’autorità politica che svolgeva la funzione giudicante: la
iurisdictio era una vera e propria metafora del potere.29 Dunque non ci si deve sorprendere
che il vocabolo iudex venisse associato al sovrano: negli anni del Barbarossa era il sovrano
Boncompagno da Signa, “De malo senectutis et senii”, p. LVII.
Sul diffondersi della scrittura per usi pratici, si vedano i risultati di Hagen Keller e della sua scuola già citati alla
nota ***: Pragmatische Schriftlichkeit; Kommunales Schriftgut in Oberitalien; Träger, Felder, Formen pragmatischer Schriftlichkeit
im Mittelalter; Träger der Verschriftlichung.
27 L’attenzione dedicata da Marino Zabbia a un testo documentario, il Memoriale delle offese del comune di Siena (sul
quale si veda sotto all’ultimo paragrafo), in una sintesi sulla storiografia comunale ha costituisce lo spunto per
questo capitolo (Zabbia, La città italiana, p. 14). Sul processo inverso, ovvero la rielaborazione letteraria di dati
giudiziari, oltre a Le droit et son écriture, in ambito italiano è significativa l’esplorazione in Rossi, Comico e tragico del
diritto nella novellistica italiana, con una valutazione della questione storiografica dal punto di vista di uno storico del
diritto.
28 Maire Vigueur, Gli “iudices”, p. 161; Fried, Die Entstehung des Juristenstandes im 12. Jahrhundert, in particolare pp.
170-1; Brundage, The Medieval Origins of the Legal Profession. Naturalmente non fu sempre così, potrebbe essere il
caso di Rolando da Lucca: Conte Menzinger, La “Summa Trium Librorum”, p. LII e Bagnai Losacco, Theisen, Profilo
biografico, pp. XXXV-XXXVII e XLI.
29 Costa, Iurisdictio, p. 152. In una delle sue opere più famose Ernst Kantorowitz ha mostrato come nel secolo XII
si fosse ulteriormente rafforzata l’idea di un sovrano «immagine della giustizia» («imago equitatis»): Kantorovikz, I
due corpi del re, pp. 82-84.
25
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a rappresentare il giudice per eccellenza, pur se consigliato da autentici iuris periti.30 Questo
ruolo di giudice, ovvero di arbitro imparziale, creava attorno a lui uno spazio di confronto,
un teatro, nel quale si esibivano gli attori di vari drammi, ovvero i querelanti. Il canovaccio
di queste rappresentazioni era costituito, quasi sempre, da un confronto veemente, che
spesso gli attori davano a intendere come ben più lungo e tragico rispetto a quanto il
sovrano-spettatore osservava con i propri occhi.
L’annalista lodigiano Ottone Morena scrive nei primi anni Sessanta del secolo XII.
Egli ci presenta per la prima volta Federico Barbarossa durante un’assemblea
(«colloquium») nella città di Costanza.31 Il sovrano, probabilmente assiso sul trono, rendeva
giustizia a tutti coloro che avevano subito qualche torto.32 Due mercanti lodigiani giunti lì
per tutt’altro motivo decisero di presentare in quella sede le proprie lagnanze nei confronti
dei Milanesi: «Posero all’attenzione della corte il caso del mercato che i Milanesi avevano
sottratto ai Lodigiani».33 Per farlo, secondo un uso antico diffuso in Lombardia, si
procacciarono due grosse croci e, resisi in tal modo ben visibili, si presentarono al cospetto
del Barbarossa.34 La singolare usanza colpì i maggiorenti germanici e uno dei Lodigiani,
«che parlava benissimo il tedesco», ebbe così l’opportunità di parlare in assemblea,
chiudendo la propria denuncia con una richiesta ufficiale, in termini più propriamente
retorici una petitio:
Perciò preghiamo voi, o chiarissimo re, e chiediamo a tutti i vostri principi qui presenti
di pregarvi affinché tramite una vostra lettera o un ambasciatore ordiniate ai Milanesi di
restituire il detto mercato ai Lodigiani […].35
Avremo modo di indagare più avanti il significato tecnico di questo inserto di oratio
recta. Qui basterà soffermarsi sull’intervento finale del Barbarossa che, mosso dalle
eloquenti ragioni del suo suddito, decise di inviare ai Milanesi una lettera e un nunzio,
guadagnandosi l’elogio dell’annalista: «Lui che era pio e misericordioso».36 Ottone Morena
impiega gli aggettivi attraverso i quali il Siracide descrive la Divinità e la sua giustizia (Eccli,
Il tema del sovrano come giudice è trattato in un saggio di Björn Weiler (The King as Judge) che propone un
istruttivo confronto tra il trattamento storiografico di questo aspetto della regalità nei casi di Enrico II d’Inghilterra
e di Federico Barbarossa. Anche nelle pagine seguenti ci si soffermerà sull’immagine del Barbarossa come giudice,
ma lo si farà sulla base della storiografia italica non impiegata nel lavoro di Weiler.
31 Per una compiuta analisi dell’immagine di Federico nella storiografia medievale germanica, in relazione alla distruzione di Milano, rimando all’importante lavoro di Alfredo Pasquetti nel quale si fornisce anche un’ampia e
aggiornata rassegna sulla ricerca tedesca sulla sovranità del Barbarossa, la sua percezione, la sua rappresentazione
(Pasquetti, La distruzione di Milano nelle fonti tedesche).
32 Historia Frederici I, p. 3, rr. 13-14. Sull’influsso delle concezioni della sovranità derivanti dal diritto romano nella
cronachistica di corte al tempo del Barbarossa: Szabó, Römischrechtliche Einflüsse auf die Beziehung des Herrschers zum
Recht; un’indagine aggiornata sull’impatto della seconda dieta di Roncaglia sulle cronache (anche quelle d’ambito
italico) in Frenz, Barbarossa und der Hoftag von Roncaglia. La procedura giudiziaria si andò uniformando nell’Europa
occidentale sulla base di trattati (gli ordines iudiciarii), molti dei quali elaborati nelle scuole di diritto: il fenomeno
della professionalizzazione dei giudici fu quindi di portata europea: Sull’origine della letteratura processualistica
non solo italica mi limito a segnalare: Cortese, Il Diritto, pp. 111-132. Sugli ordines iudiciarii come genus: FowlerMagerl, "Ordines iudiciarii".
33 Ibidem, p. 3, rr. 11-12.
34 Ibidem, p. 3, rr. 17-21. Dell’uso siamo informati, ancora una volta, tramite l’Historia di Landolfo di San Paolo, ma
anche da Rahewino, come risulta dalla nota 1, p. 4 dell’Historia Frederici I.
35 Ibidem, p. 5, rr. 17-19: «Quapropter deprecor vos, clarissime rex, ac universos principes vestros hic astantes,
quatenus rogent vos, ut per litteras vestras ac nuncium vestrum Mediolanensibus precipiatis, quod predictum mercatum Laudensibus restituant».
36 Ibidem, p. 5, r. 23: «Qui pius fuerat et misericors».
30
2, 13) proponendo l’identificazione topica tra signore del Cielo e sovrano terreno. Questa
identificazione appare più qualificante nel momento in cui i Milanesi e i loro alleati entrano
in campo. Disprezzando il giudizio del Barbarossa, i Tortonesi, alleati di Milano, si erano
ribellati alla volontà divina, ecco perché, ancora parlando di giustizia, Ottone ricorre a
un’altra parafrasi della Scrittura (Neem 3, 5, evidenziata in corsivo nel testo):
I Tortonesi […], che diffidavano della giustizia del sovrano e confidavano piuttosto
nel valore e nella potenza dei Milanesi, che li aiutavano in ogni maniera, rifiutarono di piegare il
collo di fronte a tale giudice.37
Barbarossa – con il quale l’annalista lodigiano è evidentemente schierato – si rivela
un giudice saggio. Al giudizio, infatti, egli non giunge mai senza aver prima consultato la
sua curia. È questa la qualità che lo rende idoneo al governo. Sotto le mura di Crema,
volendo indurre gli abitanti ad arrendersi pacificamente, fa impiccare due nemici, colpevoli
di tradimento, ma solo perché: «Si era consigliato pubblicamente su questa materia con i
membri della curia».38 Di fronte all’inaspettata reazione degli assediati, che infliggono la
medesima pena a due prigionieri, Federico decide di giustiziare tutti gli ostaggi nelle sue
mani. Si tratta di una reazione a caldo, considerata eccessiva dagli stessi maggiorenti del
campo imperiale. Si crea dunque un piccolo caso politico-giudiziario: da una parte, per una
questione di dignità, il sovrano non può venir meno a quanto da lui stesso stabilito,
dall’altra non può neppure ignorare l’appello degli ecclesiastici al suo seguito. Essi, che lo
invocano come «fonte di misericordia», lo pregano di non imitare la nequizia dei suoi
nemici. Si giunge così a un compromesso: saranno impiccati solo nove prigionieri.39 La
decisione risulta anche stavolta mediata attraverso la curia e l’imperatore si guadagna di
nuovo il titolo di «misericordioso». Pochi mesi dopo, ancora sotto le mura di Crema, ma
ormai prossimo all’assalto finale, decide di permettere l’evacuazione pacifica della città:
«Poiché era pio e misericordioso non desiderava la loro morte, imitando in questo la
volontà di Dio, il quale non vuole “la morte del peccatore, ma che si converta e viva”». 40
L’episodio diventa l’occasione per una pubblica dimostrazione di magnanimità da parte
dello stesso Barbarossa, che si prodiga in prima persona per aiutare gli infermi.41 Collettiva
fu anche la decisione di distruggere Milano nel 1162: da Vincenzo di Praga sappiamo
infatti che Barbarossa aveva chiesto consiglio alle altre città della Lombardia (Pavia,
Cremona, Lodi, Como) ed erano state queste a volere la distruzione completa e definitiva
dell’odiata metropoli. Su questo punto, però, Acerbo Morena (che continua la narrazione
del padre, lui vivente) sorvola: una reticenza significativa, che Knut Görich attribuisce alla
consapevolezza delle possibili future implicazioni politiche della decisione e, soprattutto,
Ibidem, p. 21, rr. 6-12: «Terdonenses […] quia forte de iustitia diffidebant, tum quidem, quod magis in veritate
est, idcirco quia in virtute ac potencia Mediolanensium, qui acriter eos adiuvabant plurimum confidebant, tali iudici
colla eorum supponere omnino repudiaverunt».
38 Ibidem, p. 82, r. 17: «Tota curia hoc audiente consilium maximum super hoc ab eis habitum est».
39 Ibidem, pp. 82-83: «Imperator namque eos audiens nec ex toto eis credere volens nec omnino eorum consilium
atque preces refutare disponens, tandem novem ex ipsis, ut Cremenses ex hoc, quod fecerant, pro stultis et insipientibus se haberent, videntibus illis suspendere fecit». Questo passo, incluse la citazione precedente.
40 Ibidem, p. 92, rr. 18-21: Quoniam pius erat et misericors nec ipsorum mortem cupiebat, Dei voluntatis imitator,
qui non vult “mortem peccatoris, sed ut convertatur et vivat”».
41 Ibidem, p. 95, rr. 2-8: «Nec pretermittendum fore opinor, quod imperator christianissimus, animi ferocitate deposita et hostili odio abiecto, ipsos Cremenses per quendam locum angustum, unde egrediebantur, exire adiuvans
suis propriis manibus quendam ipsorum languidum cum aliis militibus exportavit».
37
della memoria scritta di essa.42
L’anonimo autore del Carmen de gestis – attivo anch’egli nei primi anni Sessanta – è
schierato, come i Morena, nel campo imperiale. Sebbene non ne conosciamo con certezza
la patria, dal testo traspaiono le ragioni che lo hanno indotto a questa scelta: non è solo la
fedeltà verso il legittimo sovrano, ma anche l’avversione per una Milano divenuta ormai
signora, abusiva e arrogante, di gran parte della Lombardia. Federico è dunque un
riequilibratore delle forze in campo: egli controlla scrupolosamente i piatti della bilancia
che la Giustizia sorregge. Il primo dei suoi meriti è quello di non cedere alle lusinghe dei
doviziosi Milanesi:
Si affrettano a mandargli doni sontuosi
tentando di blandire lo stabile cuore del re,
perché non si curi di ascoltare le querele dei miseri
e non riconduca all’ordine i cittadini di Milano,
che non opprimano gli sconfitti come hanno fatto fin qui.43
Questa la risposta del sovrano:
Ma il re, pio e saggio, rifiuta le offerte e dice:
“Non mi offrirà proprio nulla Milano.
Non concederò la mia grazia al popolo,
a meno che non faccia pace coi vicini,
che non cominci a temere le leggi e a rispettare i decreti reali.
Se farà queste cose riotterrà il mio favore”.44
«Pio e saggio» è Federico, come per Ottone Morena era «Misericordioso e pio»: le
qualità del sovrano si provano nella sua veste di giudice. Egli presta orecchio alle lamentele
delle comunità vessate dai Milanesi e dai loro alleati:
Il padre insigne, il vescovo Gerardo, non nasconde
le disgrazie della gente di Bergamo, il cui lamento
commuove il re e i suoi principi; si decide una degna [punizione
per Brescia, se non acconsente a rispettare i decreti del re
e se non restituisce quanto ha sottratto al popolo [bergamasco.
I Comaschi sciorinano le solite infinite lamentele,
insieme ai Lodigiani; si querela anche la mesta Pavia
per esser vessata da una dura guerra e perché i suoi cittadini
sono incarcerati con le catene ai piedi,
tutti quanti, insomma, chiedono l’aiuto del principe.45
Il catalogo dei querelanti è lungo: Bergamo, Como, Lodi, Pavia. Non si tratta solo
di una sterile convenzione letteraria, il catalogo ha una precisa funzione nell’economia del
Görich, Erinnerungsgeschichte(n), pp. 269-270.
Carmen de gestis, vv. 182-186: «Munera festinant largissima mittere regi, / Et temptant stabilem regis pervertere
mentem, / Ne curet varias miserorum audire querelas / Nec cogat cives desistere Mediolani, / Quin superatorum
dominentur more vetusto».
44 Ibidem, vv. 186-192: «At pius et prudens rex munera spernit et inquit: / "Munera nulla michi prebebit Mediolanum. / Gratia nec populo dabitur, michi credite, nostra, / Pacem vicinis faciat nisi gentibus atque / Ni timeat leges
decretaque regia servet. / Hec autem faciens nostrum retinebit amorem"».
45 Ibidem, (vv. 1335-1344): «Nec pater insignis mala gentis dampna Gerardus / Pergamee celat, cuius querimonia
regem / excitat atque duces; censetur digna ruina / Brixia, ni regis properet decreta subire, / et nisi restituat populo
sua Pergameorum. / Cumani solitas recitant sine fine querelas, / Laudensesque simul; queritur quoque mesta Papia /
Se gravius duro vexari marte suosque / Compedibus cives arceri carcere vinctos, / Auxiliumque petunt reverendi
principis omnes».
42
43
testo: deve mettere in luce la cattiva condotta di Milano nei confronti di quasi tutti i vicini,
dunque l’inidoneità al primato il quale, come si è visto, per gli scrittori italici sembra
fondarsi sul rispetto della volontà collettiva, perfino per il sovrano. Ecco perché ritroviamo
l’elenco anche più avanti (vv. 1397-1408). Non stupirà, a questo punto, osservare come la
seconda dieta di Roncaglia sia interpretata dall’anonimo come una grande assemblea
giudiziaria – assolutamente tradizionale («alla vecchia maniera») – e presieduta dal «giudice
pietoso»:
Non lontano da qui è un luogo che i Lombardi chiamano
Roncaglia, un campo fecondo di messi e d’erba,
quando il re romano visita le loro città,
sogliono i Lombardi organizzare lì un’assemblea
e, sistemati gli accampamenti, promulgare le leggi e risolvere [i conflitti.
Verso quel luogo, dunque, si dirige il sovrano
e, volendo riunire il concilio alla vecchia maniera,
convoca i più insigni tra i Lombardi, i nobili e i maggiorenti
insieme ai sapienti del grande regno.
Col loro consiglio ripercorre le leggi e i diritti,
risolve le insidie delle cause e nelle forme prescritte
pone fine a innumerevoli querele come giudice pietoso.46
Prima di bollare come semplicemente topica questa insistenza dell’anonimo e dei
Morena sulla giustizia di Federico, sarà opportuno ricordare quali furono le cause
scatenanti dell’azione militare del sovrano contro Tortona (1155) e, su un periodo più
lungo, dell’intervento degli esperti legali italici alla seconda dieta di Roncaglia (1158).
Secondo Görich all’origine di tutto vi fu il sospetto, largamente condiviso, di una certa
parzialità da parte della corte di Federico, sbilanciata a favore di Pavia contro la rivale
Tortona. Si trattava di un grave colpo inferto all’honor imperii, che minacciava la capacità del
sovrano di porsi come istanza suprema di giustizia. A questo grave colpo Federico avrebbe
reagito con una controffensiva intellettuale oltre che militare, attraverso l’intervento dei
giuristi bolognesi alla dieta del 1158.47 L’insistenza degli storiografi italici sulle qualità di
Federico potrebbe non essere quindi la riproposizione di un topos, ma un’altra risposta, sul
piano della propaganda, a un clima di generale sfiducia. L’intervento plateale dei giuristi,
del resto, era una novità nella prassi assembleare del Barbarossa.48 Non stupisce che la
storiografia italica più indulgente verso lo Svevo abbia colto questa novità: doveva trattarsi
di una modalità specificamente italica di trattare le questioni e il fatto che l’imperatore
l’accettasse doveva probabilmente servire a rafforzarne l’autorevolezza.
Il silenzio attorno a Federico II
Il vicentino Gerardo Maurisio è tra gli ultimi cronisti italici (in questa fase storica) a
Ibidem, vv. 2597-2608: «Haud procul hinc situs est, Ligures quem nomine dicunt / Roncaliam, campus, segetum
fecundus et herbe, / Rex ubi Romanus, Ligurum cum visitat urbes, / Colloquium celebrare solet castrisque locatis
/ Iura dare in populos et eorum solvere causas. / Huc igitur princeps Fredericus more vetusto / Concilium celebrare volens proficiscitur atque / Convocat insignes Ligurum proceresque potentes / Et simul ex magno sapientes
undique regno, / Quorum consilio leges ac iura revolvens, / Causarum solvit laqueos et rite querelas / Terminat
innumeras iudex pietatis amator».
47 Görich, Fragen zum Kontext der Roncalischen Gesetze Friedrich Barbarossas, pp. 307-310.
48 Weiler, The King as Judge, p. 127.
46
descrivere minutamente un sovrano attivo come giudice e pacificatore.49 Egli stesso
partecipò alla curia di Ossaniga, in Val Lagarina, nella quale Ottone di Brunswick – in
viaggio verso Roma per ricevere la corona imperiale – aveva ricevuto Ezzelino II da
Romano e Azzo VI d’Este, mortali nemici.50 L’episodio avrebbe avuto luogo nell’estate
del 1209. Gerardo si trovava al seguito di Ezzelino e il racconto della vicenda è quindi
completamente centrato sul punto di vista di quest’ultimo. L’orientamento “signorile”
della curia (Gerardo non ricorda alcun intervento delle città) e la sua collocazione
geograficamente periferica, sono buoni indici della distanza dalle diete federiciane del
secolo precedente. Ci sono anche altri indizi nel testo che fanno comprendere la differente
qualità di questa curia rispetto alle solenni assise descritte nel Carmen de gestis e nella Historia
dei Morena. La richiesta di giustizia da parte di Ezzelino, ad esempio, sembra più “aver
l’aria” di una formale accusa, piuttosto che esserlo realmente:
Un giorno, essendo il marchese e messer Ezzelino alla presenza del re e della corte,
si alzò Ezzelino e, quasi accusando il marchese, tra le altre cose che disse, lo incolpò di averlo
tradito.51
Quel «quasi» anteposto al verbo tecnico «querelando», tradotto con “accusando” è
una sfumatura incomprensibile se non la si considera una consapevole – e tutto sommato
onesta – interpretazione da parte di Gerardo: quella non era la sede di un giudizio, dunque
l’accusa di Ezzelino non poteva esser considerata una vera e propria querela. All’origine
dell’accusa stava un sanguinoso episodio dai tratti non ben chiariti avvenuto alcuni anni
prima a Venezia, in piazza San Marco: Ezzelino e Azzo, in quel frangente ancora
apparentemente amici, passeggiavano dandosi la mano, assieme ad altri cavalieri della loro
brigata. Alcuni sicari, che Ezzelino avrebbe in seguito ritenuto assoldati da Azzo,
assalirono il gruppo con l’intento di ucciderlo. Il da Romano avrebbe voluto mettersi in
salvo o potersi difendere, ma il marchese d’Este continuava a tenergli stretta la mano.
L’episodio si concluse con l’uccisione di uno dei cavalieri di Ezzelino e il ferimento di un
altro.52 Forse proprio perché quella curia non poteva esser considerata una sede idonea, di
fronte alla circostanziata accusa del da Romano e dell’offerta di Azzo di risolvere la
questione con un duello, Ottone decise di non pronunciarsi in pubblico: «Ascoltatili il re
senza pronunciarsi, ordinò il silenzio a entrambi».53 La spiacevole situazione si ripeté
qualche giorno più tardi quando l’arrivo all’accampamento di Salinguerra Torelli, nemico
Naturalmente un discorso diverso andrebbe fatto sulle cronache trecentesche in relazione a Enrico VII e Ludovico il Bavaro. Sui cronisti legati all’esperienza di Enrico VII: Zabbia, La città italiana, p. 20; Zabbia, I notai e la
cronachistica cittadina, pp. 49-64.
50 Rigon, Ezzelino II da Romano e Dean, Este, Azzo d’; Castagnetti, La marca veronese, p. 233.
51 Maurisio, p. 14, rr. 15-18: «Die autem quadam, cum essent ambo coram rege cum amicis suis idem marchio et
dominus Ecelinus, surexit dominus Ecelinus et quasi querelando de Marchione, inter cetera que dixit, retulit contra
marchionem quod ipse de eo fecerat proditionem».
52 «Cum essent ambo [Ezzelino e Azzo d’Este] in Veneciis et venirent simul per plateam Sancti Marci, tenente Marchione se ipsum per manum, venientibus quibusdam curendo cum gladiis ad occisionem sui, volens evitare mortem
et capere fugam, idem Marchio strixit ei manum nec dimittere ipsum volebat et, nisi violenter manum de manu
ipsius extraxisset, non potuisset tunc mortis evitare periculum tantumque ipsum tenendo ne fugeret, impedivit
quod illi occisores iunxerunt milites domini Ecelini, silicet dominum Rusnardum, filium quondam Martinelli de
Benenca de Pitocho, civem vicentinum, quem gravissime vulneratum dimiserunt semivivum, alium autem militem,
silicet Bonacursum de Tervisio, interfecerunt: et sic vix evasit dominus Ecelinus contra voluntatem ipsius Marchionis»: ibidem, p. 14, rr. 19-27.
53 Ibidem, p. 14, r. 34, p. 15, r. 1: «Domino rege tantum audiente et nichil statuente, set tamen scilencium indixit
utrique».
49
di Azzo, ripropose la questione nei termini stavolta di una formale accusa con richiesta di
giustizia:54
… presentando una querela contro il marchese e accusandolo non solo del
tradimento commesso a suo danno, ma anche del tradimento verso messer Ezzelino, dicendo
di esser pronto a provare le accuse personalmente di fronte al re, sottomettendosi senza
indugio al giudizio di questi.55
Ottone non voleva restare invischiato in una causa formale: d’altra parte i sudditi
italici sembravano avere chiara contezza di come trascinare al pronunciamento ufficiale il
renitente sovrano. Sorta una zuffa, Ottone impose a tutti nuovamente il silenzio e si ritirò
«coi Tedeschi» («cum Teutonicis»).56 La soluzione (provvisoria) sarebbe stata raggiunta
solo attraverso un’opera di mediazione molto cortese condotta direttamente da Ottone in
forma riservata.57
Se il sovrano di Maurisio è un giudice che corre il forte rischio di essere manipolato,
quello presentato negli annali del piacentino Codagnello è decisamente uno strumento
nelle mani di una parte politica. Lo si comprende dal racconto del colloquium convocato nel
1226 dal nipote del Barbarossa, Federico II, già rivale di Ottone. 58 Siamo a un paio di
generazioni di distanza da Roncaglia (nei primi anni Trenta del Duecento) e Codagnello –
cittadino di una Piacenza tradizionalmente ostile ai sovrani – ha nei confronti
dell’imperatore un atteggiamento ben diverso da quello degli autori analizzati fin qui. A
invitare il sovrano in Lombardia erano stati, secondo lui, i Cremonesi, desiderosi di
sottomettere le rivali vicine, specialmente Milano: la parzialità dell’assise è dunque data per
scontata in partenza. Nella versione del carme incluso negli annali piacentini la vicenda è
ridotta a un gioco di potere tutto interno al mondo delle città, un gioco del quale desidera
approfittare l’avido e violento Federico:
Saputo ciò l’imperatore
determinato a quanto detto
subito cominciò il viaggio
col furore della sua ira
al modo dei Tedeschi.59
Nutrendo sospetti riguardo alle vere intenzioni dell’imperatore («I Lombardi sono
astuti e molto accorti nelle questoni politiche»60) quasi nessuna città invia i propri
rappresentanti nelle modalità ordinate dal sovrano e, anzi, molte di esse si uniscono in una
lega difensiva:
Vide invece l’imperatore,
Varanini, Salinguerra Torelli.
Maurisio, p. 15, rr. 11-13: «Exponendo querellam de ipso Marchione et accusando ipsum non solum de propria
prodicione, set etiam de facto potestatis Vincencie et de prodicione quam fecerat de domino Ecelino, dicens quod
de his omnibus paratus erat personaliter probare coram rege, arbitrio regis et sine mora».
56 Ibidem, p. 15, r. 20.
57 Ibidem, pp. 15-16. Sull’aspetto “novellistico”, forse esemplare, di questo inserto narrativo: Arnaldi, Studi sui cronisti,
p. 65.
58 Si tratterebbe, nota Ortalli, di materiale inglobato negli annali, ma non prodotto direttamente da Codagnello:
Ortalli, Federico II e la cronachistica cittadina, p. 256. Sul contesto culturale e politico si veda: Abulafia, Federico II, pp.
128-134 e Grimaldi, Il sirventese di Peire de la Caravana.
59 Annales Placentini, p. 74, rr. 28-32: «Imperator hoc audito / Et confixus eo dicto / Mox incepit advenire / Cum
furore sue ire / More Theothonico».
60 Ibidem, p. 75, rr. 1-2: «Sed Lombardi sunt astuti/et in factis valde tuti».
54
55
grande accaparratore di tesori,
che non poteva passare con la forza
e che non arrivava nessuno
nella fatua Cremona.61
I «capi della Lega Lombarda» («rectores Lonbardorum») si danno convegno a
Mantova:
Allora i rettori della Lega
con i loro alleati
fissarono un’assemblea
leale e corretta
nella valente Mantova. 62
Le differenze nella descrizione del sovrano tra gli annali di Codagnello da una parte,
i Morena, l’anonimo del Carmen de gestis e Gerardo Maurisio dall’altra non sono solo
questione di metrica e di parte politica. Agli occhi dei cavalieri-cittadini di molte civitates
padane l’imperatore non è più il garante di una giustizia superiore, ma un potere tra i poteri.
L’«accaparratore di tesori» del quale si ricordano il furore e l’ascendenza straniera («al
modo dei Tedeschi») non ha davvero più nulla del pio, misericordioso e incorruttibile suo
avo, descritto nel Carmen de gestis e nella prosa dei Morena. Vedremo che non si tratta di un
fatto transitorio. Qualcosa sembra essere davvero cambiato nell’immagine della regalità
italica.
La grammatica del dibattito pubblico
I cronisti che ci hanno descritto il sovrano come giudice (Morena, l’anonimo autore
del Carmen de gestis, Maurisio) ci hanno proposto anche una rappresentazione molto
concreta delle forme della giustizia: una giustizia collettiva e assembleare, consueta per gli
uomini della prima metà del secolo XII, ma molto diversa da quella, più tecnica e
tribunalizia, che si andava affermando all’epoca degli annalisti.63 Ancor più espliciti nella
descrizione delle modalità della giustizia di fronte al papa e all’imperatore sono i genovesi
Caffaro e Oberto. Nei loro annali, infatti, è lasciato spazio a una fase precisa della
procedura giudiziaria tradizionale alla quale fanno riferimento già i placiti del pieno
Medioevo e nota come altercatio.64 Sono state offerte letture approfondite (e
complementari) di questo aspetto dei primi annali genovesi.65 Qui ci soffermeremo
soltanto sul livello di dettaglio della descrizione e cercheremo di mettere in luce le
sottigliezze legali e dialettiche attraverso le quali gli annalisti intendevano, probabilmente,
Ibidem, p. 76, rr. 21-25: «Vidit autem imperator, / Thesaurorum cumulator, /Quod nequiret vi transire / Neque
gentes convenire / In Cremona fatua».
62 Ibidem, p. 79, rr. 16-20: «Tunc rectores Lonbardorum / Et eorum sociorum / Statuerunt colloquium / Atque
firmum conscilium / In valenti Mantua».
63 Pur continuando a coabitare con un ampio ventaglio di possibilità nella risoluzione delle dispute, per una descrizione del quale devo rimandare a una lettura per intero di Wickham, Legge, pratiche e conflitti e di Vallerani, Tra
astrazione e prassi, in part. le pagine conclusive, 150-151. Per il contesto milanese: Wickham, Sonnambuli, pp. 66-71.
64 Bougard, La justice, p. 119. Per un’aggiornata e problematica disamina del rapporto tra oralità e scrittura nel
processo altomedievale: Vallerani, Scritture e schemi rituali. Per la ritualità assembleare di fronte al sovrano, entro la
quale vanno collocate le assise giudiziarie, e la sua ricezione nella storiografia: Althoff, “Colloquium familiare”.
65 Schweppenstette, Die Politik der Erinnerung, pp. 240-283; Bernwieser, “Honor civitatis”, pp. 155-168.
61
erudire i propri lettori.66
Negli annali troviamo descritto il dibattito del 1123 di fronte a papa Callisto II.
L’oggetto della contesa tra Pisa e Genova era, lo ricordo, la giurisdizione ecclesiastica sulla
Corsica.67 L’annalista partecipò in prima persona all’episodio romano e c’è da credere che
la dettagliata descrizione della vicenda sulla quale ci soffermeremo si debba proprio
all’osservazione diretta. Constatata l’impossibilità di raggiungere una soluzione condivisa
nel sinodo da lui convocato (quello passato alla storia come primo concilio Lateranense),
il pontefice decise di delegarla a una speciale commissione di ventiquattro prelati; essi
avrebbero lavorato al di fuori dell’assemblea plenaria, anche consultando l’archivio della
Chiesa romana.68 L’incarico di riportare al pontefice il parere della commissione fu affidato
all’arcivescovo di Ravenna:
Signore, non osiamo dare una sentenza di fronte a te, ma ti daremo un parere avente
vigore di sentenza. Il parere mio e dei miei colleghi è che l’arcivescovo di Pisa interrompa le
consacrazioni della Corsica e d’ora in avanti non si intrometta più in queste faccende.69
Un parere (consilium) avente vigore di sentenza. La raffinatezza lessicale del prelato
è già un indizio per valutare il possibile impiego pratico di questa descrizione: prevedendo
una possibile contestazione, l’annalista si dilunga nello spiegare attraverso quali forme il
consilium divenne una vera sententia. Anche il pontefice, infatti, viene descritto come tutto
intento a dimostrare l’ampia condivisione del consilium e il carattere collettivo del
conseguente pronunciamento:
Il papa, ascoltato il parere, si alzò e disse: “Arcivescovi, vescovi, abati e cardinali, siete d’accordo con questo parere?”. Tutti si alzarono e dissero tre volte: “D’accordo, d’accordo, d’accordo”. Il papa disse: “E io, per parte di Dio, del beato Pietro e
mia, confermo quanto è stato stabilito; domani, nell’assemblea plenaria, con tutti voi
lo confermerò”.70
Sia che questa vivacità dialogica – conclusa da un colorito accesso d’ira del presule
pisano – vada intesa come una scelta stilistica dell’annalista, sia che vada considerata
nell’ottica informativa degli annali, occorrerà comunque tener conto che la descrizione del
dibattito su questioni legali attraverso l’oratio recta trova precisi riscontri nella tradizione
delle carte di querela e getta quindi un ponte ancora poco riconosciuto tra generi narrativi
considerati differenti.
Sull’aspetto formativo degli annali di Genova v. Schweppenstette, Die Politik der Erinnerung, p. 286.
Il contesto storico della questione dei diritti metropolitici sulla Corsica e del dibattito che presentiamo sotto (il
primo concilio Lateranense) è stato recentemente ricostruito in Anzoise, Rossi, “Quis nescit Petrum Pisanum?”, in
particolare alle pp. 423-424.
68 Annali genovesi, I, p. 18 r. 17 – p. 19 r. 2: «Tandem dominus papa, postquam uidit cardinales et episcopos discordare, litis huius consecrationis iudices, inde qui litem iuste diffinirent, posuit duodecim archiepiscopos et duodecima episcopos, nomina quorum in priuilegio Ianuensium scripta sunt, qui ab aliis separantes et in quandam partem
palatii semoti stantes et multum inter se de Corsicanis consecrationibus certando, et antiquum registum Romane
ecclesie legere fecerunt, et ibi inuenerunt quod Pisani archiepiscopatum Corsice iniuste tenebant»
69 Ibidem, p. 19, rr. 5-9: «Domine, domine, nos non sumus ausi dare sententiam coram te, sed dabimns tibi consilium
obtinens uim sententie. consilium meum et sotiorum tale est: ut archiepiscopus Pisanus deinceps Corsicanas consecrationes dimittat, et ulterius de illis non se intromittat».
70 Ibidem, p. 19, rr. 9-14: «Papa uero, audito consilio, surrexit et dixit: “Archiepiscopi, episcopi, abbates, cardinales,
placet omnibus uobis hoc consilium?” Qui surrexerunt et tribus uicibus dixerunt: “Placet, placet, placet”. Et papa
dixit: “Et ego, ex parte Dei et beati Petri et mea, laudo et confirmo; et mane, pleno Consilio, cum omnibus uobis
iterum laudabo et confirmabo”».
66
67
Come la giustizia papale, anche quella dell’imperatore non è un fatto riservato alla
sua sola persona.71 Il sovrano, nella rappresentazione di Oberto, si fa portavoce di
un’istanza collettiva e, in questo senso, l’annalista genovese avvicina la sua autorità a quella
esercitata dai consoli cittadini. Ecco, ad esempio, la risposta del Barbarossa ai consoli di
Genova che gli offrono aiuto militare per una progettata spedizione contro il re di Sicilia
(nel testo, qui e in seguito, sono evidenziati in corsivo i passi che corroborano quanto
detto):
Riguardo a ciò che dite, vedete che, senza i principi, i nobili della curia, i Tedeschi e i
Lombardi non posso né debbo pronunciarmi su una questione di tale rilievo. Torniamo insieme a Parma,
saremo lì a metà Quaresima e tutto il nostro consiglio vi sarà. Di questa faccenda e di altre
discuteremo e vi daremo un responso secondo l’onore dell’Impero e vostro.72
Proprio perché la giustizia non è un fatto riservato al solo Federico, l’annalista ci
presenta, in un momento di forte tensione narrativa, il console di Genova Oberto Spinola73
che contraddice l’imperatore in nome del rispetto delle forme del diritto, dando prova di
grande abilità dialettica e competenza legale (impiega infatti un argomento romanistico74),
oltre che di un certo sangue freddo:
Affermo pubblicamente a nome della mia città che il vostro precetto non è legale, né
equo, né motivato in alcun modo; la città di Genova non è tenuta a osservare il mandato,
poiché la Sardegna è nostra e non dei Pisani; e voi non potete e non dovete giudicarci, poiché
la teniamo in nostro possesso e non siamo stati convocati in questa assemblea per render
giustizia a voi o ai Pisani.75
Federico non può, in quella sede, aggiudicare legalmente la Sardegna ai Pisani,
perché la controparte (i Genovesi) non è stata convocata con questo scopo. Impossibile
sintetizzare qui i retroscena bellici e diplomatici che avevano condotto a questa
drammatica presa di posizione. Impossibile anche sapere se questa rappresentazione, per
quanto orientata, sia congruente con la realtà. A noi basterà osservare che doveva essere
almeno credibile, anche per gli esperti legali genovesi come l’annalista stesso. Il seguito
della disputa è ancor più sorprendente, perché ci mostra un Barbarossa che, convinto dagli
argomenti del console, torna sui suoi passi:
Allora si alzò l’imperatore Federico, tenendo in mano il suo copricapo, e disse: “Ciò
che afferma Oberto Spinola è vero. Lo dico a tutti voi e lo intenda tutta l’asseblea: non voglio
che crediate che io abbia dato e confermato ai Pisani ciò che spetta ai Genovesi, né ai
Sull’honor imperii come concetto relativo e relazionale si veda Görich, Die Ehre Friedrich Barbarossas, p. 10. Si veda
ancora Althoff, “Colloquium familiare”, pp. 159-163. Weiler ha messo in rilievo il carattere più collettivo dell’attività
giudiziaria del Barbarossa rispetto a Enrico II d’Inghilterra e l’ha messa in relazione con una concezione differente
della regalità e della corte: Weiler, The King as Judge, pp. 121, 126, 127.
72 Annali genovesi, I, p. 158: «De hoc tamen quod dicitis, uidetis me absque principibus, baronibus curie et teutonicis
et lombardis, et de tam magna causa non possum nec debeo uobis dare ad presens responsum absque presentia illorum. Reuertamur igitur simul usque Parmam et illic erimus circa mediam quadragesimam et omnis curia debet illic esse; propter hoc et propter multas alias causas habebimus illic consilium cum illis et dabimus uobis responsum secundum honorem
imperii et uestri».
73 Sulla famiglia Spinola e il ruolo politico di Oberto ho avuto l’opportunità di leggere l’ancora inedito: Musarra,
Gli Spinola nel XII secolo, ringrazio l’autore di avermi inviato il testo.
74 Schweppenstette, Die Politik der Erinnerung, p. 259.
75 Annali genovesi, I, p. 195: «Ego, uice mee ciuitatis, publice affirmo quod preceptum uestrum non est iuris, equitatis, uel
nullius rationis; et non tenetur ciuitas Ianue tale obseruare preceptum uel mandatum, quoniam Sardinea nostra est
et non Pisanorum; et uos iure, non potestis nec debetis nos indicare, quoniam nos tenemus et possidemus, et in curia uocati
uel apellati non sumus ut iusticiam Pisanis uel uobis faciamus».
71
Genovesi ciò che spetta ai Pisani, voglio infatti che si stabilisca ciò che spetta a ciascuna città.
Al mio cospetto ciascuno deve avere giustizia, non subire sopraffazioni”.76
Il discorso di Oberto Spinola ha dunque fatto breccia nell’opinione della curia di
Federico. In altri casi l’autore ci presenta sapidi passaggi di autentico dibattito tra Pisani e
Genovesi. In questi punti possiamo incontrare altri mezzi, evidentemente consueti,
attraverso i quali si combatteva una battaglia legale. Tra questi l’organizzazione efficace
della memoria attraverso i documenti: un altro primato del comune di Genova del secolo
XII.77 Ancora per garantirsi il possesso della Sardegna, i Pisani si dicono pronti a saldare
il debito del re dell’isola, il giudice Barisone, nei confronti dei Genovesi. Chiedono, però,
di vedere il documento che comprova quel debito. A questo punto i Genovesi,
compiaciuti, fanno portare il «liber»: con ogni probabilità una prima versione del liber iurium
e non, come avviene poche righe più avanti, il testo sacro impiegato nel rituale del
giuramento:
“Volentieri solveremo il credito che vantate verso il re, basta che ce ne mostriate le
prove legali”. A questa obiezione i Genovesi rispondono: “Ci fa piacere che parliate dopo
esservi consultati: in tal modo non c’è pericolo che cambiate idea. Sia portato il registro e
vediamo subito a quanto ammonta il nostro credito”.78
Di fronte all’evidenza proposta dai Genovesi, i Pisani trovano rapidamente un
nuovo argomento per imporre una dilazione, nel documento, infatti, non è esplicitato
l’ammontare del prestito:
“Prima di giurare voglio conoscere l’ammontare preciso del vostro credito”.
Rispondono i Genovesi: “State solo cercando un pretesto per uscire dignitosamente dalla
faccenda. Gentaglia odiosa! Non avete affermato poco fa di voler pagare il debito di cui parla
il contratto? Mentitori! Che c’entra ora l’ammonare preciso? Se siete in buona fede non
dovreste tirare la cosa per le lunghe”.79
Più difficile è trovare nella generazione seguente narrazioni altrettanto dettagliate di
ciò che avveniva nelle grandi assemblee alla presenza del sovrano. Ci sono motivazioni
politico-istituzionali che spiegano questo declino. Lo stato di guerra con la Lega Lombarda
e le prolungate assenze del Barbarossa ostacolarono negli anni Settanta e Ottanta
l’esercizio del ruolo arbitrale da parte del sovrano.80 Il successore del Barbarossa, Enrico
Ibidem, p. 196: «Tunc surrexit dominus Fredericus imperator, capellum in manu sua tenens, dicens: “Verum est
quicquid Obertus Spinula dicit. Et ego dico omnibus uobis, et tota curia intelligat, quod non est mea intentio, neque
uolo, ut uos credatis me iustitiam uel possessionem Ianuensium Pisanis dedisse uel confirmasse, nec iusticiam Pisanorum Ianuensibus dedisse uel confirmasse, uolo enim ut cognoscatur iusticia utriusque ciuitatis. Uolo enim quod ius suum ante me
consequatur et equitatis effectum, et nequaquam iniustum”».
77 Su questo punto in particolare: Rovere, Il registro del XII secolo e Rovere, Sedi di governo, p. 422.
78 Annali genovesi, I, p. 173: «“Libenter soluere uolumus omne illud creditum regis, ex quo cartam publicam cognoscemus”.
Quibus pars nostra [i Genovesi] ait: “Letamur quod consulte loquimini, et non est putandum quod de cetero
affirmationem uestram debeatis mutare. Veniat liber, et statim cognoscetur rerum effectus”».
79 Ibidem, pp. 173-174: «“Ego volo scire quantitatem rerum creditarum priusquam iurem. Cui pars Ianue ait: “Pro
nichilo dicitis; nam occasionem queritis, qua possitis ab hoc facto absque rubore recedere. Nonne supra paulo ante
posuistis, gens aduersa, quod solutionem facere uelitis ex eo uidelicet, ex quo cartam publicam cognosceretis? Quid
ergo ad rem pertinet, uiri mendatia continentes, rerum quantitatem cognoscere? Si bona fide geritis, causam istam
dehinc ne deberetis dilatare”».
80 Sinteticamente: Opll, La politica cittadina di Federico I Barbarossa. Un’agile, ma articolata e innovativa presentazione
delle guerre di Federico in Italia in Grillo, Le guerre del Barbarossa. Tutt’altro discorso occorrerebbe fare sulle curie
giudiziarie ampiamente attestate nell’ambito dei territori amministrati dai funzionari imperiali tra il 1177 e il 1197:
in queste sedi le modalità tradizionali e rituali di gestione dei conflitti (compreso l’intenso ricorso al sacramentum
pubblico e al giudizio dei pari) continuarono a esser praticate, v. Fiore, La dimensione locale del potere imperiale, p. 1111.
76
VI, fu spesso assente, impegnato in Germania o nel Regno di Sicilia. Dopo la morte
prematura di Enrico nel 1197 un lungo periodo d’interregno determinò nell’Italia centrosettentrionale la scomparsa delle grandi curie, salvo sporadici e periferici revivals, come
quello di Ottone IV sui prati di Ossaniga.81 La giustizia cittadina diventò allora un fatto
gestito dai gruppi dirigenti locali in autonomia pressoché totale e, soprattutto, quel
confronto tra le città che l’autorità del sovrano sublimava nella dialettica giudiziaria sfociò,
quasi senza mediazioni, nel conflitto aperto, accuratamente descritto dai cronisti di quella
generazione, come Codagnello e Gerardo Maurisio. La coordinazione sovracittadina
proseguì, in parte, con le leghe (lombarda e toscana), ma, in generale, non risulta che le
cronache abbiano registrato l’attività arbitrale e giudiziale di queste assise con lo stesso
dettaglio che abbiamo trovato nell’annalista Oberto.82 Prendiamo ad esempio la grande
assemblea intercittadina convocata a Bologna nell’ottobre del 1231 e nella quale sarebbe
stato confermato il giuramento della Lega Lombarda: l’assemblea aveva lo scopo
naturalmente di far naufragare quella convocata da Federico II a Ravenna. Sono almeno
due le cronache del nostro corpus che ne trattano: quella di Gerardo Maurisio e una cronaca
Piacentina un po’ più tarda (terzo quarto del XIII secolo) nota come Annales Placentini
gibellini.83 Negli Annales lo spazio dedicato all’assemblea è limitato: si riportano le decisioni
principali in campo militare, ma non si dà nessuno spazio al dibattito, che, invece, tramite
Maurisio sappiamo ci fu e fu molto vivace. Il Vicentino era stato inviato a Bologna assieme
a un canonico trevigiano in qualità di rappresentante di Ezzelino e Alberico da Romano.
L’ingresso nella lega della pars dei da Romano non era particolarmente gradito (del resto
si sarebbe rivelato effimero) e Maurisio fu costretto a battere i pugni sul tavolo:
…Ai Lombardi dissi cose anche peggiori. Dissi infatti che se i signori da Romano volessero favorire l’imperatore potrebbero condurlo nella Marca di Treviso attraverso le proprie terre contro la volontà della Lega, tanta è la loro potenza.84
Per quanto veemente e dettagliato il discorso è in oratio obliqua (discorso indiretto).
Probabilmente furono le convenzioni retoriche legate alla modestia che impedirono
all’autore di proporsi troppo direttamente. Resta il fatto che gli unici scambi di battute in
oratio recta provengono dalle curie dei sovrani, non dai colloquia della Lega o dai consigli
cittadini.
Anche riguardo alle diete organizzate dai sovrani, comunque, la disponibilità di
Maurisio a riportare il dibattito ricostruendo le voci dei querelanti non è affatto diffusa.
Nel gennaio 1212 Ottone IV si trovava a Lodi, dove:
Una simile lunga durata della tradizione placitale in contesti “periferici” dal punto di vista comunale è rilevata e
descritta in Grillo, I secoli centrali del Medioevo, p. 153. Per una ricostruzione storico-istituzionale di riferimento si può
ricorrere a Capitani, Città e comuni e a Grillo, Un imperatore per signore?
82 Mi limito a segnalare i saggi più specifici: Raccagni, The Lombard League; Chiodi, Istituzioni e attività della Seconda
Lega Lombarda; Vallerani, L’età dei comuni; Grillo, Alle origini della diplomazia comunale. Gerardo Maurisio riporta un
suo discorso (ma sintetizzato in oratio obliqua) nel contesto di un’assemblea della Lega lombarda a Verona: v. più
avanti.
83 Maurisio, pp. 24-25; Annales Placentini gibellini, p. 453; sulla cronologia degli Annales, sinteticamente, v. Busch, Die
Mailänder Geschichtsschreibung, p. 139.
84 Maurisio, p. 25, rr. 29-32 «Dixi etiam maiora Lombardis, silicet quod, si domini de Romano volunt domino
Imperatori favere, per se solos tantam habent potenciam quod per terras suas possunt conducere ipsum Imperatorem in Marchiam, invitis et contradicentibus Lombardis».
81
…Organizzò un incontro di quasi tutti i rettori delle città della Lombardia, dei
conti, dei marchesi, e di altre autorità; il marchese d’Este non vi partecipò. Poiché
l’imperatore comprese che il detto marchese stava complottando contro di lui, datogli
un termine di comparizione e visto che non si era presentato, lo bandì in perpetuo.85
In maniera ancor più asciutta ricorda la dieta il vescovo Sicardo di Cremona, pur
con una prospettiva politica assai differente:
Ottone organizzò a Lodi un incontro quasi inutile. Infatti il marchese d’Este,
con i Pavesi, i Cremonesi, i Veronesi e con il consenso del sommo pontefice avevano
stretto un patto per contrastarlo.86
Ciò che troviamo di più simile ai dibattiti di fronte al sovrano ricordati da Caffaro
e da Oberto proviene – probabilmente non a caso – ancora dagli Annali genovesi. Conta,
certamente, l’atteggiamento prudente della città nei confronti di Federico II fino al 1232.87
Conta anche, forse ben più che altrove, il modello delle narrazioni precedenti: stiamo
infatti parlando di un’opera (gli Annali genovesi) che si presenta come una tradizione
memoriale consapevole e sostanzialmente ininterrotta tra XII e XIII secolo. I Genovesi,
diversamente dai Piacentini di Codagnello, si recarono alla dieta di Ravenna del 1231: lo
stesso annalista fu parte della legazione.88 Quella che avrebbe dovuto essere una gloriosa
missione a corte si trasformò in una sgradevole sorpresa: Federico rese infati nota la sua
volontà che le città non offrissero la podesteria a chi proveniva dai centri della rinata Lega
Lombarda. Genova aveva appena assegnato la podesteria per l’anno successivo a un
Milanese. Sebbene la questione sia minuziosamente descritte nella prosa di Bartolomeo, si
fatica a riconoscere nei suoi generosi brani di oratio obliqua tutta la vivacità che abbiamo
visto in Oberto: manca il contraddittorio vero e proprio. Le posizioni contrastanti
vengono presentate e (almeno in un caso) argomentate, ma né i contendenti, né
l’imperatore sembrano in grado di condurre la discussione verso un esito qualsiasi. Nel
momento in cui i Genovesi cercano rispettosamente di obiettare, Federico oppone un
secco diniego e ribadisce la propria volontà:
Udito ciò, il podestà e gli ambasciatori rimasero stupiti e si avvicinarono all’imperatore. Mentre cercavano di giustificare il comune di Genova, l’imperatore non permise loro di parlare, fintantoché non ebbe esposto il suo ordine; circa quella materia si
espresse con discorsi dotti e persuasivi, accompagnati da molti esempi.89
Segue l’articolata risposta del podestà di Genova che fa notare come sarebbe
davvero grave per l’onore della sua città prima chiamare un podestà milanese, poi rinnegare
la scelta. Non si decide nulla, o meglio: il podestà e la legazione decidono, unilateralmente
dopo aver lasciato la corte, di procedere con quanto già stabilito. I Genovesi sono
Annales Placentini, p. 39, ll. 16-26: «Colloquium fere omnium rectorum civitatum Lonbardie, comitum et marchionum et aliorum celebravit; ad quod Azo marchio de Heste venire contempsit. Verum quia dominus imperator
cognovit et intellexit dictum marchionem ea exercere et tractare, que ad discrimen suum essent, dato ei termino,
ut ad suam magnitudinem accedere deberet — qui non venit nec venire voluit —, posuit illum in banno perpetuo».
86 Sicardo, p. 180, ll. 11-13: «Qui aput Laudam curiam quasi celebravit inanem. Hestensis enim marchio iam cum
Papiensibus et Cremonensibus et Veronensibus consensu summi pontificis fedus inierant contradictionis».
87 Annali genovesi, III, pp. XXVI-XXVII.
88 Pistarino, Bartolomeo scriba.
89 Annali genovesi, III, p. 60, rr. 9-14: «Quo audito potestas et ambaxatores stupefacti sunt et ad dominum imperatorem accesserunt; et dum excusare uellent comune Ianue, dominus imperator nichil permisit eis dicere, quousque dictum ordinamentum quod fecerat exposuit; et circa ipsam materiam uerba plurima inductiua et pondus
habentia propalauit et plurima dedit exempla».
85
evidentemente convinti di aver raggiunto un accordo col sovrano, anche se nulla nel
racconto di Bartolomeo induce a crederlo. Infatti, qualche tempo dopo, il sovrano ribadirà
il proprio divieto tramite una missiva al comune di Genova. Abbiamo assistito, insomma,
a un dialogo tra sordi: un dialogo, peraltro, tutto in discorso indiretto.
Sempre più screditate le diete dei sovrani, l’esercizio della giustizia restava
comunque importante per l’affermazione del potere comunale, per questo motivo gli
annalisti lo segnalavano o si avvalevano del linguaggio giuridico per corroborare l’honor
della propria città. Il pisano Bernardo Maragone, che scrive probabilmente tra la fine degli
anni Settanta e il 1181, ci permette di cogliere il mutamento del ruolo del sovrano dal
punto di vista toscano. Negli anni Sessanta del secolo XII le città della Tuscia si riunivano
ancora di fronte a un rappresentante dell’imperatore a San Genesio, la locale Roncaglia, il
luogo cioè di tradizionale appuntamento per le assemblee regionali (Maragone le chiama
parlamenta).90 Il clima di conflitto doveva essere lo stesso che già abbiamo apprezzato nelle
pagine di Oberto. L’annalista racconta che nel 1160, di fronte al nuovo marchese di Tuscia,
il duca Guelfo, scoppiò una lite furibonda tra il giovane conte Guido e i Pisani da una
parte, i Fiorentini e i Lucchesi dall’altra:
Il terzo giorno i Lucchesi e i Fiorentini litigarono con il conte Guido e assalirono
armati il suo padiglione; se il conte, ancora ragazzo, non fosse fuggito ai piedi del duca lo
avrebbero ucciso. I Pisani, saputolo, mossero guerra ai Lucchesi e ai Fiorentini in aiuto del
conte e ne ricavarono grande onore.91
In questo caso non abbiamo notizie precise di attività giudiziaria, ma è evidente che
il marchese era un’autorità rispettata: fu presso di lui che si rifugiò il giovane conte Guido.
Il rappresentante del potere tradizionale era dunque ancora percepito come un credibile
elemento di mediazione: approfondiremo i limiti di questa rappresentazione nell’ultimo
capitolo. Più eloquente è la nota su un successivo parlamentum. L’annalista partecipò, nelle
vesti di messo del suo comune, all’assemblea del 1164 presieduta del vicario imperiale
Rainaldo di Dassel. Neanche stavolta Maragone si sofferma particolarmente sull’attività di
mediazione svolta nella dieta, tuttavia ricorda che il vicario concesse ai Pisani la
giurisdizione sul comitato della loro città.92 La nota seguente è dunque dedicata a questo
memorando tour politico-giudiziario, evidente manifestazione dell’honor cittadino.93 Si
trattò di un fatto eccezionale per l’estensione del territorio sul quale i consoli esercitarono
la giurisdizione; lo ribadisce lo stesso annalista:
Sulla lunga durata della coordinazione regionale della Tuscia si veda Ronzani, La nozione della Tuscia, in part. per
gli annali di Bernardo e Salem, pp. 78 e segg. Sulle motivazioni alla base della scrittura degli annali di Maragone:
Engl, Geschichte für kommunale Eliten; sulla tradizione storiografica pisana nel suo complesso – oltre, naturalmente, a
Scalia, Annalistica e poesia epico-storica – si veda: von der Höh, Erinnerungskultur.
91 Annales Pisani, p. 20, rr. 1-5: «Interea, die tertio, Lucenses et Florentini in discordiam cum comite Guidone
devenerunt, et ad domum eius cum armis insultum fecerunt, et nisi comes Guido, tunc puer, ad pedes ducis fugisset, eum interfecissent. Pisani vero hec audientes, bellum magnum contra Lucenses et Florentinos pro adiuvando
comite fecerunt, et honorem magnum inde habuerunt».
92 Ibidem, p. 31, rr. 1-2: «Ut irent cum eo per totum comitaum Pisanum».
93 «Rainerius Gaitani et Lambertus Crassus Consules, et Ildebrandus quondam Pagani iuris doctus et Bernardus
Maragonis iverunt per comitatum pisanum pro iustitiis et vindictis faciendis, usque ad castrum qui dicitur Scarlinum, in quo Consules miserunt, qui omnia precepta predictorum Consulum iuravere […]. Similiter omnia ista
castella, scilicet Castrum de Vignale, Falli, Castellina, Mons Sancti Laurentii, Castolioni Bernardi, Cornia, Querceto,
Casaliule, Buriano in Valle Cecine, in Valle Here Camporena, Vignale, Rocca Falfi, Tonda et alia plura, cum magno
honore omnia precepta predictis Pisanorum Consulibus iuraverunt»: Ibidem, p. 31, rr. 3-10.
90
Fino ad allora, infatti, non era mai successo che due consoli uscissero da Pisa per
l’onore della città, con due esperti [di legge] che tanto gloriosamente avrebbero accresciuto
l’onore cittadino e il territorio soggetto.94
Si è detto che estensione della giurisdizione comunale e honor civitatis sono concetti
collegati. Nella Toscana dei primi decenni del XIII secolo troviamo la rappresentazione
storiografica più chiara di questa relazione. Nella cronaca del giudice e notaio Sanzanome
non c’è più posto per le diete regionali e per i sovrani presentati come giudici: egli non fa
alcuna menzione delle diete di San Genesio. Del resto il sistema giudiziario imperiale
impostato da Federico II in Toscana negli anni in cui Sanzanome scriveva (i Trenta o i
primi Quaranta) non somigliava per niente alle diete dell’epoca del suo omonimo avo.
Constatato il fallimento delle assemblee da lui convocate (a Cremona nel 1226 e poi a
Ravenna nel 1231), il sovrano – pur continuando a convocare grandi assemblee –
esercitava il potere giudiziario nell’ambito delle città amiche attraverso modalità tecniche
collaudate nelle istituzioni comunali: podestà e vicari di sicura fiducia, coadiuvati da
personale specializzato.95 Anche il Barbarossa aveva imposto a suo tempo
un’amministrazione della giustizia d’appello: in Toscana essa era centrata sul castello di San
Miniato, vicinissimo a San Genesio.96 Una rete abbastanza capillare di funzionari regi
minori, con competenze anche giudiziarie, funzionò nell’Italia centrale dagli anni Settanta
fino alla prematura scomparsa di Enrico VI.97 Tuttavia, come abbiamo visto, nella prima
fase del suo regno il Barbarossa veniva ancora presentato spesso dalla storiografia italica
come giudice supremo.
Sanzanome abbandona lo schema narrativo del dibattito di fronte al sovrano.
L’Agorà delle diete è completamente dimenticato. Egli racconta come, nel 1220, Pisani e
Fiorentini si azzuffarono mentre erano accampati presso Roma per l’incoronazione di
Federico II; viene da ripensare all’episodio narrato da Maragone per la dieta del 1160,
ovvero la lite di fronte al duca Guelfo.98 Nessun ruolo di pacificazione è assegnato al
sovrano in questa circostanza e il “dibattito” – se è lecito usare ancora il termine –
sopravvive solo nella velenosa corrispondenza epistolare tra i podestà di Firenze e Pisa.99
La comunicazione epistolare è dunque l’erede (più o meno legittima) del dibattito orale di
fronte al sovrano.100 In una lettera – che l’annalista fiorentino lascia credere autentica e che
incorpora nella sua cronaca – il podestà di Firenze in carica nel 1220 invitava, con toni
perentori, i signori del castello di Mortennano a presentarsi presso il tribunale cittadino
per rispondere di un furto. L’ordine era redatto con grande attenzione al linguaggio legale:
si faceva riferimento a una «querela» dei danneggiati e al «dominium» di Firenze che i
signori di Mortennano avrebbero disprezzato «ingiustamente» («contra iustitiam»),
Ibidem, p. 31, rr. 15-17: «Nulli namque Consules duo exierunt de civitate Pisana, pro honore civitatis faciendo,
cum duobus sapientibus qui tam gloriose civitatis honorem fecissent, et comitatum crevissent».
95 Per una visione d’insieme Zorzi, La trasformazione di un quadro politico, in particolare il capitolo I: Giustizia imperiale
e autonomia comunale. Si veda anche: Grillo, Un imperatore per signore?, pp. 87-95.
96 Zorzi, La giustizia imperiale, pp. 89-90.
97 Fiore, La dimensione locale del potere imperiale.
98 Gesta Florentinorum, p. 20, rr. 20-30.
99 Ibidem, pp. 20-22.
100 Il confine tra oralità e scrittura restava comunque molto poroso, anche in relazione alla pratica diffusa della
pubblica lettura della comunicazione diplomatica: Weber, Der performative Charakter brieflicher Kommunikation.
94
immemori degli «oblighi di legge» («precepta iuris»).101 La stessa convocazione presso il
tribunale fiorentino, oltre a prevedere una presenza delegata, auspicava una giustificazione
convincente sulla base del diritto, come fa capire l’impiego dell’avverbio «rationabiliter»
che Sanzanome usa altre volte. Vi torneremo a lungo nell’ultimo capitolo.
Anche tra i cronisti della Marca Trevigiana il gusto per il discorso ornato a metà
Duecento trovava altri contesti di rappresentazione rispetto al giudizio pubblico.
Rolandino da Padova riprende la questione dell’oscuro episodio di Piazza San Marco nel
quale Ezzelino II aveva rischiato di essere assassinato. Lo fa, tuttavia, con modalità
narrative completamente diverse rispetto a quelle di Gerardo Maurisio. Ad esempio non
ricorda nulla della curia di Ossaniga del 1209. Al contrario la versione ezzeliniana della
vicenda – ed è già un fatto singolare in una cronaca scritta da un acerrimo nemico dei da
Romano – è riportata in una solenne risposta che Ezzelino III (figlio del precedente)
avrebbe dato agli ambasciatori veneziani, venuti a chiedere una pacificazione con i
Padovani. Qui la responsabilità dell’agguato – raccontata con particolari differenti rispetto
a quanto si era letto nella cronaca del Maurisio – è fatta ricadere sui da Camposampiero.102
Non sono questi particolari, tuttavia, a offrirci la chiave di lettura più significativa nel
contesto del nostro discorso. Lo è piuttosto la trasfigurazione del racconto: da brano di
sapida cronaca giudiziaria a pezzo di conclamata abilità retorica che, dati la fama di
Ezzelino III e il magistero di Rolandino, si rimane incerti se attribuire alla lingua del primo
o alla penna del secondo. Ciò che in Rolandino si incontra di più somigliante alle diete del
Barbarossa sono degli “arenghi”, delle assemblee cittadine nelle quali trovano spazio dei
monologhi forbiti, non dei dibattiti, e la giustizia, per quanto evocata, non è incarnata da
alcuno iudex o arbitro sopra le parti.103 Anche la grande dieta imperiale convocata a Verona
nel 1245 e, nel racconto di Rolandino, sostanzialmente fallita, non è il luogo di esibizione
di alcuna abilità oratoria, nessuna oratio recta, né discorso parafrasato: «E parve che questa
gran corte dell’imperatore non deliberasse alcunché».104 Siamo lontani dal vivace
Gesta Florentinorum, p. 19, rr. 1-8: «A. dei gratia florentina potestas nobilibus viris dominis de Mortennano salutem
et honesta vivere. Querelam contumeliis plenam et dolore non vacuam recepimus continentem, quod cum mercatores urbevetani cum bestiis et rebus aliis per districtum nostrum secure transirent, vos contempnentes dominium
nostrum contra iustitiam de omnibus expoliastis eosdem, preceptorum iuris non recordantes. Cum igitur deceat
sapientes libenter sufferre insipientes, dimittimus ultionem, vobis per presentia scripta mandantcs, quod vel restituere debeatis ablata, vel per vos vel per aliquem vestrum omni auctoritate munitum non differre venire, si de iure
confiditis, obiectis rationabiliter responsuri».
102 Rolandino, Vita e morte, II, 14, rr. 13-27: «Erat nempe constituta curia quedam causa solacii Veneciis, ubi fuit
Azo marchio, pater Marchionis istius, et alii de Marchia nobiles et potentes. Quam curiam pater meus honorare
desiderans, secum habuit XI milites et ipse extitit duodenus, quorum omnia similia fuerunt et divina vestimenta,
in re una solummodo discrepancia, quod scilicet mantatura patris mei fuit de armirinis, set fuit aliorum de preciosis
variis Sclavonie. Visi sunt isti duodecim socii prima die per platheam sancti Marchi transire unanimes. Sequenti
vero die, cum unus eorum in amicicie signum mantaturam patris mei deferret, sicut mos est aliquando militum
sociorum, siccarii quidam, conducti precio a falsis germanis meis, credentes occidere patrem meum Ecelinum de
Romano, occiderunt illum, qui eius attulerat mantaturam, quemdam scilicet militem de Tarvisio nomine Bonacursum, virum nobilem et potentem».
103 Su questi discorsi e il loro contesto di presentazione: Arnaldi, Studi sui cronisti, pp. 155-156.
104 Rolandino, Vita e morte, V, 13, rr. 8-9: «Nec videbatur hec tanta imperatoris curia certum aliquid stabilire»; qui e
sotto la traduzione è di Flavio Fiorese. Sul contesto politico locale entro il quale fu convocata la dieta: Canzian,
Verona. Neppure un cenno alla dieta dedica il contemporaneo cronista veronese Parisio di Cerea, contemporaneo
agli eventi: Annales Veronenses, p. 13. Non è stato possibile consultare la nuova edizione del lavoro di Parisio (e,
soprattutto, dei suoi molti continuatori): Il «Chronicon Veronense»; il profilo biografico tracciato in Varanini, Parisio
da Cerea, tuttavia, tiene conto dei risultati della ricerca alla base della nuova edizione.
101
contraddittorio degli annali genovesi o dalla costruzione di un’immagine del sovrano come
iudex, secondo quanto si è osservato nell’Historia dei Morena o nel Carmen de gestis. L’unica
grande assemblea imperiale sulla quale Rolandino si sofferma è una «magnam contionem
in palacio Padue»,105 convocata nel 1239 dallo stesso sovrano con lo scopo di discolparsi
dalla scomunica appena fulminata da Gregorio IX. A prendere la parola, però, non è il
sovrano, ma l’eruditissimo Pier delle Vigne «grande esperto di lettere divine e umane e di
poesia»,106 che, quasi in veste di difensore d’ufficio, rigetta come ingiusta l’accusa all’origine
della scomunica. Nulla di simile a quanto visto in precedenza: qui non solo il sovrano non
è il giudice, ma è divenuto addirittura l’accusato. Il silenzio del sovrano e il ruolo di
mediazione con i sudditi svolto dal suo “logoteta”, va probabilmente inquadrato in una
concezione della regalità profondamente diversa da quella del Barbarossa: una regalità che
risentiva forse della liturgia monarchica bizantina.107 Possiamo lecitamente interrogarci
sulla capacità di Rolandino di cogliere simili allusioni, simili paralleli. È un fatto, comunque,
che la giustizia, il giudizio e il contraddittorio in giudizio sono evocati da Rolandino in
chiave totalmente negativa, come ingiustizia palese e come procedura iniqua, i segni chiari
dell’incipiente tirannia di Ezzelino: «Ma dove dominano la forza e l’iniqua potenza, lì
tacciono la ragione e la giustizia».108 Coloro che non hanno paura di testimoniare per la
vera giustizia, sotto Ezzelino patiscono i peggiori tormenti:
Sempre allora e in quello stesso giorno, alcuni, che erano tenuti in carcere a causa dei
versi, furono trasferiti in carceri peggiori, legati con ceppi più duri, ed erano uomini di legge
ed esperti nella loro arte, come il notaio Riccio e il notaio Daniele, detto Pinza e molti altri,
grandi e piccoli, maschi e femmine.109
I rimandi espliciti al dibattito pubblico nelle grandi assemblee intercittadine, o anche
solo nelle relazioni diplomatiche sembrano, a metà Duecento, un filone narrativo esaurito.
L’esercizio della dialettica trovava altri contesti di presentazione: nei consigli cittadini, ad
esempio, o nel dibattito epistolare.110 Certo anche a causa dell’assenza di un’autorità
superiore imparziale, il confronto tra le città nemiche si era trasformato da questione lato
sensu giudiziaria in fatto diplomatico e militare ed era soprattutto in quest’ultima veste che
monopolizzava l’interesse dei cronisti.
La retorica giudiziaria come modalità espressiva
Ritorniamo ora alle origini della storiografia cittadina, a Landolfo di San Paolo e al
suo anelito di giustizia. Sebbene il suo punto di vista sia dichiaratamente di parte, è
improbabile che il suo ampio scritto fosse destinato a restare uno sfogo privato. Anzi,
Rolandino, Vita e morte, IV, 10, rr. 68-69.
Ibidem, rr. 4-5: «Fundatus multa litteratura divina et humana et poetarum»
107 Mancini, I guardiani della voce, pp. 43-46.
108 Ibidem, V, 9, rr. 14-22: «Et vocata in palatio concione, rengavit idem dompnus Ecelinus. Et inter cetera, que de
ipso proponebat, illic presente et capto, asserebat ipsum ordinasse de prodenda Padua Marchioni et eius parti.
Quod ipse Rainerius cunctis audientibus dicebat non esse verum et audebat dicere alta voce quod menciebatur
aperte. Set ubi vis et prava potencia dominatur, illic racio et iusticia obmutescit. Iniuste quidem secundum credulitatem omnium existentium in arenga Ecelinus ipsum sentenciavit ad mortem».
109 Ibidem, VI, 8, rr. 17-22: «Tunc eciam et in hac eadem die, quidam, qui occasione dictorum versuum in carcere
tenebantur, mutati sunt in peiores carceres, durioribus compedibus alligati, scilicet viri legales et discreti in arte sua,
Ricius notarius et Daniel notarius, qui dicebatur Pinza, aliique quam plures magni et parvi, mares et mulieres».
110 Sui consigli cittadini e le loro prime forme di verbalizzazione v. Tanzini, A consiglio, pp. 45-54.
105
106
proprio il racconto puntuale della sua lunghissima vicenda giudiziaria lascia intravedere
una possibile funzione comunicativa: quella che per noi è soprattutto una cronaca, ai
contemporanei di Landolfo poteva apparire anche come un’accusa articolata, una versione,
abnormemente ampliata, di una carta di querela: un “libello”, insomma, nell’accezione che
la parola ha assunto a partire dal XVI secolo.111 Nell’Antichità era stata codificata una
retorica espressamente indirizzata all’uso nei tribunali: una retorica giudiziaria. I suoi
principi, le sue regole, furono ereditati e ampiamente utilizzati dagli storiografi medievali,
come ha mostrato con grande accuratezza Matthew Kempshall.112 Qui, però, vorremmo
spingerci oltre le barriere dei generi testuali per provare a gettare dei ponti tra la retorica
giudiziaria consacrata dalla letteratura e quella rimasta nascosta nel mare delle “scritture
pragmatiche”.
La carta di querela o libellus era un documento già in uso nei tribunali romani, poi
passato alla tradizione altomedievale e divenuto dal XII secolo la forma standard (o meglio:
le forme, dato che per molte azioni legali si strutturò un apposito libello) per avviare un
processo accusatorio.113 In essa il querelante presentava – in forma narrativa e talvolta
discretamente elaborata – il motivo del suo ricorso alla giustizia.114 Si trattava, quindi, di
una versione di parte, la cui possibilità di imporsi era forse il risultato del rispetto di una
serie di formalismi e, almeno nell’epoca più antica, dall’ostentata disponibilità ad accettare
un giudizio. In una prima fase le carte di querela si confondono con gli scritti conosciuti
come “polittici delle malefatte”: veri e propri elenchi di ingiurie e di danni subiti, compilati
allo scopo evidente di mantenerne memoria e di poter, un giorno, rivalersi in sede di
giudizio.115 Di solito le carte di querela cominciano con un’invocazione all’autorità dalla
quale ci si aspetta un pronunciamento, proseguono con il racconto dei comportamenti
censurabili dell’avversario e terminano poi tornando a invocare la giustizia (petitio).116 Paolo
Cammarosano ha dedicato a questi documenti un articolo tanto breve quanto stimolante
e ha mostrato la pervasività del formulario della querela in altri contesti narrativi con
funzione talvolta ironica, talvolta inequivocabilmente persuasiva.
I racconti dei giudizi pubblici – come abbiamo visto – sono attestati ampiamente
nella storiografia del XII secolo e, in particolare, oltre che negli annali genovesi di Caffaro
e Oberto, nell’Historia del nostro Landolfo. Vivida è, ad esempio, la descrizione del
momento in cui, ottenuto il consenso dell’imperatore Lotario III, parve che le sue richieste
sarebbero state infine esaudite: «L’imperatore, secondo la mia richiesta avvalorata dai
prelati, chiese ai consoli di Milano di trattare la causa in maniera equa e paterna».117 Le
111
Libello, in Vocabolario degli accademici della Crusca; v. anche Libello, in Grande dizionario della lingua italiana.
Kempshall, Rhetoric and the writing of history, pp. 171-229.
113 Cammarosano, Carte di querela; Barbieri, Il "libellus conquestionis"; Nicolaj, Gli acta giudiziarî (secc. XII-XIII), p. 7;
sugli ordines iudicii più dettagliati nel descrivere le varie tipologie di libellus rimando a Vallerani, La giustizia, p. 21 e a
Brundage, The Medieval Origins, pp. 157 e n. 111; alla fine del secolo XIII i libelli rappresentavano ormai un prodotto
del processo stesso, visto che univano in uno stesso documento il libello e gli articuli sui quali si sarebbe impostato
l’interrogatorio dei testimoni (ibidem, p. 434, n. 86).
114 Cammarosano, Carte di querela.
115 Ibidem, p. 397.
116 Ibidem, p. 399-400.
117 Questo il passo completo (Landulphi Junioris, p. 38, rr. 1-9): «Tunc ego quoque ibi per tres dies affui et licentiam
lamentandi ad imperatorem a domino meo Conrado rege presente, Sigifredo filio eius interprete, suscepi; et principibus cujuscumque dignitatis circumsedentibus et vocem meam audientibus, sub temptorio imperatoris querelam
112
cose andarono diversamente; i consoli non ottemperarono al mandato del sovrano:
un’atavica inimicizia divideva infatti Landolfo dal potente cittadino Arnaldo da Rho. A
non molte righe di distanza Landolfo avrebbe amaramente chiuso la sua Historia con le
parole da cui abbiamo preso avvio. Confrontiamo sul piano formale il testo storiografico
con le contemporanee carte di querela: manca l’invocazione iniziale, ma il racconto delle
procedure di giudizio e la petitio finale alludono in maniera difficilmente equivocabile al plot
delle querele.
Non sempre una chiusa alata come quella di Landolfo ci permette di riconoscere la
sottile interferenza tra discorso giudiziario e discorso storiografico. Eppure, quando la
storiografia smette di essere un’arida elencazione di eventi e si tramuta in opera militante,
assume sovente i caratteri formali del “polittico delle malefatte” del pieno Medioevo. Così
avviene, ad esempio, nella molto personale cronaca di Maurisio ove, quando il testo si
avvia verso la sua conclusione e dopo aver elencato le ingiustizie subite, l’autore ci presenta
una petitio (minacciosamente allusiva) non troppo dissimile da quella di Landolfo:
Ora che sono nudo e spogliato di tutto, non mi conosce l’imperatore, non i signori
da Romano, non mi conoscono i parenti, gli affini, gli amici, se non pochi tra loro. Mi
soccorra il Signore, che tutto ha creato e che, certo, con poche cose ha tenuto il popolo
egregiamente al pascolo.118
Quasi esattamente contemporanea dell’Historia di Landolfo è l’Historia custodum
Aretinorum, il racconto dolente ed estremamente dettagliato di come i servizi di
mantenimento delle chiese dell’episcopio aretino e le corrispettive fonti di reddito fossero
stati privatizzati e dispersi, poi faticosamente recuperati dai canonici della cattedrale di
Arezzo nel corso del secolo XI.119 Il titolo, ça va sans dire, è un’invenzione dell’erudizione
moderna, come per molte delle opere storiografiche di questo periodo. Il testo è anonimo
e privo del punto di vista personale che caratterizza il lavoro di Landolfo. Del resto, la
stessa apparenza dell’Historia custodum ha più del documento d’archivio che dell’opera
letteraria. Conservata su una sola pergamena, l’Historia comincia con un’invocazione alla
Trinità che ci aspetteremmo di trovare nel protocollo di un privilegio, non nell’esordio di
una cronaca.120 Non mancano i riferimenti a un contesto legale nel quale la consuetudine
costituiva un forte titolo di prelazione, per questo la memoria diventava un atout
importante.
Fin qui abbiamo brevemente ricordato le azioni malvage perpetrate nella chiesa di
Santo Stefano e in che modo i beni sono passati nelle mani dei canonici. Adesso, con l’aiuto
di Dio, perché serva ai posteri, affidiamo alla memoria ciò che avvenne nella chiesa di San
de Andrea Sugaliola feci. Quam querelam archiepiscopus Trevirensis cum ceteris archiepiscopis et episcopis alliisque literatis viris intelexit et me, sicut vir prudens et sapiens, interrogavit et post meam responsionem domino
imperatori causam meam per verba michi barbara revelavit. Et dominus imperator secundum petitionem meam,
prout pontifices michi fidem fecerunt, imperavit consulibus Mediolanensibus, uti Mediolani causam meam juste et
paterne tractarent».
118 Maurisio, p. 39, rr. 17-19: «Nunc, quia sum denudatus et omnibus expoliatus, non me cognoscit Imperator, non
domini de Romano, non propinqui, non affines, non amici, nisi pauci. Nunc mihi succurat Dominus, qui cuncta
creavit et quidem paucis popullum multum bene pavit».
119 Historia custodum Aretinorum.
120 La riproduzione fotografica del testo si trova in Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medio Evo, p. 20.
Donato prima che ci arrivassero i canonici.121
Così riprende l’estensore dopo aver descritto in che modo venivano rapinate le
offerte agli altari della chiesa di San Donato:
Fin qui, brevemente, abbiamo tramandato ciò che abbiamo trovato nelle scritture,
che abbiamo saputo da testimoni degni di fede e che, in parte, abbiamo visto coi nostri stessi
occhi. Adesso cureremo di scrivere i tormenti che ne derivavano quotidianamente per la
chiesa.122
L’utilità pratica dell’Historia è evidente: siamo di fronte a una di quelle scritture
pragmatiche che emergono nei secoli XII e XIII sulle quali hanno concentrato la propria
attenzione gli studiosi tedeschi negli ultimi trent’anni.123 L’inclusione di questo testo nel
genere storiografico si deve ai padri dei Monumenta Germaniae Historica che trasformarono
un “polittico delle malefatte” in una Historia pubblicandolo nella loro collezione. Tutto
questo ci induce a una considerazione più generale sulla storiografia; non soltanto sui suoi
possibili impieghi pratici che, pure, possono esserci stati, ma anche sull’estrema
convenzionalità del genere di cui stiamo parlando. Non sempre chi cominciava a scrivere
una cronaca o degli annali nei primi tempi della storia comunale possedeva le certezze dei
moderni in fatto di letteratura, mentre l’aspetto narrativo, rituale e in qualche modo
scenico della giustizia medievale induceva a narrazioni elaborate. 124 Uno sguardo più
generale al contesto delle fonti scritte o alla ritualità sociale può quindi permetterci di
apprezzare, anche in ambito pragmatico, le allusioni e sottintesi tipici del gioco letterario,
assolutamente invisibili se ci concentriamo solo sul canone narrativo stabilito dal gusto
otto-novecentesco. D’altra parte, le stesse considerazioni ci inducono a mantenerci vigili
sul possibile impiego pragmatico della letteratura.
Prendiamo ad esempio un testo singolare: la Narratio de Longobardie obpressione et
subiectione, scritto, nella sua parte più ricca e originale, entrogli anni Sessanta del XII secolo
da un cittadino laico di Milano, circa gli stessi anni dei Morena e dell’anonimo autore del
Carmen de gestis Frederici.125 La Narratio racconta soprattutto le vicende di Milano durante e
subito dopo la seconda spedizione italiana del Barbarossa: la lotta con l’imperatore, la
distruzione di Milano e i primi anni del dominio federiciano sull’Italia del Nord, un
dominio particolarmente vessatorio, come si evince fin dalle prime righe del testo,
diventate poi il titolo dell’edizione di Franz-Josef Schmale:
Cercherò di narrare brevemente l’oppressione e l’insolita soggezione della sventurata
Historia custodum, p. 1476, rr. 23-25 e p. 1477, r. 1: «Hactenus, que mala in ecclesia Sancti Stephani sunt perpetrata,
et qualiter ad canonicos devenerit, sub brevitate memoravimus. Nunc, iuvante Deo nostro, quid in ęcclesia Sancti
Donati gestum fuerit, antequam ad canonicos deveniret, ad memoriam nostris posteris relinquimus».
122 Ibidem, p. 1478, rr. 29-31: «Hucusque, que in scriptis invenimus, et quę ab idoneis testibus didicimus, et que ex
parte vidimus, brevi stilo tradidimus. Nunc mala, que ęcclesia inde cottidie patiebatur, scribenda curabimus».
123 V. sopra la nota ***.
124 Sulla permeabilità tra contesto letterario e legale si veda il saggio introduttivo: Blanchard, Blumenfeld-Kosinski,
Le droit et son écriture; sull’aspetto narrativo della giustizia e i suoi possibili usi storiografici resta fondamentale Wickham, Legge, pratiche e conflitti, pp. 445-498.
125 Pubblicato in Gesta Federici I, pp. 14-64; esiste un’altra e più recente edizione del testo: Narratio de Longobardie
obpressione et subiectione; in questa sede si è preferita l’edizione precedente perché riporta a pie’ di pagina anche la
versione rielaborata da Giovanni Codagnello e ha quindi permesso un confronto tra la versione più recente e quello
che potrebbe esser stato il suo modello. Per una discussione sulla tradizione del testo, estremamente ricca, si veda:
Busch, Sulle tracce della memoria comunale di Milano, pp. 81-84; più in particolare sulla causa scribendi: Busch, Die
Mailänder Geschichtsschreibung, pp. 51-66.
121
Lombardia – già esperta della violenza e della brutalità dei Romani, dei Vandali, dei Goti, dei
Vinnili, dei Franchi, degli Ungari, dei Tedeschi – inoltre racconterò l’assedio, il tradimento e
la distruzione di Milano.126
Il testo conobbe una notevole fortuna e finì per essere rielaborato da Giovanni
Codagnello verso la fine degli anni Venti del Duecento col probabile scopo di coalizzare
un fronte anti-federiciano (questa volta si trattava di Federico II). La Narratio non è una
cronaca vera e propria e, certo, non è un testo annalistico:127 è piuttosto un’opera
monografica che ha il chiaro intento di elencare le malefatte di Federico e i danni subiti da
Milano. Si concentra, quindi, su dettagli originali e inediti, come le spese per ospitare
l’imperatore a Monza nel dicembre del 1163, o l’esatto ammontare del prelievo fiscale
imposto al territorio milanese l’anno seguente (Milano era stata distrutta nel marzo del
1162 e la popolazione viveva in borghi esterni alle mura).128 La rielaborazione del testo da
parte di Codagnello rende più evidente il suo carattere di requisitoria. Il notaio impiega dei
particolari che sembrano evocare un contesto di giudizio. Ai primi del Duecento quelle
carte di querela sulle quali ci siamo soffermati erano state ormai codificate all’interno degli
ordines iudiciarii (una sorta di manuali su come si istruiva correttamente un processo) col
nome di libelli. Non mi pare un caso che l’esordio di Codagnello impieghi proprio questa
parola per descrivere l’opera: «Questo libello si chiama libello della tristezza e del dolore,
dell’angustia e della tribolazione, delle sofferenze e dei tormenti».129 Per l’impiego di questo
termine – così pregnante, se vogliamo riconoscere un’interferenza tra l’ambito giudiziario
e quello storiografico – vi potrebbe anche essere una motivazione tutta interna alla fonte.
Tra le informazioni inedite che la Narratio ci ha tramandato vi è anche la citazione di un
registro per la riscossione delle imposte alle quali abbiamo accennato sopra: «E fecero
scrivere un libro che si intitola “Dei tristi o del dolore”, in esso erano ricordati tutti i mansi,
i focolari e i gioghi per i buoi dei Milanesi».130 Colpisce, però, la trasformazione da liber a
libellus per l’intitolazione, quasi una scelta di genere prima che di campo; una requisitoria
contro l’attività del Barbarossa e dei suoi funzionari, una querimonia da presentare ai
posteri, in pieno accordo, del resto, con l’intenzione dell’anonimo autore della Narratio:
«Cercherò di annotare per l’utilità dei posteri tutto ciò che fece l’imperatore Federico».131
L’indice dei capitoli (capitulatio) che introduce il Libellus di Codagnello – ben trentasei titoli
– mette subito in evidenza le responsabilità e le colpe:
Sull’assedio di Tortona da parte dell’imperatore Federico.
Sulla sua [ricostruzione?] da parte dei Milanesi e dei [Piacentini.
Sulle fatiche e sulle spese per la ricostruzione della detta città.
Gesta Federici I, pp. 15-16: «Misere itaque Longobardie, que sevitiam et inmanitatem Romanorum primum, Wandalorum, Gothorum, Winilorum, Francorum, Ungarorum, Theothonicorum experta est, opressionem et insolitam
subiectione, maxime Mediolanensium obsessionem, proditionem atque destructionem breviter narrare studebo».
127 Sul genere “cronaca locale” si veda Van Houts, Local and regional Chronicles; sul genere annalistico: Mc Cormick,
Les annales du haut moyen âge; sui generi storiografici dell’Italia comunale: Arnaldi, Annali, cronache, storie.
128 Gesta Federici I, rispettivamente pp. 57-58. Per maggiori particolari sull’amministrazione imperiale e sul prelievo
fiscale sotto il Barbarossa si può ricorrere a P. Cammarosano, Le origini della fiscalità pubblica delle città italiane, p. 45;
si veda anche il sintetico Gnocchi, Marquardo di Grumbach.
129 Gesta Federici I, p. 14: «Libellus iste nuncupatur libellus tristitie et doloris, angustie et tribulationis, passionum et
tormentorum».
130 Ibidem, pp. 58-59: «Et librum, qui intitulatur Tristium sive doloris, fieri fecerunt, in quo scripta erant omnia mansa et
focularia et iuga bovum Mediolanensium».
131 Ibidem, p. 24: «Que gesta sunt in Lombardia ab imperatore Federico, ad utilitatem posterum scribere temptabo [in
corsivo il testo condiviso dall’anonimo e da Codagnello]».
126
Sulla fortificazione di molti luoghi da parte dei Milanesi.
Sulla distruzione di molti castelli e località di Piacenza.
[…].132
Non si tratta di veri e propri capi d’accusa: vi sono anche alcuni (pochi) titoli neutri
(«Sulla pace di Casteggio tra l’imperatore e i Lombardi», ad esempio),133 eppure non
possiamo sottrarci all’impressione che il tono generale di questo esordio sia quello di un
articolato atto d’accusa.
Sbilanciato sul versante pragmatico della scrittura è invece il Memoriale delle offese di
Siena, scritto per conto del podestà del 1223, Bonifacio di Guido Guicciardi da Bologna.134
Conservato in alcune carte di un codice membranaceo che contiene anche il Liber census et
reddituum comunis Senensis (anch’esso ordinato dal Guicciardi), il Memoriale non si differenzia
molto dai “polittici delle malefatte” di un paio di secoli prima se non per la presenza di un
lungo ed elaborato prologo, sul quale si è soffermato Enrico Artifoni.135 In esso, dopo
aver presentato l’utilità della memoria, ci si rivolge direttamente alla civitas di Siena,
pregandola di «rendere bene ai buoni e male ai cattivi, a ciascuno secondo il proprio
operato».136 Comincia poi un monotono elenco di tradimenti perpetrati dalle comunità del
territorio che avevano favorito i nemici di Siena durante l’annoso conflitto che opponeva
la città a Firenze, o, semplicemente, si erano rifiutate di contribuire alla difesa comune.
Ogni paragrafo inizia con la formula perentoria: «Memor esto», «Ricorda!»:
Ricordati di Monepulciano che, pur appartenendo al tuo contado, così come risulta
da molte testimonianze contenute nel cartulario del Comune di Siena, tuttavia favorisce i tuoi
nemici e non si vergogna di rifiutare sdegnosamente servizi e prestazioni dovute alla città di
Siena.137
I paragrafi rappresentano delle accuse molto circostanziate e possono, in alcuni casi,
assumere la dimensione e il tono della notizia annalistica:
E inoltre ricordati di Colle in Val d’Elsa che, umiliandoti, favorisce i tuoi nemici; e
che, al tempo della podesteria del cremonese Guglielmo da Persico, mentre i tuoi cittadini
stavano tornado da una spedizione militare in aiuto dei Pisani contro Lucchesi e Fiorentini,
sottrasse a certi dei tuoi molti prigionieri fiorentini e rifiutò di restituirli dopo che ne fu fatta
formale richiesta.138
Con il suo raffinato prologo e il suo latino ricercato, il Memoriale delle offese è
certamente un’eccezionale scrittura pragmatica: cosa ne determina la natura documentaria?
Ibidem, p. 14: «De obsidione Terdone ab imperatore Federico. De eius detructione a Mediolanensibus et Placentinis [passo corrotto: forse reconstructione, secondo l’editore]. De labore et expensis in ipsa civitate rehedificanda. De
constructione multorum locorum a Mediolanensibus. De destructione multorum castrorum et locorum Placentie.
[…]».
133 Ibidem: «De pace facta apud Castigium inter imperatorem et Lombardos». Le positiones processuali di solito sono
dichiarative introdotte dal quod, non frasi nominali all’ablativo.
134 Banchi, Il memoriale delle offese, pp. 199-202.
135 Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico, pp. 177-179.
136 Banchi, Il memoriale delle offese, p. 203: «Bona bonis et mala malis unicuique secundum opus suum reddere».
137 Ibidem, p. 204: «Memor esto de Montepulciano, quod cum sit tui comitatus, sicut apparet per multos testes qui
continentur in cartulario comunis senensis, fovet partem emulorum tuorum, et debitis servitiis et reverentiis civitatis sue senensis superbissime se subtrahere non veretur».
138 Ibidem, pp. 204-205: «Item memor esto de Colle Vallis Else, quod ad ignominiam tuam partem fovet emulorum
tuorum; et cum cives tui revertebantur, tempore potestarie Guilielmi de Persico cremonensis, de exercitu et adiutorio Pisanorum contra Lucenses et Florentinos, abstulit quibusdam de tuis in fortia sua plures captivos quos
ceperant de Florontinis, et eos post requisitionem sibi factam tibi reddere contradixit».
132
Certo la collocazione in coda ad altre scritture pragmatiche; certo l’estensione ridotta; forse
anche le sottoscrizioni notarili che ne attestano il valore probante;139 ma non si è detto che
è proprio la presenza di numerose formule notarili a rafforzare la credibilità degli Annali
genovesi? Non è la sua qualità di notaio a rendere più credibile il ricordo di Rolandino? Il
Memoriale mostra quanto scivoloso possa essere, nell’età dei cavalieri-cittadini, il crinale tra
storiografia e documentazione.
Conclusioni
Sono emerse alcune discontinuità nella rappresentazione della politica nei secoli XII
e XIII, almeno nel modo attraverso il quale la storiografia ci presenta la comunicazione
politica. Abbiamo osservato infatti la crisi della tradizionale narrazione del potere:
l’immagine del re-giudice, perfino protagonista di un contradditorio, viene meno. Nel
Regno Italico entro la fine del secolo XII aveva infatti esaurito il proprio fascino quella
ritualità assembleare nella quale il sovrano si presentava come arbitro e che gli garantiva il
ruolo di protagonista nella memoria individuale prima e nella narrazione storica poi. Come
ha messo in evidenza Timothy Reuter, attorno all’anno 1200 si assiste in Europa al
passaggio dall’assemblea pubblica altomedievale – caratteristica di una tradizione di
governo fortemente discontinua – ai più regolari parlamenti, che, con il tempo,
acquisiranno tratti di esplicita rappresentatività.140 Tale passaggio non si osserva attraverso
le maggiori cronache del Regnum Italiae: l’assemblea regionale in Italia nel pieno Duecento
era ormai un relitto incagliato nell’immaginario politico. Un relitto non del tutto inerte,
però.
L’assenza delle diete non deriva unicamente dall’oggettivo diradarsi delle presenze
imperiali nell’Italia comunale a cavallo tra XII e XIII secolo: anche quando il novello
Federico tornò prepotentemente a calcare la scena italica dalla fine degli anni Venti del
Duecento, i colloquia, le diete, non vennero più presentate con i vivaci colori delle
generazioni precedenti. Ciò, forse, accadde anche perché il sovrano non riuscì a imporsi
come elemento neutro nel rovente gioco politico delle città, oltre che per l’esibito
“orientalismo” di Federico in alcune sue apparizioni pubbliche.141 Forse sta anche in questa
impossibilità di ricondurre Federico II entro l’immagine tradizionale del «giudice pietoso»
che va ricercata l’origine di quella barriera cronologica tra un miserando “presente” e il
“buon tempo antico”, fortemente avvertita dalle generazioni successive alla metà del
Duecento.142 La geografia politica sembra percepita sempre più chiaramente come una
scacchiera (un’alternanza di città alleate e nemiche) e sempre meno come un insieme di
spazi regionali la cui coerenza era garantita dal sovrano. Venute meno le diete regionali,
saranno il mito e la storia antica a fornire ai cavalieri-cittadini il collante per ricomporre il
quadro politico entro gli schemi ereditati dalla tradizione.
Ibidem, pp. 213, 216, 218.
Reuter, Assembly politics, p. 194.
141 Completamente diversa la situazione francese, come evidenzia Capo, Cronachistica. Sull’infrangersi del mito della
regalità italica, specie negli ultimi anni del regno federiciano: Ortalli, Federico II e la cronachistica cittadina, pp. 261-262.
Sul silenzio del sovrano in pubblico come modello rituale di derivazione bizantina, ancora Mancini, I guardiani della
voce, pp. 40-43.
142 Sull’irriducibilità di Federico entro gli schemi tradizionali, v. Capo, Cronachistica; sulla barriera cronologica rappresentata dall’età di Federico: Zabbia, Dalla propaganda alla periodizzazione.
139
140
Occorre tuttavia mettere in evidenza anche una vistosa continuità, ben nota, del
resto, agli studiosi del diritto medievale. Nel secolo circa che abbiamo analizzato gli autori
sembrano condividere una grammatica comune, basata sulla cultura del confronto
regolato dalla retorica e dal diritto.143 Ciò su cui occorrerebbe soffermarsi è la pervasività
di tale grammatica. Da Landolfo a Sanzanome, da Caffaro a Rolandino, la padronanza
della terminologia e talora dell’argomentazione legale sembra unire percorsi personali e
orizzonti cronologici e geografici differenti, generando un’atmosfera comune dalla quale
non è così facile estrapolare i singoli testi.
Attraverso la strada del rapporto tra realtà storica ed elaborazione letteraria
giungiamo quindi all’ultimo aspetto sul quale ci siamo soffermati: l’impiego del linguaggio
giuridico e l’evocazione del contesto legale con precisi intenti comunicativi. Da una parte,
forse, c’era l’intenzione di istruire le nuove leve del comando attraverso un’illustrazione
dei procedimenti dialettici e degli argomenti utili alla tutela dell’honor cittadino; una storia
“utile”, quindi, per la quale non possiamo escludere un reale uso in sede giudiziaria (si
pensi all’Historia custodum o al Memoriale delle offese). Dall’altra l’adozione di un registro
formale con l’intento di rafforzare il tono polemico – forse talvolta sarcastico – del testo.
Una storia che impiegava gli schemi espressivi giudiziari della quaerimonia poteva apparire
infatti più dolente, ma anche più credibile.
143
Basti il rimando a Quaglioni, La giustizia nel Medioevo, pp. 34-35.