Un amore contrastato

A Milano ci sono 2 scuole di grande tradizione: il Berchet e il Pacinotti. Distano poco più di un chilometro l’uno dall’altra, ma è come se a separarle ci fosse un muro di Berlino alto 5 metri: infatti al liceo Berchet ci vanno tutti i milanesi più ricchi e potenti, quelli che hanno un attico a CityLife, uno chalet a Cortina e una casa al mare ad Alassio; al professionale Pacinotti ci vanno quelli che a stento possono permettersi un bilocale in affitto al quartiere Corvetto, naturalmente in un condominio senza ascensore.
Tuttavia, non è così impossibile che questi mondi così diversi entrino in contatto. Ad esempio, in quella zona c’è anche l’Antico Vinaio, quindi capita tutti i giorni che gli studenti del Berchet si mettano in coda per un panino insieme a quelli del Pacinotti. Inoltre, ogni tanto ci sono le manifestazioni, e a quel punto non conta più che scuola frequenti: ci si mette tutti a reggere lo stesso striscione, a intonare gli stessi cori e a vivere la stessa inebriante esperienza.
Una di queste strane mescolanze ha fatto nascere il primo amore di Clarissa. Lei è una ragazza del Berchet, e lo è fin nei minimi dettagli: ad esempio, lei non sa come funziona il citofono, e lo ignora non perché le sue amiche non vengono mai a trovarla, ma perché ha un maggiordomo che risponde al posto suo.
Il suo fidanzato invece è uno studente del Pacinotti, e anche lui corrisponde perfettamente all’identikit: residenza nel quartiere Corvetto, madre single, padre tatuato dalla testa ai piedi e poi la ciliegina sulla torta, un nome albanese in omaggio alle origini materne (Ardit). Vi immaginate come reagisce la famiglia di Clarissa quando scopre che bel fidanzatino si è trovata?
Il bello è che io, pur capendo perfettamente i genitori di Clarissa, più andava avanti la sua storia e più mi veniva da schierarmi con Ardit. Perché lui sarà pure povero, albanese e studente di un professionale, ma è comunque un bravissimo ragazzo. Inoltre, Ardit non è un furbetto che ha visto un’opportunità di mettere le mani sui soldi di Clarissa e ci si è gettato a capofitto, perché lui ama sinceramente la sua fidanzata, e la amerebbe anche se non avesse il becco di un quattrino.
E’ proprio questo che ci permette di identificarci così profondamente in lui. Perché a molti di noi è capitato di non piacere ai genitori o agli amici della persona che amavamo, magari per motivazioni stupide come quelle che ho appena citato: quando ci siamo trovati in quella situazione abbiamo pregato che l’altra persona non si facesse condizionare da chi provava a mettere zizzania, e avesse la forza di restare con noi a dispetto di tutti. Ardit e Clarissa questa forza la dimostrano ogni giorno: questo ti porta a fare per loro un tifo sfegatato, e a sperare con tutto te stesso che alla fine il loro amore trionfi su ogni avversità. Andrà così? Non posso dirvelo, naturalmente. Posso solo consigliarvi di leggere Bella zio di Marco Pellegrini: ne sarete deliziati.

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Una prof speciale

Nell’ultimo anno abbiamo assistito all’ascesa irresistibile del generale Vannacci. Ha scritto un libro ed è diventato campione di vendite, è andato in televisione ed è diventato campione di ascolti, è sceso in politica ed è diventato eurodeputato.
Uno dei motivi del suo successo sta nel fatto che lui ha il coraggio di dire a voce alta delle idee che gli italiani condividono in pieno, ma generalmente tacciono per vergogna. Una di queste idee è quella per cui le scuole andrebbero divise per livelli: gli studenti dal profitto basso in una classe, quelli di livello medio in un’altra, i geni in un’altra ancora. Se invece li butti tutti dentro un unico calderone gli studenti più deboli finiranno per arrancare, oppure quelli più promettenti si annoieranno facendo delle cose che per loro sono elementari.
Vannacci probabilmente non lo sa, ma la sua idea era già stata presa in esame da un romanzo di fantascienza, La classe di Christina Dalcher. In quel libro si immagina un mondo in cui le cose funzionano proprio come propone lui: gli studenti sono divisi in 3 livelli (geni, normali e scarsi), e frequentano una scuola diversa a seconda del livello che gli è stato assegnato. Chiaramente queste assegnazioni non sono scolpite nella pietra: se uno studente migliora nel rendimento può aspirare a una scuola più prestigiosa, se invece la sua media voto si abbassa viene declassato ad una scuola peggiore.
La protagonista del romanzo è la professoressa Elena Fairchild. Dato che insegna in un’accademia per giovani geni, a lei non dà alcun fastidio che le cose stiano così, anzi è ben contenta di insegnare a degli studenti da 10 e lode. Anche sua figlia frequenta una scuola di serie A, quindi non potrebbe chiedere di più dalla vita.
Poi un giorno la figlia di Elena comincia a peggiorare nel rendimento. E non perché è stupida o perché non studia, ma perché la paura di finire in una scuola peggiore le fa venire un’ansia da prestazione pazzesca, impedendole di esprimere anche i concetti più elementari. Tuttavia, nel mondo spietato in cui vive non c’è spazio per queste giustificazioni: o porti a casa i risultati o vieni spedito in una scuolaccia a calci nel sedere, punto e basta. E infatti alla figlia di Elena succede proprio questo: passa di punto in bianco dal primo all’ultimo livello del sistema di istruzione.
A quel punto Elena scopre qualcosa che non avrebbe mai immaginato: le scuole dell’ultimo livello sono dei veri e propri lager. Le mense forniscono dei pasti volutamente pessimi, perché secondo lo stato non ha senso sprecare del buon cibo per degli studenti dal basso quoziente intellettivo; le aule sono sprovviste anche degli strumenti più essenziali, per lo stesso motivo; i professori sono più aggressivi che mai, perché gli studenti poco brillanti tendono a essere anche indisciplinati, e quindi lo stato incoraggia i docenti a rimetterli in riga con un approccio militare che manderebbe in estasi il generale Vannacci.
Naturalmente niente di tutto questo trapela all’esterno di quelle scuole. Al contrario, la ministra dell’istruzione ha orchestrato un’opera di propaganda volta a far sembrare che lì gli studenti si divertono come pazzi, e i professori trovano il modo di valorizzare le loro qualità nonostante il loro basso quoziente intellettivo. Tuttavia, la ministra non ha fatto i conti con Elena, che schiuma dalla rabbia per ciò che è capitato a sua figlia, e non vede l’ora di far scoprire alla stampa come stanno veramente le cose…
La classe è un libro che mi ha fatto molto riflettere sul concetto di meritocrazia. Tendiamo a pensare che se un sistema premia chi ha il rendimento più alto allora è un sistema giusto, e non teniamo di conto che in realtà il rendimento è condizionato da molti fattori che con il merito non hanno niente a che vedere. Uno studente può ottenere un voto basso perché (come la figlia di Elena) non riesce a resistere allo stress. Oppure perché è stato preso di mira da un professore, e quindi prenderebbe l’insufficienza anche se ripetesse tutto il libro alla perfezione. Oppure perché il giorno della verifica si è sentito male, e quindi non è riuscito a farla bene nonostante avesse studiato con impegno. Proprio perché un brutto voto può dipendere da tanti fattori, è profondamente sbagliato bollare come immeritevole lo studente che l’ha preso. Figuriamoci poi rinchiuderlo in una scuola a parte. Eppure non solo in questo romanzo, ma anche nella realtà esistono dei politici a cui questo progetto della segregazione scolastica pare una gran figata: di conseguenza, non è da escludere che un domani si passi dalle parole ai fatti. Per evitare che questo succeda, leggete e fate leggere a più persone possibili La classe di Christina Dalcher: vi resterà dentro per sempre.

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Sto per sposarmi

Tra tutte le medaglie che abbiamo vinto alle ultime olimpiadi, quella che mi ha colpito di più è stata quella della scherma femminile a squadre. Non tanto per la gara in sé, quanto piuttosto per la storia particolare che c’è dietro.
Quella squadra era composta da 4 schermitrici, 2 friulane e 2 siciliane. Ciò significa che queste ragazze hanno passato insieme tutta la loro carriera: le prime 2 si allenavano insieme a Udine, le altre 2 a Catania, e quando l’Italia le convocava si ritrovavano tutte e 4 nel ritiro della Nazionale. Questo ha creato un legame fortissimo tra di loro, che era visibile anche nelle interviste: infatti quando parlavano davanti ai microfoni nessuna cercava di prevalere sulle altre, e spesso una schermitrice riprendeva il discorso da dove l’aveva finito la sua compagna. Era come se fossero diventate un corpo unico.
La loro storia dimostra quanto sia importante fare gioco di squadra. Perché ciascuna di quelle 4 schermitrici è brava anche da sola, ma solo mettendosi tutte insieme sono riuscite ad arrivare sul gradino più alto del podio. Se invece si fossero fatte la guerra tra di loro, per invidia o perché ciascuna di loro voleva essere l’unica stella della Nazionale, probabilmente non avrebbero vinto neanche la medaglia di bronzo.
Anche a Boston c’è un gruppo di atleti come loro. Sono tutti giocatori di hockey, e militano tutti nella squadra della Briar University. Come le nostre campionesse della scherma, anche loro hanno passato tanto tempo insieme, e questo li ha resi molto affiatati dentro e fuori dal campo. Ed è proprio fuori dal campo che succedono le cose più interessanti. Ad esempio, mi sono venuti i brividi quando Logan è entrato in una camera d’albergo convinto che fosse quella di un suo compagno di squadra, e invece ci ha trovato una ragazza di nome Grace (con la quale poi si fidanza): quest’incontro casuale mi ha fatto riflettere su come spesso un episodio minimale e che non doveva neanche succedere finisca per dare una svolta decisiva alla nostra vita, spingendola in una direzione che non avremmo mai immaginato. E’ molto bella anche la parte in cui Garrett rivela agli altri giocatori che vuole chiedere alla sua fidanzata Hannah di sposarlo, e cerca di trovare insieme a loro le parole giuste per convincerla: mi ha commosso sia la sincerità con cui ha parlato dei suoi sentimenti, sia l’altruismo con cui i suoi compagni di squadra si sono presi a cuore la questione come se la proposta dovessero farla loro.
Come potete vedere, L’eredità di Elle Kennedy è un libro molto ricco: parla di sport, di amicizia, di amore… più in generale parla della vita, e lo fa con una passione che ti conquista ad ogni pagina. Come andranno a finire le avventure sentimentali e sportive di questi ragazzi? Non posso dirvelo, naturalmente. Posso solo consigliarvi di leggere questo libro: se lo farete, i suoi personaggi vi resteranno dentro per sempre.

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Una scelta coraggiosa

Qualche anno fa ho conosciuto una ragazza di Alassio. Questo paese è la versione ligure di Forte dei Marmi, ovvero una località pensata per i turisti d’élite, quelli che nuotano tutti i giorni nel lusso più sfrenato e a maggior ragione vogliono nuotarci quando vanno in vacanza. E’ un posto che mi mette a disagio, ve lo confesso. Non solo perché non me lo posso permettere, ma anche perché quando ci vado mi sento un pesce fuor d’acqua: io mi vesto con le prime cose che trovo nell’armadio, amo mangiare nelle trattorie ed evito tutte le spese non necessarie, quindi sono l’esatto opposto del turista tipo di Alassio.
Voi penserete: la ragazza a cui fai riferimento vive circondata da tutto questo lusso, quindi sarà una di quelle con la puzza sotto il naso, che i tipi come te li guardano dall’alto in basso e poi si voltano dall’altra parte. Invece no: ciò che mi colpiva di più di Alessia era proprio la sua straordinaria umiltà. Pur essendo ricchissima, era molto semplice e alla mano nei modi, ed era anche molto simpatica.
Tuttavia, il motivo principale per cui la ammiro è un altro: è una che vuole camminare con le proprie gambe. Per lei sarebbe molto facile inserirsi nell’attività della sua famiglia e poi prenderla in mano quando i suoi genitori saranno troppo anziani; invece ha scelto di studiare per diventare una truccatrice. Anche ponendo che lei riesca a trasformare questa passione in un lavoro, comunque non guadagnerà mai neanche un centesimo di ciò che potrebbero darle ogni mese i suoi genitori; tuttavia, a lei non importa. Anzi, è molto più felice così, perché lavorando per loro guadagnerebbe di più, ma non farebbe ciò che ama; quando trucca una donna invece si sente pienamente realizzata, e sperimenta la gratificazione che si prova nell’essere stati scelti per le proprie qualità, non perché si è figli di uno che conta.
Ho pensato a lei quando ho visto Touch. Questo film parla di Christopher, un ragazzo che studia economia a Londra. Frequentando un ateneo così prestigioso, lui una volta laureato avrebbe tutte le possibilità del mondo, e qualsiasi lavoro lui scelga si ritroverebbe comunque a guadagnare un pacco di soldi. Il guaio è che Christopher ha perso interesse per l’economia, e non ha nessuna intenzione di rimanere tutta la vita in un ambito che ormai gli provoca solo una noia mortale. Così molla l’università, e decide di cercarsi un lavoro.
Dato che ha il solo diploma come titolo di studio e non ha nessuna esperienza lavorativa, gli tocca accontentarsi di fare il lavapiatti. Per di più in un ristorante giapponese, in cui tutti i dipendenti parlano nella loro lingua, e quindi lui è inevitabilmente emarginato. Ma siccome è un ragazzo intelligente, Christopher comincia a studiare il giapponese da autodidatta, e lo impara in pochi mesi. E una volta superata la barriera linguistica, si fa insegnare anche a cucinare, diventando in pratica uno di famiglia. Lo diventa in tutto e per tutto, perché si è innamorato della figlia del proprietario: il boss ovviamente non lo sa, e non è affatto detto che accetti la relazione tra i 2…
Ciò che ho apprezzato di più di Touch non è la storia d’amore che racconta (comunque molto coinvolgente), ma il messaggio che lancia. Se Christopher fosse rimasto a studiare economia controvoglia e poi si fosse laureato, avrebbe sicuramente trovato un lavoro ben pagato, ma non sarebbe stato contento. Facendo il cuoco in un ristorante invece ha trovato la vera felicità, che non sempre si misura in soldi. Alessia lo sapeva già, ed è per questo che mi sento così fortunato ad averla conosciuta.

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Io e Valentina

Quando finii di studiare, per trovare un lavoro dovetti emigrare a 350 km da casa mia. Non fu un grande sacrificio per me: sia perché l’alternativa era rimanere disoccupato, sia perché la regione in cui emigrai (la Liguria) è davvero bellissima, e infatti ci torno ogni anno per le mie vacanze estive.
Prima di legarmi alla Liguria, quando andavo al mare sceglievo sempre e solo la Romagna. Fu lì che conobbi Valentina. Suo padre aveva un bar proprio di fronte al mio albergo, e lo faceva gestire interamente a lei: purtroppo il bar in questione andava male, quindi lei passava intere giornate a leggere romanzi in attesa di un cliente. Era questo che mi colpì di lei: il fatto che leggesse romanzi. Non riviste di gossip, non cruciverba, ma romanzi. Insomma, era una ragazza di un certo spessore, aveva tanto tempo a disposizione, stava davanti al mio albergo ed era pure carina: non potevo non provarci. E infatti ci provai.
Siccome già allora avevo una certa parlantina, io e Valentina cominciammo a chiacchierare per giornate intere, e scoprii diversi dettagli su di lei. Purtroppo alcuni di quei dettagli scavavano un solco profondissimo tra di noi: ad esempio, scoprii che lei aveva 25 anni e io 18, e quindi lei stava già finendo l’università, io invece non avevo ancora finito neanche il liceo. Tuttavia, io non mi feci scoraggiare, e quindi non solo continuai a bazzicare il suo bar per tutti i giorni della mia vacanza, ma rimasi in contatto con lei anche dopo la fine dell’Estate.
L’Estate successiva ovviamente tornai in Romagna, e ovviamente avevo in testa Valentina prima ancora di partire. Purtroppo però nel giro di un anno la situazione era radicalmente cambiata: suo padre aveva chiuso il bar e aveva aperto uno stabilimento balneare, quest’ultimo stava andando benissimo, e quindi quando andavo a trovarla lì Valentina non aveva mai un minuto da dedicarmi. Anzi, avevo l’impressione di infastidirla andando lì, perché se perdeva anche solo 5 minuti dietro a me rallentava il servizio, facendo spazientire sia i clienti che suo padre. In pratica potevo stare con lei soltanto quando finiva di lavorare, e anche allora non è che mi desse chissà quanto spago, dato che era stanca morta dopo ore di lavoro frenetico.
Non ho ancora citato il cambiamento più negativo di quell’Estate: Valentina si era fidanzata. Di conseguenza, se stava poco con me sia sul lavoro che fuori era anche perché temeva che il fidanzato lo scoprisse, e in tal caso rischiavo grosso. Insomma, fu una vacanza terribile.
Dopo quell’Estate non sono più tornato in Romagna, essendo venuta a mancare la motivazione principale che mi portava lì. Da allora sono passati ben 16 anni, durante i quali non ho più sentito Valentina, ma mi sono sempre tenuto aggiornato su di lei tramite i suoi social. Il fidanzato che me la soffiò è diventato suo marito, e hanno 2 figli; suo padre è morto, ma lo stabilimento balneare da lui fondato gode ancora di un successo strepitoso; lei non lavora più lì, ma ha trovato un impiego ancora più redditizio in ambito finanziario. Insomma, è una donna realizzata sotto tutti i punti di vista, e ha fatto tanta strada dai tempi in cui ci siamo conosciuti. Proprio per questo, non ho mai preso in considerazione l’eventualità di ricontattarla: quando la tua vita ha raggiunto un equilibrio, hai sempre un pizzico di timore che qualche fantasma del passato arrivi a turbarlo, quindi sono sicuro che se risbucassi dal nulla dopo tanti anni non le farei affatto piacere, anzi la metterei in agitazione.
Ho ripensato a lei quando ho visto The Last Summer. Potrei raccontarvi molte cose su questo film, ma per non svelare troppo mi limiterò a dire che parla di alcuni ragazzi che sperimentano proprio ciò che successe a me quando conobbi Valentina, ovvero innamorarsi nella stagione più bella dell’anno e nella fase più spensierata delle loro vite. Le loro storie d’amore avranno una conclusione più felice rispetto alla mia? Non posso dirvelo, naturalmente. Posso solo consigliarvi di aprire Netflix e guardare The Last Summer: è un film perfetto nella sua semplicità.

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I 10 film che ho visto con quattro gatti, vol. 4

Quando vado al cinema, la prima cosa che faccio appena entro in sala è contare il numero degli spettatori. Lo faccio nella convinzione che la gente non è stupida, e quindi più la sala è affollata, più è probabile che il film sia di buona qualità.
Questa mia teoria è stata smentita innumerevoli volte. A vedere The Master eravamo un centinaio, ma faceva schifo; a vedere Ipotesi di reato eravamo in due, ma era un bel film. In linea generale, però, il ragionamento funziona.
Essendo un cinefilo accanito, mi è capitato molte volte di vedere un film in un cinema quasi deserto: non a caso ho scritto 3 post sull’argomento (uno nel 2016, uno nel 2018 e uno nel 2021), in cui elencavo tutti i film che avevo visto con meno di 10 persone in sala. Nei 3 anni passati dal terzo post mi è capitato con altri 10 film: ecco quali.

10) M3gan (9 spettatori): E qua partiamo col botto, perché M3gan è davvero un ottimo horror. Il guaio è che è uscito nello stesso periodo di Avatar 2, e quindi ce lo siamo goduto tra pochi intimi.

9) Plan 75 (8 spettatori): Un film in cui non succede praticamente nulla. Come spesso succede quando il film ha una trama inconsistente, il regista ha cercato di metterci una pezza affidando una parte ad una bella figliola, ma l’attrice in questione appare solo per pochi minuti, e quindi non migliora più di tanto la situazione.

8) Diabolik chi sei? (7 spettatori): Tra tutti i cinecomics che ho visto negli ultimi anni, ovviamente quelli targati Marvel e DC sono quelli che mi sono piaciuti di più. Diabolik chi sei? non sfigura in confronto ad essi, anche grazie alla presenza di un’attrice che mi fa venire gli occhi a cuoricino ogni volta che la vedo (Miriam Leone).

7) Occhiali neri (7 spettatori): Dario Argento è il mio regista preferito, quindi sono andato a vedere questo suo film con il massimo della benevolenza. Nonostante ciò, perfino io devo riconoscere che è una vera schifezza. 

6) Bussano alla porta (6 spettatori): Se avessi bevuto un bicchierino per ogni situazione assurda che vedevo succedere davanti allo schermo, sarei stato ubriaco già alla fine del primo tempo.

5) Top Gun: Maverick (6 spettatori): Noiosissimo come il primo Top Gun. Nessuno stupore che a vederlo fossimo soltanto in 6. Se nel cast non ci fosse stata una bellona come Jennifer Connelly (l’attrice nella foto) probabilmente saremmo stati ancora meno.

4) Watcher (4 spettatori): Se la protagonista ha un’aria depressa dal primo all’ultimo minuto, difficilmente allo spettatore verrà voglia di proseguire la visione del film. E infatti io sono arrivato in fondo solo perché avevo pagato il prezzo del biglietto.

3) The Menu (4 spettatori): Il film vuole prendere in giro la tendenza di alcuni chef a spacciare per opere d’arte i loro piatti sofisticati ma con poca sostanza, e anche la stupidità degli esaltati che abboccano a questo bluff. Se il film fosse stato impostato come una commedia forse avrebbe potuto funzionare; il guaio è che l’hanno voluto impostare come un horror, e quando mescoli 2 generi lontanissimi tra loro come la satira e l’horror è difficile che venga fuori un bel film.

2) Cocainorso (2 spettatori): I produttori non hanno ancora capito che solo un regista in tutto il mondo sa mischiare comicità e violenza riuscendo a risultare divertente; se ci prova qualcun altro il film non solo non fa ridere, ma risulta anche fastidioso.

1) A Quiet Place – Giorno 1 (2 spettatori): Guardereste un prequel di Ghost in cui non ci sono i personaggi né di Patrick Swayze né di Demi Moore né di Whoopi Goldberg? Ovviamente no. Ebbene, questo film ha fatto flop per la stessa ragione, ovvero la scelta cretina di fare un prequel di A Quiet Place senza nessun personaggio del primo film.

Cosa ne pensate dei film che ho elencato? E soprattutto, quali sono i film che voi avete visto con quattro gatti?

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Io e Tommaso

Quasi tutti i ricordi più belli della mia vita da studente sono legati alla mia classe delle medie. Dentro quella classe c’era non solo la mia prima amicizia femminile (la Bianca di cui vi ho già parlato), ma anche l’indimenticabile Tommaso. Era quello che oggi definiremmo un iperattivo: non riusciva a stare fermo per più di 5 minuti, quindi tendeva a interrompere spesso la lezione alzandosi in piedi o dicendo la prima cosa che gli passava per la testa. Negli anni in cui ero in classe con lui ero infastidito dalle sue continue interruzioni, perché facevano perdere il filo del discorso sia a noi che al professore; tuttavia, in seguito l’ho rivalutato, perché mi sono reso conto che tante lezioni di materie per me noiosissime (come Matematica o Disegno tecnico) sono riuscito a seguirle fino in fondo proprio perché c’era lui a movimentarle ogni 5 minuti. Se invece avessi dovuto ascoltare il professore che parlava di proiezioni ortogonali dal primo all’ultimo minuto, probabilmente mi sarei addormentato dopo neanche mezz’ora.
In seguito ho rivalutato Tommaso anche per un altro motivo: è uno che non porta rancore. Alle medie ci eravamo accapigliati per una questione di nessuna importanza: avevo ragione io, ma avevo usato delle parole così dure con lui che ero finito per passare dalla parte del torto. A causa di quel brutto episodio, abbiamo finito le medie senza più parlarci. Qualche anno dopo ci siamo rivisti per puro caso: mi aspettavo che lui facesse finta di non riconoscermi o mi trattasse con freddezza, invece era sinceramente contento di rivedermi, e facemmo una bellissima chiacchierata.
Da allora io e Tommaso, che non eravamo mai stati veramente amici neanche quando eravamo in classe insieme, abbiamo cominciato a sentirci regolarmente. Questi ultimi anni sono stati molto significativi per lui, perché si è sposato, ha fatto 2 figli e ha aperto ben 3 ristoranti.
La vita perfetta che Tommaso si era costruito è entrata in crisi a causa di un fulmine a ciel sereno che l’ha colpito l’anno scorso. Stando alle accuse, lui aveva corrotto un dipendente della società autostrade affinché gli fornisse regolarmente delle informazioni riservate. Una volta ricevute queste informazioni, aspettava che venisse indetta una gara d’appalto: a quel punto vendeva le informazioni riservate alle società interessate a vincerla. Queste ultime erano ben liete di pagare, perché sapere qualcosa che i loro concorrenti non sapevano gli garantiva un vantaggio decisivo, e infatti chi comprava quelle informazioni poi l’appalto lo vinceva.
Questo sistema è venuto a galla a causa di un pacco postale. Perché Tommaso quelle informazioni non le passava dal vivo o a telefono: era così incauto da scriverle su carta e poi andare a spedirle alla Posta. Così un giorno uno dei suoi pacchi è stato aperto dalla Polizia postale, e al suo interno sono state trovate delle informazioni che né il mittente né il destinatario avrebbero mai dovuto sapere. Era stato scoperchiato il vaso di Pandora.
Quando ho letto tutto questo sui giornali, sono rimasto semplicemente sbalordito. Mai nella vita avrei immaginato che il mio amico potesse essere invischiato in una situazione del genere. Non l’avrei ritenuto capace di entrare in un brutto giro neanche con un ruolo minore, figuriamoci con un ruolo da protagonista. Non solo per il suo carattere, ma anche perché non aveva alcun bisogno dei soldi guadagnati in quel modo: come dicevo prima, è un ristoratore di successo, quindi i ricavi delle sue attività erano più che sufficienti per garantirgli un buon tenore di vita.
Proprio perché questa situazione mi sembra assurda sotto tutti i punti di vista, vi confesso che tuttora non sono convinto della sua colpevolezza. So che quel pacco sembra inchiodarlo in maniera schiacciante, ma so anche chi è Tommaso, e non riesco a vederlo nei panni del losco faccendiere che si mette a rimestare nel torbido. Di conseguenza sono fiducioso che ci sia una spiegazione, e che il suo avvocato riuscirà a metterla in luce.
Hugh e Keith hanno una storia simile a quella mia e di Tommaso. Da giovani sono amici per la pelle: stanno sempre insieme non solo in classe, ma anche sul campo da baseball, dove si intendono a meraviglia e sono le 2 stelle della squadra. Poi crescendo prendono strade diverse: Hugh diventa un mafioso, Keith diventa un procuratore distrettuale. E quindi in pratica il lavoro principale di Keith è trovare il modo di inchiodare Hugh. Ma quando il senso del dovere confligge con il valore dell’amicizia è davvero difficile capire quale sia la strada giusta da prendere, e non è affatto scontato capire quale dei 2 sentimenti prevarrà…
Come potete vedere, I ragazzi di Biloxi di John Grisham è molto più di un legal thriller. Questo è soprattutto un libro sulle persone che ci sembrano incapaci di fare del male a una mosca, e invece a un certo punto prendono una strada totalmente diversa dalla nostra. Quando ti succede una cosa del genere ti ritrovi con lo stesso dilemma morale di Keith: non sai se restare accanto al tuo amico che ha sbagliato, o se invece devi cominciare a considerarlo un tuo nemico. Cosa farà Keith? Non posso dirvelo, naturalmente. Posso solo consigliarvi di leggere I ragazzi di Biloxi: vi resterà dentro per sempre.

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Una ragazza speciale

Nel 2016 ho trovato un lavoro a tempo indeterminato. Avendo raggiunto il traguardo della stabilità lavorativa ad un’età relativamente giovane, poi ho passato gli anni successivi senza avere mai nessuna reale ambizione, nessun obiettivo per cui lottare. Questo da un lato mi faceva sentire fortunato, ma dall’altro mi dava l’impressione che alla mia vita mancasse qualcosa. Più precisamente, mi mancava quell’adrenalina che senti in corpo quando insegui qualcosa in cui hai riposto tante aspettative e tante speranze. Adesso dopo tanti anni sono tornato a lottare per un obiettivo: per scaramanzia preferisco non dire di cosa si tratta, ma al di là di questo il fatto di essermi rimesso in gioco mi ha fatto riprovare l’eccitazione febbrile di cui vi parlavo prima, ed è una sensazione bellissima.
Proprio nel periodo in cui ho preso la decisione di gettarmi in questa nuova avventura mi è capitata sotto gli occhi una serie tv in cui potevo identificarmi perfettamente, Sing again. Parla di una ragazza che cerca di diventare una cantante: in questo suo progetto i suoi familiari non la ostacolano affatto, anzi la incoraggiano, perché anche loro sono dei grandi appassionati di musica (e infatti l’hanno chiamata Piano).
Se ho apprezzato così tanto la storia di Piano non è soltanto perché lei come me ha un sogno da realizzare, ma anche perché ci fa capire quanto siamo fortunati: infatti Sing again è ambientato in Thailandia, ed è un paese molto più povero rispetto all’Italia. Ad esempio, in una scena fanno vedere la protagonista che rimane sbigottita davanti a un macchinone, e l’automobile in questione non è una Ferrari o una Lamborghini, ma una (per noi) normalissima Hyundai.
Inoltre, proprio perché per loro anche una Hyundai è una macchina troppo costosa, i thailandesi vanno in giro sempre a piedi. E quei piedi non calzano delle scarpe, ma delle ciabatte a infradito: infatti in Thailandia perfino le scarpe sono un bene di lusso, e quindi vengono indossate solo per le occasioni speciali.
Il bello è che, pur essendo ambientato in una realtà così povera, Sing again non diventa mai squallido o deprimente. Al contrario, è una serie incantevole, perché quando la protagonista si mette a comporre ci dà modo di assistere alla magia della musica che prende forma, partendo dagli spunti più banali e arrivando poi a livelli elevatissimi di qualità.
Inoltre, mette in luce un aspetto davvero commovente dei thailandesi: proprio perché sono poveri, capiscono che l’unico modo per sopravvivere è fare gioco di squadra, e quindi si aiutano tutti tra di loro. E infatti nel suo tentativo di sfondare Piano viene appoggiata non solo dai suoi familiari, ma anche dai suoi amici e dai suoi vicini di casa. Nessuno la ostacola, la scoraggia o le dice che sta inseguendo un sogno irrealizzabile: magari dentro di sé lo pensano che difficilmente diventerà la Jennifer Lopez della Thailandia, ma finché c’è anche solo un 1% di possibilità che questo avvenga loro non gettano la spugna, e fanno tutto ciò che possono per spingere Piano verso il successo. Un tempo anche in Italia era così, poi diciamo che la situazione è un po’ cambiata.
Come vedete, Sing again è una serie tv così ricca che è difficile dire quale sia l’argomento principale. Parla di musica, di altruismo, di sogni da realizzare… più in generale parla della vita, e lo fa con una passione che ti conquista ad ogni episodio. Puntata dopo puntata ti viene da fare un tifo sempre più sfegatato per Piano, e speri con tutte le tue forze che alla fine il suo sogno possa diventare realtà. Piano riuscirà a sfondare? Non posso dirvelo, naturalmente. Posso soltanto consigliarvi di aprire Netflix e guardare Sing again: ne rimarrete deliziati.

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Chi l’avrebbe mai detto?

Qualche anno fa andai al cinema a vedere Gangster Squad. Quel film era uno dei tanti tentativi di riportare sulla cresta dell’onda un genere (il noir) che è andato fuori moda addirittura da 80 anni, e che periodicamente qualche regista prova a rivitalizzare. Come in tutti i noir, in quel film c’era una bellona ad interpretare il ruolo della femme fatale: allora non avrei mai potuto immaginare che la bellona in questione avrebbe fatto strada, passando da un ruolo di contorno come quello al vincere il secondo Oscar a 35 anni.
Come avrete capito, l’attrice a cui mi riferisco è Emma Stone, e il premio che ha vinto stanotte è stata l’unica vera sorpresa di questa notte degli Oscar: infatti sembrava scontata la vittoria di Lily Gladstone per Killers of the Flower Moon. Emma Stone era nettamente sfavorita, sia perché aveva già vinto, sia perché questa era un’occasione irripetibile di premiare per la prima volta un’indiana d’America, quindi anche dal punto di vista politico Lily Gladstone sembrava la candidata ideale. Onestamente questo colpo di scena non mi è piaciuto: Emma Stone era già l’attrice più lanciata di Hollywood, quindi per lei questo premio non era poi così fondamentale; Lily Gladstone invece è in quella delicata fase in cui potrebbe esplodere come potrebbe anche cadere nel dimenticatoio, e quindi un Oscar avrebbe fatto un’enorme differenza per la sua carriera.
A mio giudizio se hanno deciso di premiare Emma Stone è stato un po’ perché Povere creature! è piaciuto molto alla critica, un po’ perché negli ultimi anni l’Academy ha sviluppato un’evidente antipatia nei confronti di Scorsese. Quest’anno Killers of the Flower Moon ha totalizzato 10 nomination e zero statuette; nel 2020 era successa la stessa identica cosa con The Irishman; prima ancora un capolavoro come Silence aveva raccolto la miseria di una nomination minore, e ovviamente zero statuette anche in quel caso. Insomma, è evidente che Scorsese da molto tempo a questa parte non piace più alla critica, e purtroppo anche il pubblico lo sta abbandonando, dato che Killers of the Flower Moon ha incassato meno di quanto è costato. Va detto che lui se l’è andata a cercare, perché i suoi ultimi 2 film durano entrambi più di 3 ore, e quando sfidi la pazienza degli spettatori fino a questo punto è inevitabile che ti vengano dietro in pochi.
Per quanto riguarda le altre premiazioni, mi dispiace molto per il mancato Oscar a Mark Ruffalo. Mi consolo pensando che se non altro è stato battuto da un altro ottimo attore, Robert Downey Jr. Io gliel’avrei dato già ai tempi di Spider – Man: Homecoming, perché già in quel film era emersa la sua capacità di bucare lo schermo anche con pochi minuti a disposizione. Ma ovviamente, siccome era un cinecomic, l’Academy non lo prese neanche in considerazione.
Un altro grande artista che è stato finalmente premiato è Christopher Nolan. Il suo Oppenheimer ha vinto entrambi i premi più importanti (miglior film e miglior regia), quindi è evidente che questo film è piaciuto da impazzire all’Academy. Di norma quando una casa di produzione capisce di avere per le mani un film da Oscar lo fa uscire a ridosso delle nomination, così rimane più impresso nella testa dei giurati e ha più possibilità di venire premiato; se invece un film esce mesi e mesi prima, quando i giurati dell’Academy arrivano a decidere le nomination e le vittorie se lo sono già scordato, e quindi rischia di rimanere a bocca asciutta. Nel caso di Oppenheimer non è successo niente di tutto questo: il film è uscito addirittura a Luglio 2023, ma l’Academy se l’è ricordato benissimo, e gli ha assegnato ben 7 statuette. Evidentemente è uno di quei film che lasciano il segno, e ti rimangono in testa anche molto tempo dopo che li hai visti. Io non l’ho visto, ma tifavo per Christopher Nolan, quindi sono contento che abbia vinto.
E voi per chi tifavate? E cosa ne pensate di queste folli premiazioni?

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Vi racconto la mia storia

Il mese prossimo saranno 10 anni esatti che mi sono laureato. Ricordo benissimo come mi sentii dopo quel traguardo: da un lato ero contento per com’era andata, dall’altro ero preoccupato, perché avevo ottenuto una laurea poco spendibile nel mercato del lavoro, e quindi rischiavo seriamente di rimanere disoccupato. Ero così determinato ad evitare questa fine che cominciai a mandare il mio curriculum in tutta Italia, finché alla fine non trovai un impiego a 350 km da casa mia. Insomma, la mia fase di limbo tra la fine dell’università e l’ingresso nel mondo del lavoro durò poco, ma ricordo benissimo l’angoscia che ho provato in quei momenti: è l’angoscia logorante di chi vive una situazione di incertezza, e non può prevedere in nessun modo quando finirà.
Anche Yuki sta provando questa sensazione. E’ un ragazzo al termine del suo percorso universitario, e prima ancora di laurearsi ha già cominciato a fare i primi colloqui di lavoro. Essendo un ragazzo molto altruista, il suo sogno sarebbe quello di fare un mestiere che gli permetta di aiutare il prossimo in qualche modo, ma per iniziare gli andrebbe bene qualsiasi cosa, anche lavorare in una fabbrica di orologi.
E’ anche un tipo molto organizzato, perché tra lo studio e i colloqui di lavoro riesce a trovare del tempo anche per i suoi amici. Frequentano tutti l’università con lui, e hanno un modo tutto loro di comunicare: hanno comprato un quaderno, lo hanno piazzato in una delle loro aule universitarie, e hanno stabilito che ogni volta che a qualcuno di loro succederà qualcosa di importante lo racconterà agli altri scrivendolo su quel quaderno. E’ una sorta di gruppo Whatsapp su carta, e in effetti a quei tempi (la storia di Yuki è ambientata nel 2004) era proprio così che funzionava la comunicazione non verbale: si prendeva carta e penna e si scriveva nero su bianco. Gli sms erano roba per ricconi, perché costavano 10 centesimi l’uno (e se superavi i 150 caratteri il messaggio te lo facevano pagare doppio).
Tra tutti gli amici che scrivono su quel “quaderno collettivo”, la scrittrice più dotata è una ragazza di nome Sae. Lei non parla bene perché è sorda, quindi per lei quel quaderno è provvidenziale, perché le permette di esprimere per iscritto tutti i pensieri che non può comunicare a voce. Yuki rimane molto colpito dai suoi messaggi, e comincia lentamente a innamorarsi di lei. Tuttavia, Sae ha un bel caratterino, quindi non sarà facile corteggiarla senza dire o fare qualcosa che la irriti…
Ci sono molti motivi per cui ho apprezzato la storia di Yuki e Sae. Innanzitutto il protagonista maschile: è il classico bravo ragazzo, l’amico e il figlio che tutti noi vorremmo avere. Poi la protagonista femminile: chi l’ha creata ha avuto il coraggio di tratteggiare un personaggio disabile non totalmente positivo, con gli stessi difetti di una persona normodotata. Sae è orgogliosa, irascibile e melodrammatica, nel senso che tende ad avere una reazione esagerata anche per le sciocchezze più irrilevanti: paradossalmente questo non la rende odiosa agli occhi degli spettatori, anzi fa nascere in loro un forte senso di solidarietà, perché è evidente che si comporta in maniera così rabbiosa non per cattiveria, ma perché non ha ancora accettato di essere diversa dagli altri. Yuki lo ha capito, quindi cerca con pazienza di aiutarla a tirare fuori anche tutto il buono che c’è in lei, e che traspare chiaramente dai messaggi che scrive.
La serie Netflix che racconta la storia di Yuki e Sae si intitola Orange Days. Il titolo fa riferimento ad un altro piccolo rito degli amici di Yuki: prima di andare a lezione passano davanti al giardino di un signore, rubacchiano qualche arancia dal suo albero e poi corrono verso l’università prima che lui li colga in flagrante. Come dice il titolo, per Yuki quelli dell’università erano “i giorni delle arance”, ovvero i giorni in cui viveva così libero e spensierato che il problema più grosso che potesse capitargli era venire beccato a rubare un’arancia. Tutti noi abbiamo nostalgia di quel periodo, ed è anche per questo che ho adorato così tanto questa serie tv. Guardatela anche voi: ne rimarrete deliziati.

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