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Il Circolo Pickwick/Capitolo 16

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Avventura troppo lunga per essere brevemente narrata

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Avventura troppo lunga per essere brevemente narrata
Capitolo 15 Capitolo 17

Non c’è un mese in tutto l’anno in cui la natura si adorni di più bella veste come nel mese di Agosto. La primavera ha molte bellezze, ed è pure un fresco e florido mese il Maggio, ma le bellezze di questa stagione dell’anno sono tanto più appariscenti per l’immediato contrasto con l’inverno. Non ha questo vantaggio il mese di Agosto. Arriva quando non abbiamo in mente altro che limpidezza di cielo, campi verdeggianti, fiori profumati — quando i ricordi della neve e del ghiaccio e dei venti freddi e desolati sono scomparsi dalla nostra mente come dalla terra. Eppure che amena stagione e com’è ridente! Gli orti ed i campi risuonano dell’allegro tramestio del lavoro; gli alberi sopportano il peso dei frutti maturi che ne piegano i rami fino a terra; e il grano, ammontato in bei covoni o lievemente ondeggiando ad ogni aura di vento, quasi allettasse la falce, colora di una tinta bionda tutto il paesaggio. Una mollezza dolcissima invade ogni cosa; e l’influenza della stagione pare che si estenda perfino a quel carro pesante, il cui lento procedere attraverso il campo ben mietuto è appena percettibile all’occhio ma non ferisce l’orecchio di alcun suono ingrato.

Mentre la diligenza si lascia dietro rapidamente i campi e i frutteti che costeggiano la strada, dei gruppi di donne e di bambini, empiendo di frutta le canestre o raccogliendo le spighe disperse del grano, sospendono un tratto la fatica, e facendo solecchio della mano abbronzata ad un viso anche più abbronzato della mano, guardano con occhio curioso i passeggieri. Qualche monelluccio ben forte e pasciuto, troppo piccolo per lavorare, ma troppo cattivo per esser lasciato a casa, sporge le gambe dall’orlo della cesta dove è stato depositato per sicurezza, e tira calci all’aria e strilla allegramente. IL falciatore si rizza, piega le braccia, e segue con l’occhio la carrozza che passa; e i grossi cavalli delle carrette volgono allo svelto veicolo un’occhiata sonnolenta, la quale dice chiaramente, come può dirlo un’occhiata di cavallo: "Sarà una bellissima cosa a vedere, ma in somma l’andar lenti e riposati per un campo come questo val meglio che correre a cotesto modo sopra una via polverosa." Voi vi voltate a guardare indietro, quando siete ad un gomito della via. Le donne e i bambini si son rimessi al lavoro, il falciatore si è di nuovo curvato sulla sua falce, i cavalli delle carrette vanno avanti per conto loro, e tutto è da capo in movimento.

Non si poteva sottrarre all’influenza di una scena cosiffatta l’animo del signor Pickwick. Pensando alla presa risoluzione di strappar la maschera a quello sciagurato di Jingle, qualunque angolo della terra avesse scelto per compiere i suoi fraudolenti disegni, ei stette sulle prime taciturno e meditabondo, escogitando i mezzi più acconci a raggiungere il suo scopo. A grado a grado fu chiamata la sua attenzione dagli oggetti che lo circondavano; e finalmente prese a godere del viaggio come se l’avesse intrapreso per la più piacevole ragione di questo mondo.

— Bellissimo paesaggio, Sam, — disse il signor Pickwick.

— Altro che tetti e comignoli, signore, — rispose il signor Weller, toccandosi il cappello.

— Mi figuro, Sam, — riprese il signor Pickwick sorridendo, — che in vita vostra non abbiate veduto altro che comignoli e tetti, calce e mattoni.

— Non sono sempre stato lustrastivali, — disse Sam scrollando il capo. — Sono anche stato con un carrettiere.

— E quando ciò?

— Quando fui scaraventato la prima volta nel mondo per giocare a tira e molla coi suoi guai. Cominciai dal fare il garzone di carradore, poi di carrettiere, e poi feci il facchino e alla fine il lustrastivali. Adesso sono il domestico di un signore. Forse diventerò anch’io un signore, uno di questi giorni, con una pipa in bocca e un villino. Chi lo sa? non mi farebbe nessuna maraviglia.

— Siete un vero filosofo, Sam, — disse il signor Pickwick.

— Credo ch’è un po’ male di famiglia, signore. Pigliate mio padre, per esempio. La mia madrigna lo secca, egli si mette a fischiare. Essa monta in bestia e gli rompe la pipa; lui infila la porta e se ne va a comprarne un’altra. Essa allora strilla come un’oca e le vengono le convulsioni; e lui se la fuma comodamente aspettando che la torni in sè. Questa è filosofia, non vi pare, signore?

— O almeno ne fa molto bene le veci, — rispose ridendo il signor Pickwick. — Deve esservi servita molto, Sam, nel corso della vostra vita vagabonda.

— Servita? Altro che! Quando scappai dal carradore e prima di mettermi con quell’altro, abitai per quindici giorni in un quartiere non mobiliato.

— Non mobiliato?

— Già — gli archi a secco del Ponte di Waterloo. Bel posto per dormire; dieci soli minuti distanti da tutti gli ufficii pubblici; soltanto che la posizione è piuttosto ventilata, vedete. Ho visto lì delle cose curiose di molto.

— Ah, lo credo! — disse il signor Pickwick in aria di vivo interesse.

— Di quelle cose, signore, — riprese Sam, — che vi avrebbero passato il cuore da parte a parte. Non ci trovate lì i soliti mendicanti; state pur sicuro, che lo sanno meglio il fatto loro. Di quelli giovani, maschi e femmine, che non sono ancora venuti su nella professione, vengono a star lì sotto qualche volta come se quella fosse la casa loro; ma in generale sono delle povere creature consumate, affamate, scasate, che le vedete rannicchiarsi negli angoli oscuri di quei luoghi solitari: dei disgraziati che non arrivano nemmeno alla corda da due soldi.

— E che è cotesta corda, Sam? — domandò il signor Pickwick.

— La corda da due soldi, signore, — rispose il signor Weller, — è proprio una specie di locanda a buon mercato, dove un letto si paga due soldi per una notte.

— E perchè mo un letto si chiama una corda?

— Benedetto voi, signore, non è mica cotesto che dite voi. Quando il signore e la signora che tengono la locanda aprirono bottega la prima volta, usavano fare i letti per terra; ma poi non c’era il tornaconto a nessun prezzo, vedete, perchè invece di farsi un sonnellino da due soldi, figuratevi che i passeggieri se ne stavano lì coricati per mezza giornata. Sicchè ora hanno messo invece due corde, un sei palmi distanti, e tre palmi da terra, che pigliano la camera da una parete all’altra; e i letti son fatti di tela grossa da sacchi stirata tra le due corde.

— Benissimo, — disse il signor Pickwick.

— Benissimo, — riprese Sam. — Ora il vantaggio di questo piano vi salta agli occhi. Tutte le mattine alle sei precise, si spuntano le funi da uno dei capi, e tutti i passeggieri ruzzolano dal letto. La conseguenza poi è, che essendo completamente svegliati, si rimettono in piedi e vanno via tranquilli come se niente fosse.... Ma scusate, signore, — disse Sam ad un tratto interrompendosi, — è questo Bury Saint-Edmunds.

— Precisamente, — rispose il signor Pickwick.

Le ruote della carrozza suonarono sulle vie ben lastricate di una graziosa cittadina dall’aspetto pulito ed elegante, e si fermarono davanti a una grande locanda situata in un’ampia strada, quasi di faccia alla vecchia abbazia.

— E questo, — disse il signor Pickwick alzando gli occhi, — e l’Angelo. Smontiamo qui, Sam. Ma bisogna esser cauti. Ordinate una camera particolare, e non date il mio nome. Voi mi capite.

— Altro che! — rispose Sam con una strizzatina d’occhio; e dopo aver tratta la valigia del padrone dalla cassa di dietro, dove era stata gettata in fretta quando aveano raggiunto la diligenza ad Eatanswill, il signor Weller disparve per compiere il suo mandato. Fu subito fissata una camera privata, nella quale senz’altro indugio entrò il signor Pickwick.

— Ed ora, Sam, — disse il signor Pickwick, — la prima cosa da fare....

— È di ordinare il pranzo, — interruppe Sam. — È già molto tardi, signore.

— Ah, sicuro, sicuro, — disse il signor Pickwick guardando all’orologio. — Avete ragione, Sam.

— E se mi è permesso di dare un consiglio, — aggiunse Sam, — io direi che si dovrebbe subito dopo andare a riposare tranquillamente, e non cominciare prima che faccia giorno ad informarsi di cotesto signore. Non c’è nulla di così rinfrescante come il sonno, come disse la fantesca prima di sorbirsi il guscio d’ovo pieno di laudano.

— Credo che abbiate ragione, Sam, — disse il signor Pickwick. — Ma bisogna prima di tutto ch’io sappia di certo s’egli è qui e se non c’è pericolo che mi sfugga.

— Per questo, ci penso io, — disse Sam. — Vi ordino un pranzettino a modo, e mentre che apparecchiano, fo attorno le mie domande; mi bastano cinque soli minuti per spremere qualunque segreto dal cuore del lustrastivali.

— Bene, bene, fate così, — disse il signor Pickwick, e Sam uscì subito.

Di lì a mezz’ora il signor Pickwick sedeva davanti ad un desinare eccellente; e di lì a tre quarti il signor Weller tornava ad informare il padrone che il signor Carlo Fitz-Marshall aveva ritenuto la sua camera particolare fino a nuovo ordine. Avrebbe passato la sera in qualche casa del vicinato, aveva ordinato al lustrastivali di non andare a letto e di aspettarlo, e avea menato con sè il domestico.

— Ora, signore, — conchiuse il signor Weller alla fine della, sua relazione, — se mi vien fatto di averlo un po’ a taglio cotesto domestico, ei mi spiffererà tutti i fatti del suo padrone.

— E come lo sapete? — domandò il signor Pickwick.

— Per bacco, signore, tutti i domestici fanno così.

— Ah, ah, non ci pensavo! Benissimo.

— Allora voi combinate quel che c’è di meglio a fare ed agiremo in conseguenza

Essendo questo il miglior partito che si potesse prendere, si fermò finalmente che così si facesse. Il signor Weller, con licenza del suo padrone, si ritirò per passar la serata a modo suo; e di lì a poco fu acclamato ed eletto dai voti unanimi della compagnia al seggio presidenziale della camera di caffè, il quale onorevole ufficio disimpegnò così lodevolmente e con tanta soddisfazione dei gentiluomini frequentatori del luogo, che le loro rumorose approvazioni e gli scoppi di risa giunsero perfino alla camera da letto del signor Pickwick, ed abbreviarono di circa tre ore il sonno naturale di quell’uomo insigne.

Il mattino appresso di buon’ora, il signor Weller era occupato a sedare gli ultimi avanzi della febbre presa nella buona compagnia della sera innanzi per mezzo di un bagno a doccia del valore di un mezzo penny (avendo indotto un giovane gentiluomo addetto al dipartimento della stalla, con l’offerta di quella moneta, a pompargli sul capo e sulla faccia, fino a che non fosse del tutto tornato in sè), quando la sua attenzione fu richiamata dall’aspetto di un giovane in livrea color violetto, il quale sedeva sopra una panca del cortile, e leggeva tutto assorto una specie di libro di inni, volgendo però di tanto in tanto un’occhiata all’individuo pompato, come se quell’operazione rinfrescante destasse in qualche modo il suo interesse.

— Un bell’originale costui, — pensò il signor Weller la prima volta che i suoi occhi s’incontrarono nello sguardo del giovane violetto, il quale aveva una sua faccia larga, terrea, brutta, due occhi infossati e una testa gigantesca con capelli lisci e pendenti. — Un bell’originale costui, — pensò il signor Weller; e così pensando seguitò a farsi pompare e non vi badò più che tanto.

L’uomo violetto però non ismise dal volgere gli occhi dal libro a Sam e da Sam al libro, come se avesse voglia di appiccar discorso. Sicchè alla fine Sam, per dargliene un appiglio, disse con un cenno familiare del capo:

— Come si va, padron mio?

— Piuttosto bene, grazie, — rispose subito e deliberatamente l’uomo violetto, chiudendo il libro. — Spero lo stesso anche di voi, signore?

— Dirò, se mi sentissi un po’ meno come una bottiglia ambulante di acquavite, — disse Sam, — mi sentirei anche meglio in gamba. State di casa qui voi?

L’uomo violetto rispose affermativamente.

— E come va che non siete stato dei nostri ieri sera? — domandò Sam, strofinandosi la faccia con la tovaglia. — Mi sembrate un allegro camerata voi — allegro come una trota in una secchia di calce, — aggiunse a mezza voce il signor Weller.

— Ero fuori col mio padrone ier sera, — rispose il giovane in livrea.

— E come si chiama il vostro padrone? — domandò Sam, facendosi rosso come un gambero sotto l’azione combinata della subita commozione e delle frizioni della tovaglia.

— Fitz-Marshall, — rispose l’uomo violetto.

— Qua la mano, — disse il signor Weller alzandosi; — avrei tanto piacere di conoscervi. Mi andate assai a genio, vedete.

— To’, quando si dice la combinazione! — esclamò ingenuamente l’uomo violetto; — anche voi mi andate tanto a genio che mi è venuta voglia di parlarvi dal primo momento che v’ho visto sotto la pompa.

— Proprio?

— Parola d’onore. Non vi par curiosa, eh?

— Curiosissima, — disse Sam compiacendosi dentro di sè della mansuetudine del novello amico. — Come vi chiamate collega?

— Job.

— Bel nome davvero; il solo, mi pare, che non si possa abbreviare. E il cognome?

— Trotter, — rispose quegli. — E voi come vi chiamate?

— Mi chiamo Walker, e il mio padrone si chiama Wilkins. Volete accettare un sorso di qualche cosa, signor Trotter?

Il signor Trotter accettò la graziosa offerta, e cacciatosi il libro nella tasca del soprabito, accompagnò il signor Weller nella sala del caffè, dove si trovarono subito ingolfati nella gustosa contemplazione di una bevanda esilarante, formata dalla sapiente mistione in un vaso di stagno di una certa quantità di ginepro inglese colla fragranza dei chiodi di garofano.

— E che posto ci avete voi? — domandò Sam, empiendo per la seconda volta il bicchiere del compagno.

— Cattivo, — rispose Job leccandosi le labbra, cattivissimo.

— Voi non parlate mica sul serio?

— Altro che serio. E quel ch’è peggio, il mio padrone, sta per ammogliarsi.

— Davvero?

— Davverissimo, e peggio ancora sta per rapire una ragazza ricca sfondolata da un Istituto.

— Che dragone! — disse Sam, tornando a riempire il bicchiere del compagno. — Qualche Istituto di qua dev’essere, eh?

Ora, benchè questa domanda venisse fatta con la più naturale noncuranza, il signor Job Trotter mostrò chiaramente agli atti di essersi accorto quanta voglia avesse l’amico suo di cavargli di corpo una risposta. Vuotò il bicchiere, diè un’occhiata misteriosa al compagno, strizzò l’uno e l’altro occhio, e finalmente fece un certo gesto col braccio come se lavorasse ad una pompa immaginaria; dando così ad intendere che egli, Job Trotter, si considerava come assoggettato a questo processo aspirante da parte del signor Walker.

— No, no, — disse poi, — non è cosa che si può dire a tutti. È un segreto, un gran segreto, caro signor Walker.

E così dicendo l’uomo violetto capovolse il bicchiere sulla tavola come per ricordare al suo compagno che non avanzava altro di che estinguere la sete. Sam notò il delicato accenno, e ordinò subito un secondo vaso di stagno, al che gli occhi piccini dell’uomo violetto luccicarono.

— Sicchè è un segreto? — disse Sam.

— Crederei più di sì che di no, — rispose l’uomo violetto sorseggiando il suo liquore con compiacenza.

— Dev’essere molto ricco il vostro padrone?

Il signor Trotter sorrise, e tenendo il bicchiere con la sinistra, diè quattro colpi ben distinti con la destra sulla tasca dei suoi calzoni violetti, come per significare che il padrone avrebbe potuto far lo stesso senza destare un grande allarme col rumore delle monete.

— Ah! — fece Sam, — qui sta tutto il giuoco, eh?

L’uomo violetto fece un cenno espressivo col capo.

— Bè, e non vi pare, bambino mio, — notò il signor Weller, — che se voi lasciate che il vostro padrone metta in mezzo la ragazza e la rapisca come meglio gli piace, siete un furfante matricolato?

— Lo so, — rispose Job Trotter, volgendosi al suo compagno con un viso tutto contrito e leggermente sospirando. — Lo so questo, ed è la cosa che più mi affligge. Ma che debbo fare?

— Fare! — esclamò Sam; — spiattellare ogni cosa alla direttrice e piantare in asso il vostro padrone.

— E chi mi crederebbe? — disse il signor Job Trotter. — La signorina è considerata come il vero ritratto dell’innocenza e della discrezione. Negherebbe tutto e il mio padrone farebbe lo stesso. Chi mi crederebbe? Perderei il mio posto, sarei accusato di calunnia o di qualche altra cosa, ed ecco quel che ci guadagnerei.

— C’è qualche cosa in cotesto, — disse Sam ruminando, — c’è qualche cosa in cotesto.

— Se conoscessi qualche degna persona che volesse pigliare la cosa a petto, — proseguì il signor Trotter, — avrei qualche speranza d’impedire il ratto; ma c’è qui la stessa difficoltà, caro signor Weller, proprio la stessa. Non conosco nessuno qui, essendo affatto nuovo del paese; e se ne conoscessi, è certo che non ne troverei mezzo sopra dieci che presterebbe fede alla mia storia.

— Venite con me, — disse Sam balzando in piedi di scatto ed afferrando pel braccio l’uomo violetto. — Il mio padrone è la persona che fa al fatto vostro.

E dopo una leggiera resistenza da parte del signor Job Trotter, Sam menò il suo nuovo amico in camera del signor Pickwick, al quale lo presentò insieme con un breve sommario del dialogo testè riferito.

— Mi dispiace assai, signore, di tradire il mio padrone, — disse Job Trotter applicandosi agli occhi un fazzoletto rosso largo non più di tre pollici.

— È un sentimento cotesto che vi fa molto onore, — osservò il signor Pickwick, — ma il dovere innanzi tutto.

— Lo so che fo il mio dovere, — rispose Job molto commosso. — Tutti, o signore, dovremmo tentar di compiere il nostro dovere, ed io per mio conto tento umilmente di compiere il mio; ma è ben dura prova, signore, il tradire un padrone, di cui portate gli abiti e mangiate il pane, per furfante che possa essere.

— Voi siete un vero galantuomo, — disse il signor Pickwick con vivo interesse, — una onesta persona.

— Via, via, — interruppe Sam, — al quale le lagrime del signor Trotter davano un po’ sui nervi, — non serve a nulla di nulla il vostro servizio d’inaffiamento.

— Sam, — levò la voce il signor Pickwick, — mi dispiace di rilevare in voi così poco rispetto pei sentimenti di questo giovane.

— Tutti i sentimenti che volete, signore, — rispose Sam, — e visto che sono tanto belli e che sarebbe peccato che li perdesse, io credo che farebbe meglio a tenerseli chiusi dentro che fargli svaporare in acqua calda, tanto più che non servono proprio a niente. Con le lagrime non s’è potuto mai caricare un orologio o far correre una macchina a vapore. La prima volta che vi trovate in conversazione, bambino mio, caricatevi la pipa con questa riflessione; e pel momento, fatemi la finezza di riporvi in tasca cotesta pezzuola rossa. Non è mica così bella che dobbiate sventolarla di qua e di là, come se fosse un ballerino da corda.

— Il mio domestico ha ragione, — disse il signor Pickwick, — benchè abbia un modo troppo familiare e qualche volta poco intelligibile di esprimere la sua opinione.

— Ha molta ragione, signore, — disse il signor Trotter, — ed io mi rimetto subito.

— Benissimo, — approvò il signor Pickwick. Vediamo dunque, dov’è cotesto Istituto?

— È un gran casamento antico fatto di mattoni rossi, appena fuori di città, — rispose Job Trotter.

— E quand’è che il bravo disegno sarà recato in atto? quando avrà luogo il rapimento?

— Stasera, signore.

— Stasera!

— Proprio stasera. E quest’è che mi tiene in tanta apprensione.

— Bisogna prendere immediatamente delle misure, — esclamò il signor Pickwick; — andrò subito io stesso a vedere la direttrice dell’Istituto.

— Domando scusa, signore, — osservò Job, — ma cotesto mezzo non servirà a nulla.

— E perchè no?

— Il mio padrone è un uomo molto astuto.

— Lo so benissimo.

— Sicchè ha saputo a tal punto abbindolare e tirar dalla sua la vecchia signora, che lei non crederebbe a niente che le poteste riferire contro di lui, quand’anche ci andaste in ginocchio e ci pigliaste un giuramento; tanto più che voi non avete altra prova che la parola di un domestico licenziato (come di certo direbbe il mio signor padrone), il quale si vendica a questo modo.

— E che ci sarebbe a far di meglio? — domandò il signor Pickwick.

— Per convincere la vecchia signora, non c’è altro che coglierlo sul fatto, — rispose Job.

— Tutte coteste vecchie non vedono l’inciampo se non ci si rompono il muso, — osservò in parentesi il signor Weller.

— Ma questo coglierlo sul fatto, mi pare una cosa molto difficile, — disse il signor Pickwick.

— Non lo so, signore, — disse dopo un istante di riflessione Job Trotter.

— E come?

— Vedete, — rispose il signor Trotter, — il mio padrone ed io, essendoci intesi con le due fantesche della casa, staremo nascosti in cucina verso le dieci. Quando tutti saranno andati a letto, usciremo dalla cucina e la signorina uscirà intanto dalla sua camera da letto. Una carrozza di posta ci aspetta, e via subito.

— Benissimo, — disse il signor Pickwick.

— Benissimo, signore; ora io ho pensato che se voi vi troverete ad aspettar solo nel giardino....

— Solo! Perchè mo solo?

— Mi sembra molto naturale, — rispose Job, — che alla vecchia signora non possa piacere che una scoperta di questa fatta venga fatta davanti a più persone che non sia strettamente necessario. Anche la signorina, signore.... considerate i suoi sentimenti.

— Avete perfettamente ragione, — disse il signor Pickwick. — La vostra considerazione rivela una grande gentilezza di animo. Andate avanti; avete ragione.

— Ebbene, signore, io pensavo che se voi vi trovaste solo nel giardino, ed io v’introducessi per la porticina in fondo al corridoio alle undici e mezzo precise, vi trovereste nel momento preciso per assistermi nello sventare i progetti di quest’uomo malvagio, nelle cui spire ha voluto la mia disgrazia che io capitassi.

E qui il signor Trotter trasse un profondo sospiro.

— Non vi affliggete per questo, — disse il signor Pickwick; — se egli avesse una sola stilla di quella delicatezza di sentimenti che vi distingue, per umile che sia la vostra condizione, non dispererei punto di lui.

Job Trotter s’inchinò profondamente, e a dispetto delle prime rimostranze del signor Weller, da capo gli s’empirono gli occhi di lagrime.

— Non ho mai veduto una fontana simile, — disse Sam.

— Scommetto che ci ha un rubinetto sempre aperto nel cervello.

— Sam, — ammonì il signor Pickwick severamente, — vi ho già pregato di tenere la lingua a posto.

— Sissignore, — rispose Sam.

— Non mi va a genio cotesto piano, — riprese il signor Pickwick dopo una profonda meditazione. — Non potrei piuttosto comunicare con gli amici della signorina?

— Se non stessero un centinaio di miglia lontani! — rispose Job Trotter.

— Non fa una grinza, — disse da sè a sè il signor Weller, — se stanno lontani vuol dire che non stanno vicini.

— Sicchè, — conchiuse il signor Pickwick, — questo giardino.... Ma come debbo fare per introdurmi?

— Il muro è molto basso, e il vostro domestico vi darà una mano per scavalcarlo.

Il mio domestico mi darà una mano per scavalcarlo, — ripetette macchinalmente il signor Pickwick. — E voi vi troverete senza meno presso cotesta porta di cui parlate?

— Non potete sbagliare, signore; è la sola porta che dà nel giardino. Bussate, quando sentirete battere l’orologio, ed io aprirò subito.

— Non mi piace proprio il piano, — disse il signor Pickwick, — ma visto che non ce n’è uno migliore e che ne dipende la felicità di tutta la vita di codesta signorina, io lo adotto senz’altro. Sta bene, non mancherò.

Così, per la seconda volta, dalla sua innata bontà il signor Pickwick si trovò trascinato in una impresa, nella quale molto volentieri non avrebbe messo le mani.

— Come si chiama la casa? — domandò il signor Pickwick.

— Westgate House. Voltate in po’ a dritta, appena fuori di città; sta isolata, alquanto discosta dalla via maestra, e c’è scritto sulla porta il nome dell’Istituto sopra una piastra d’ottone.

— La conosco, — disse il signor Pickwick. — L’ho già osservata, quando venni qui un’altra volta. Non dubitate.

Il signor Trotter s’inchinò nuovamente e fece per ritirarsi, mentre il signor Pickwick gli metteva in mano una ghinea.

— Siete un brav’uomo, — disse il signor Pickwick, — ed ammiro la bontà del vostro cuore. Basta, non voglio ringraziamenti. Ricordatevi, alle undici.

— Non c’è pericolo che me ne scordi, — rispose Job Trotter.

E ciò detto, uscì dalla camera seguito da Sam.

— Dico eh? — notò questi, — non mi dispiace mica cotesto affare del piangere. A questi patti, caro mio, io piangerei come una grondaia. Com’è che fate?

— È cosa che viene dal cuore, signor Weller, — rispose Job solennemente. — Buon giorno.

— Bel figuro che sei — pensò Sam mentre Job s’allontanava; — ad ogni modo t’abbiamo cavato di corpo ogni cosa.

Quali fossero precisamente i pensieri del signor Trotter non ci è dato qui riferire, per la semplice ragione che non sappiamo quali fossero.

Passò il giorno, venne la sera, e poco prima delle dieci Sam Weller venne ad avvertire il padrone che il signor Jingle e Job erano usciti insieme, che il loro bagaglio era all’ordine, e che aveano ordinata una carrozza di posta. Evidentemente, come il signor Trotter avea presagito, si mandava ad effetto il malvagio disegno.

Suonarono le dieci e mezzo, e il signor Pickwick pensò ch’era tempo di muoversi per la delicata intrapresa. Rifiutando il pastrano che Sam gli voleva mettere addosso, per non avere ingombri nello scalare il muro, uscì dall’albergo in compagnia del fedele domestico.

C’era una splendida luna, ma le nuvole ne velavano la faccia. Era una bella notte, ma di una insolita oscurità. Un’ombra fitta avvolgeva tutt’insieme i sentieri, le siepi, i campi, le case, gli alberi. L’aria era calda e greve; di tratto in tratto dei lampi di estate illuminavano l’estremo lembo dell’orizzonte, unica luce che rompesse appena le tenebre profonde che avviluppavano ogni cosa; non s’udiva un suono, eccetto i latrati lontani di qualche cane di guardia.

Trovarono la casa, lessero la scritta d’ottone, girarono intorno al muro, e si fermarono in quel punto preciso che chiudeva l’estremità del giardino.

— Voi, Sam, — disse il signor Pickwick, — dopo che avrete aiutato a scalare il muro, tornerete all’albergo.

— Signor sì.

— E aspetterete che io torni.

— Si capisce.

— Prendetemi la gamba, così; e quando dirò Su, sollevatemi adagio e delicatamente.

— Ho inteso.

Fissati questi preliminari, il signor Pickwick si aggrappò alla cima del muro e diè l’ordine: Su!, il quale fu subito e letteralmente eseguito. Sia che il suo corpo partecipasse in qualche modo della elasticità della sua mente, sia che il signor Weller avesse di una spinta delicata un’idea alquanto più rozza di quella del signor Pickwick, certo è che l’effetto immediato del suo aiuto fu di scaraventare quell’uomo immortale a dirittura dall’altra parte del muro, dove, dopo aver schiacciato tre siepi di lamponi ed un arbusto di rose, ei riuscì finalmente a tenersi ritto in piedi.

— Spero che non vi siate fatto male, signore? — disse Sam a bassa voce, subito che si fu rimesso dalla sorpresa per la misteriosa sparizione del suo padrone.

— Non mi son fatto male, Sam, no, — rispose il signor Pickwick dall’altra parte del muro; — credo piuttosto che mi abbiate voi fatto male.

— Spero di no, signore.

— Non importa, — disse il signor Pickwick, alzandosi, — poca cosa, qualche semplice scorticatura. Andate via, altrimenti ci sentiranno.

— Buona notte, signore.

— Buona notte.

Sam Weller si allontanò a passi cauti e furtivi, lasciando il signor Pickwick solo nel giardino.

Si vedevano qua e là passar dei lumi dietro le finestre del caseggiato o mostrarsi e sparire su per le scale, come se gli abitanti se ne andassero a riposare. Non volendo avvicinarsi troppo alla porta prima dell’ora fissata, il signor Pickwick si rannicchiò in un angolo del muro e stette lì ad aspettare.

Era senza dubbio una certa situazione che avrebbe fatto cader l’animo a più d’uno. Ma il signor Pickwick non provava nè abbattimento nè timore di alcuna sorta. Avea la coscienza della bontà del suo proposito, e riponeva intiera fiducia nella nobiltà dell’animo di Job. Era certamente una situazione non lieta, per non dir triste a dirittura; ma una persona contemplativa può, sempre che il voglia, abbandonarsi in braccio alla meditazione. E il signor Pickwick avea già meditato fino a cadere in un mezzo assopimento, quando fu destato dall’orologio della vicina chiesa che batteva le ore — le undici e mezzo.

— Ecco il momento, — pensò il signor Pickwick, sorgendo cautamente in piedi. Alzò gli occhi verso la casa. I lumi erano scomparsi e le imposte chiuse; dovevano essere andati tutti a letto. Si accostò in punta di piedi alla porta e azzardò una bussatina. Passarono due o tre minuti senza alcuna risposta, e allora egli diè una bussatina più forte, e poi ancora un’altra più forte.

Finalmente si udì per le scale un rumor di passi, e la luce di una candela si vide attraverso il buco della serratura. Vi fu un grande strepito di chiavi girate e di chiavistelli tirati e la porta fu aperta lentamente.

Ora la porta si apriva in fuori; e quanto più si apriva tanto più il signor Pickwick dava indietro. Ma qual fu il suo stupore, quando avendo un po’ sporto il capo con delicatissima precauzione, vide che chi l’aveva aperta non era già Job Trotter ma invece una fantesca con una candela in mano! Il signor Pickwick tornò a nascondersi con la medesima velocità di quel grande artista ch’è Pulcinella, quando invece della sua bella che gli ha data la posta vede arrivare il commissario.

— Dev’essere stato il gatto, Sara, — disse la ragazza parlando a qualcuno nella casa. — Micia, micia, mici! Micino, micino!

Ma poichè nessuna sorta d’animale si lasciava sedurre da questi allettamenti, la ragazza tornò adagino adagino a chiudere la porta e menò il chiavistello, lasciando il signor Pickwick attaccato al muro come un bassorilievo.

— Curiosa davvero, — pensò il signor Pickwick. — Andranno forse a letto più tardi del solito. È un gran contrattempo però che dovessero scegliere per questo proprio stasera; un contrattempo molto spiacevole.

E con questi pensieri il signor Pickwick si ritirò di nuovo, e quasi furtivamente, nello stesso angolo di muro dove prima s’era rannicchiato, aspettando di poter ripetere il segnale con una certa sicurezza.

Non era stato così cinque minuti quando un vivissimo baleno fu seguito da uno scroscio di tuono che parve se ne schiantasse il cielo e che si allontanò terribilmente rumoreggiando; e poi un altro lampo più abbagliante del primo ed un secondo scroscio di tuono più forte e più vicino; e poi venne giù l’acqua a bigonce con una violenza e una furia da spazzar via ogni cosa.

Il signor Pickwick non ignorava punto che un albero è un vicino molto pericoloso in tempo d’uragano. Aveva un albero a dritta, un albero a sinistra, un terzo albero da dietro, ed un quarto davanti. Rimanendo dove si trovava, poteva cader vittima di un accidente; uscendo nel mezzo del giardino, si esponeva al rischio di esser veduto ed arrestato per ladro. Una o due volte si provò a scalare il muro, ma non avendo ora altre gambe che quelle fornitegli dalla natura, non riuscì con tutti i suoi sforzi che a infliggersi una certa quantità di scorticature alle ginocchia e alle mani e a risolversi in un abbondantissimo sudore.

— Che terribile situazione! — esclamò il signor Pickwick, asciugandosi la fronte dopo questo faticoso esercizio. Guardò alla casa. Tutto era buio. Dovevano essere andati a letto. Ebbene, avrebbe di nuovo tentato il segnale.

Si avanzò in punta di piedi sulla ghiaia umida del viale e bussò alla porta. Trattenne il fiato e pose l’orecchio alla serratura. Nessuna risposta. Bussò di nuovo, tornò ad ascoltare. Si udì di dentro un certo susurro, e poi una voce che, gridava:

— Chi è?

— Non è mica Job, — pensò il signor Pickwick ritirandosi in fretta contro il muro. — È una donna.

Aveva appena avuto il tempo di venire a questa conclusione, quando una finestra del primo piano si aprì, e tre o quattro voci femminili ripetettero la domanda:

— Chi è?

Il signor Pickwick non osava muover piede nè mano. Era chiaro che tutto lo stabilimento era in allarme. Deliberò di non scrollarsi di un pollice fino a che non fosse ogni cosa tornata in calma; e allora poi fare un ultimo sforzo soprannaturale e scavalcare il muro o morirvi.

Come tutte le risoluzioni del signor Pickwick, era questa la migliore che si potesse prendere in un caso di quella fatta; ma, disgraziatamente, si fondava sulla ipotesi che la gente di casa non si fosse avventurata ad aprir di nuovo la porta. Quale fu dunque il suo terrore, quando udì tirar la catena e stridere la chiave, e vide la porta che a poco a poco s’apriva! Diè indietro, passo a passo, più che poteva; ma, per quanto cercasse di farsi sottile, il volume della propria persona impedì che quella venisse aperta tutta quanta.

— Chi è là? — strillò dalle scale interne un coro numeroso di voci di soprano, consistente nella vecchia zitella direttrice dello stabilimento, in tre maestrine, cinque fantesche e trenta allieve, tutte a metà vestite o spogliate, sotto una foresta bianca e ricciuta di diavoletti di carta.

Naturalmente il signor Pickwick non disse chi era là; e allora il coro delle voci esclamò invece: — Gesù mio, che paura!

— Cuoca! — chiamò la direttrice che se ne stava, ultima del gruppo, in capo alla scala; — cuoca! perchè non scendete un po’ a vedere in giardino?

— Scusate, signora, — rispose la cuoca, — ma davvero che non me la sento.

— Dio buono, che stupida creatura è cotesta cuoca! — esclamarono le trenta allieve.

— Cuoca! — ripetette con grande dignità la signora direttrice, — non rispondete, vi prego. Io vi ordino di scendere nel giardino sul momento.

Qui la cuoca si mise a piangere, e una delle fantesche disse ch’era una vergogna trattarla a quel modo; pel quale atto di ribellione ricevette sopra luogo il suo congedo per la fine del mese.

— Avete inteso, cuoca? — disse la direttrice battendo il piede con impazienza.

— Non avete inteso la vostra padrona, eh? — dissero le tre maestrine.

— Che sfacciata impertinente cotesta cuoca! — esclamarono le trenta allieve.

La sciagurata cuoca, non potendo altrimenti resistere a così strette ingiunzioni, si avanzò di uno o due passi, e tenendo la candela proprio in maniera da non veder nulla, dichiarò che nulla c’era e che avea dovuto essere il vento; e già la porta, dopo di questo, stava per esser richiusa, quando un’allieva più curiosa delle altre, che avea spinto lo sguardo fra i gangheri, mandò uno strillo acutissimo che fece di botto tornar indietro la cuoca, le fantesche e le più ardimentose fra le sue compagne.

— Che cosa ha la signorina Smithers? — domandò la direttrice, mentre la detta signorina Smithers si faceva pigliare da isterismi della forza di quattro signorine.

— Gesù mio, quella cara signorina Smithers! — esclamarono le altre ventinove allieve.

— Oh, l’uomo.... l’uomo.... dietro la porta! — gridava la signorina Smithers.

Non sì tosto ebbe udito questo grido d’allarme, la direttrice si ritirò correndo nella sua camera da letto, chiuse la porta a doppio giro di chiave e venne meno a suo bell’agio. Le allieve e le maestrine e le fantesche scapparono in fretta su per le scale, urtandosi, incespicando, gridando, gettandosi l’una sull’altra, disperandosi, come non avrebbero fatto se fosse stato il finimondo. In mezzo al qual tumulto, il signor Pickwick emerse dal suo nascondiglio e si presentò in mezzo a loro.

— Signorine, care signorine, — disse il signor Pickwick.

— Ah, ci chiama care l’infame! — esclamò la più brutta e vecchia delle tre maestrine.

— Signorine! — riprese con voce più forte il signor Pickwick che il pericolo della situazione rendeva disperato. — Ascoltatemi, signorine. Io non sono un ladro. Voglio la direttrice.

— Ah, mostro feroce! — gridò un’altra maestrina. — Egli vuole la signora Tomkins!

Un urlo di orrore si levò a queste parole.

— Suonate la campana d’allarme, — strillarono a coro una dozzina di voci.

— No, no, per carità! — muggì il signor Pickwick con quanta n’aveva in gola. — Guardatemi. Vi pare ch’io somigli ad un ladro? Prego, care signorine, prego, potete anche se vi piace legarmi mani e piedi o chiudermi in un camerino. Fatemi dire però quel che ho da dire, ascoltatemi, non vi domando altro.

— Come vi siete introdotto nel nostro giardino? — domandò tutta spaurita una delle fantesche.

— Chiamatemi la direttrice, e dirò a lei ogni cosa, ogni cosa! — disse il signor Pickwick, spiegando tutta la forza dei suoi polmoni. — Chiamatela; state buone, vi prego, e chiamatela, e sentirete tutto e saprete tutto.

Fosse per l’aspetto e pei modi del signor Pickwick, fosse la tentazione — così efficace negli animi femminili — di udir qualche cosa ancora avvolta nel mistero, fatto sta che la parte più ragionevole dello stabilimento (non più di quattro per verità) si mostrò alquanto rassicurata e relativamente tranquilla. Fu da loro proposto che il signor Pickwick, come prova della sua sincerità, si costituisse immediatamente in arresto; ed egli avendo consentito ad abboccarsi con la signorina Tomkins dall’interno di un gabinetto dove le allieve esterne appendevano i cappellini e le sacche della colazione, entrò subito in quello e vi fu bravamente rinserrato. Questo fatto rianimò tutte le altre; e dopo che la signorina Tomkins fu fatta prima tornare in sè e poi tornar giù, il colloquio incominciò.

— Che facevate nel mio giardino? — domandò con debole voce la signorina Tomkins.

— Venivo ad avvertire, che una delle vostre signorine sarebbe fuggita questa notte stessa, — rispose dall’interno del gabinetto il signor Pickwick.

— Fuggita! — esclamarono ad una voce la signorina Tomkins, le tre maestrine, le trenta allieve e le cinque fantesche. — E con chi ?

— Col vostro amico, il signor Carlo Fitz-Marshall.

— Mio amico! Io non conosco cotesta persona.

— Bene, il signor Jingle adunque.

— Non ho mai udito questo nome.

— Allora, sono stato tratto in inganno, messo in mezzo, — disse il signor Pickwick. — Sono stato vittima di una cospirazione, di una vilissima cospirazione. Mandate all’Angelo, cara signora, se non aggiustate fede alle mie parole. Mandate all’Angelo e fate domandare del domestico del signor Pickwick, ve ne prego, signora, ve ne scongiuro.

— Dev’essere una persona rispettabile; mantiene un domestico, — disse la signorina Tomkins alla maestrina di calligrafia ed aritmetica.

— Per conto mio, signorina Tomkins, — rispose la maestrina, — credo piuttosto che il suo domestico mantenga lui. Mi pare che sia matto e che l’altro gli debba far da guardiano.

— Penso, signorina Gwyan, che abbiate ragione, — riprese la signorina Tomkins. Mandate subito due fantesche all’Angelo, e che le altre non si movano di qua per nostra sicurezza.

Due fantesche furono subito spiccate per l’Angelo in cerca del signor Samuele Weller; e le altre tre rimasero per proteggere la signorina Tomkins, le tre maestrine e le trenta allieve. E il signor Pickwick si pose a sedere nel suo gabinetto, sotto un boschetto di sacche da colazione, ed aspettò il ritorno delle due messaggiere con tutta la filosofia e la forza d’animo che potette chiamare in suo soccorso.

Trascorse un’ora e mezzo prima che quelle tornassero, e quando furono tornate, il signor Pickwick riconobbe, insieme con la voce del signor Samuele Weller, due altre voci che gli suonarono familiari all’orecchio; ma a chi appartenessero non gli riuscì in alcun modo d’indovinare.

Seguì un brevissimo dialogo. La porta fu aperta. Il signor Pickwick uscì dal suo gabinetto e si trovò alla presenza di tutto lo stabilimento di Westgate House, del signor Samuele Weller.... e del vecchio Wardle col suo futuro genero signor Trundle!

— Mio caro amico, — esclamò il signor Pickwick, andando incontro al signor Wardle e stringendogli la mano; — mio caro amico, vi prego, per amor del cielo, spiegate a questa signora la disgraziata e terribile situazione nella quale mi trovo. Il mio domestico vi avrà detto tutto; ad ogni modo, assicurate questa signora che io non sono nè un ladro nè un pazzo.

— L’ho già detto questo, mio caro amico, l’ho già detto, — rispose il signor Wardle scuotendo la mano destra del signor Pickwick, mentre il signor Trundle scuoteva la sinistra.

— E chiunque dice o ha detto ch’egli lo è, — venne su il signor Weller avanzandosi, — dice una cosa che non è la verità, ma invece al contrario perfettamente l’opposto. E se c’è qui qualcuno che l’ha detto, un uomo solo o dieci uomini, avrò molto piacere di farli capaci del loro errore, in questa medesima camera, se queste rispettabilissime signore vogliono farmi la finezza di ritirarsi e di farli venir su uno alla volta.

— Scagliata così con grande volubilità questa sfida, il signor Weller si diè un pugno nella palma della mano sinistra e strizzò l’occhio piacevolmente all’indirizzo della signorina Tomkins, della quale sarebbe impossibile descrivere il profondo orrore alla sola idea che fosse nei limiti del possibile che degli uomini si trovassero nell’Istituto di Westgate House per nobili signorine.

La spiegazione del signor Pickwick, accennata sulle prime, fu subito compiuta. Ma nè durante il ritorno a casa in compagnia degli amici, nè appresso, quando ei si fu seduto davanti a un buon fuoco per pigliare un boccone di cena, di cui aveva tanto bisogno, fu possibile di cavargli una sola osservazione. Sembrava stordito, pietrificato. Una volta, non più di una volta, si voltò al signor Wardle, e gli domandò:

— Com’è che siete venuto qui?

— Trundle ed io siamo venuti qua per una partita di caccia, — rispose Wardle. — Siamo arrivati ieri sera e fummo molto sorpresi udendo dal vostro domestico che eravate qui anche voi. Mi fa tanto piacere vedervi, — aggiunse il vecchio gioviale, battendogli sulla spalla, — tanto tanto piacere. Andremo a caccia il primo del mese e ci porteremo anche quel caro Winkle che ne farà delle sue, che vi pare?

Il signor Pickwick non rispose verbo; non s’informò nemmeno dei suoi amici di Dingley Dell, e di lì a poco si ritirò nella sua camera da letto, avvertendo Sam che si venisse a prendere la candela quando avrebbe inteso suonare il campanello.

Il campanello suonò e il signor Weller si presentò alla chiamata.

— Sam, — disse il signor Pickwick, cacciando il capo fuori delle lenzuola.

— Signore, — disse Sam.

Il signor Pickwick tacque e Sam smoccolò la candela.

— Sam, — ripetette il signor Pickwick quasi con uno sforzo disperato.

— Signore, — ripetette Sam.

— Dov’è quel Trotter?

— Job, signore?

— Partito, signore.

— Col suo padrone, eh?

— Amico o padrone o altro che sia, certo è che se ne sono andati in compagnia. Fanno un bel pajo, fanno.

— Jingle aveva forse subodorato il mio proposito, e vi fece capitar fra i piedi quel furfante con quella sua storiella, non è così? — disse il signor Pickwick, quasi strozzato dalle sue stesse parole.

— Proprio così, signore, — rispose il signor Weller.

— Era tutto falso naturalmente?

— Tutto, signore. Un tranello co’ fiocchi, signore; una birba come se ne danno poche.

— Non credo, Sam, che ci scapperà di mano così facilmente la prossima volta? — disse il signor Pickwick.

— Non credo, signore.

— Se mai lo incontro di nuovo quel Jingle e dovunque lo trovo, — disse il signor Pickwick, alzandosi a mezzo nel letto e scaraventando un pugno terribile sul suo guanciale, — non solo gli strapperò la maschera come ei si merita ma gli infliggerò un personale castigo, lo giuro, Sam. Lo giuro, o non mi chiamo più Pickwick.

— E dovunque mi verrà fatto di acchiappare quel figuro piagnucoloso coi capelli unti, — disse Sam, — se non gli fo scorrere delle lagrime sul serio dagli occhi, non mi chiamate più Weller. Buona notte, signore.