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Tragelaphus sylvaticus

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Tragelafo meridionale
Stato di conservazione
Rischio minimo[1]
Classificazione scientifica
DominioEukaryota
RegnoAnimalia
PhylumChordata
ClasseMammalia
OrdineArtiodactyla
FamigliaBovidae
SottofamigliaBovinae
TribùTragelaphini
GenereTragelaphus
SpecieT. sylvaticus
Nomenclatura binomiale
Tragelaphus sylvaticus
(Sparrman, 1780)

Il tragelafo meridionale (Tragelaphus sylvaticus Sparrman, 1780), noto anche come bushbuck (dal termine afrikaans bosbok, cioè «antilope della boscaglia») o con il nome zulu di imbabala, è un'antilope di media taglia ampiamente diffusa nell'Africa subsahariana,[2][3] dove è presente in una grande varietà di habitat, come foreste pluviali, foreste montane, mosaici di foresta/savana, savane, bushveld e steppe arbustive.[3] Fino a poco tempo fa, con le sue quattro sottospecie veniva classificato insieme al tragelafo settentrionale (T. scriptus) in una specie unica, il tragelafo striato, ma le ricerche genetiche hanno dimostrato l'esistenza di due specie criptiche.

Antilope derbiana

Antilope alcina

Cudù maggiore

Nyala di montagna

Bongo

Sitatunga

Tragelafo meridionale

Tragelafo settentrionale

Nyala

Cudù minore

Albero filogenetico dei Tragelaphini (Willows-Munro et al., 2005)

La tassonomia del tragelafo striato, e della tribù Tragelaphini in generale, è sempre stata oggetto di dibattito: occupando un areale tanto vasto, il tragelafo ha dato origine a un gran numero di varianti geografiche e nell'arco degli anni ne sono state descritte oltre 40 sottospecie. Per fare chiarezza, nel 2009 Moodley et al. hanno analizzato il DNA mitocondriale di un gran numero di campioni museali, che sono stati riconodotti a 19 gruppi distinti, alcuni corrispondenti a sottospecie precedentemente descritte, altri appartenenti a razze finora non riconosciute che sono rimaste senza nome. I 19 gruppi sono stati poi ripartiti in due grandi raggruppamenti distinti, settentrionale (scriptus) e (sylvaticus). Secondo Moodley et al., i maschi del gruppo scriptus, dell'Africa occidentale, sarebbero più spesso striati rispetto agli esemplari dell'Africa meridionale e orientale,[3] anche se non è sempre così: tuttavia, anche nella descrizione originaria di T. sylvaticus fatta da Sparrman nel 1780 a partire da un esemplare proveniente dalla regione del Capo, non viene fatta alcuna menzione di striature.

Nel 2011, Groves e Grubb hanno proposto di suddividere il tragelafo striato in otto specie – T. scriptus (Pallas, 1766), T. phaleratus (Hamilton Smith, 1827), T. bor Heuglin, 1877, T. decula (Rüppell, 1835), T. meneliki Neumann, 1902, T. fasciatus Pocock, 1900, T. ornatus Pocock, 1900 e T. sylvaticus (Sparrman, 1780) – sempre ripartite in due «gruppi», settentrionale e meridionale, proprio come aveva fatto precedentemente Moodley.[4] L'unica differenza riguardava il tragelafo di Menelik, endemico degli altopiani dell'Etiopia, che Moodley poneva nel gruppo meridionale e Groves e Grubb in quello settentrionale. Tuttavia, come in gran parte della loro opera di revisione della tassonomia degli ungulati, Groves e Grubb si sono basati principalmente sulla geografia e sulla colorazione del mantello per istituire le loro nuove «specie», piuttosto che sulla genetica,[5] e il loro lavoro non è stato riconosciuto dalla maggior parte degli autori.[6]

Nel 2018, Hassanin et al. hanno pubblicato uno studio filogenetico molecolare che ha fornito supporto alla separazione del tragelafo striato nelle due specie scriptus e sylvaticus, in quanto le due forme si sarebbero separate tra loro almeno 2 milioni di anni fa e presentano entrambe una notevole diversità genetica all'interno.[7]

Areali delle sottospecie fasciatus, meneliki, ornatus e sylvaticus

Attualmente le quattro sottospecie riconosciute di tragelafo meridionale sono:

  • T. s. fasciatus Pocock, 1900, diffusa nell'Etiopia sud-orientale, in Somalia, nel Kenya orientale e nella Tanzania nord-orientale. In Somalia è ristretta alle regioni rivierasche lungo i fiumi Giuba e Uebi Scebeli e attorno ai laghi Bush Bush e Anole;[8]
  • T. s. meneliki Neumann, 1902, endemica dell'Etiopia e presente nelle foreste di alta quota dei distretti di Chercher, Din Din e Arussi, delle montagne di Bale, nelle montagne dello Scioa occidentale e degli altopiani della regione di Ilubabor;[9]
  • T. s. ornatus Pocock, 1900, diffusa nella Repubblica Democratica del Congo meridionale, nelle regioni occidentali di Burundi e Tanzania, in Angola (ad eccezione dell'angolo sud-occidentale del Paese), nello Zambia, nel Malawi, nell'angolo nord-occidentale del Mozambico e nelle regioni centro-occidentali del Paese, nella Namibia nord-orientale (Dito di Caprivi) e nelle regioni settentrionali di Botswana e Zimbabwe;[10]
  • T. s. sylvaticus (Sparrman, 1780), la sottospecie più ampiamente diffusa, presente nell'estremità meridionale del Sudan del Sud, nell'Uganda orientale, nel Kenya occidentale, nelle regioni orientali di Ruanda e Burundi, in Tanzania, nel Malawi meridionale, nel Mozambico, nello Zimbabwe centrale e meridionale, nel Botswana orientale, nell'eSwatini e nel Sudafrica orientale e meridionale. Una particolare popolazione, considerata in passato una sottospecie a sé (T. s. barkeri), vive nell'area compresa tra il Sudan del Sud orientale (monti Imatong) e la Tanzania e in Kenya.[11]
Primo piano di un maschio nel Kruger National Park

Il tragelafo meridionale presenta una lunghezza testa-corpo di 117-145 cm nei maschi e di 114-132 cm nelle femmine; l'altezza al garrese è di 64-100 cm per i primi e di 61-85 cm per le seconde, il peso rispettivamente di 40-80 kg e di 24-60 kg; la coda è lunga 19-24 cm. Le corna, presenti solo nei maschi, misurano 25-55 cm.[11]

È un'antilope di medie dimensioni, più grande del suo cugino settentrionale. Presenta una grande variazione per quanto riguarda il colore e il disegno del mantello: i maschi più anziani vanno dal marrone scuro al bruno-nerastro, con i fianchi grigiastri, la regione dorsale più castana, solo poche macchie sui quarti posteriori e talvolta sul ventre, e strisce trasversali o longitudinali poco accentuate o addirittura assenti. La testa è di un marrone più chiaro, con la fronte scura, una striscia nera sul naso e due macchie suborbitali bianche. Sulla gola si trova una macchia bianca e altre macchie dello stesso colore, solitamente indistinte, si trovano sul muso e sulle cosce. La coda è folta, relativamente corta, e bianca nella parte inferiore. Le corna sono corte e quasi diritte: divergono solo leggermente e sono fortemente carenate, con un'unica torsione stretta.[11]

La femmina, più piccola e priva di corna, ha un manto di colore fulvo scuro con disegni bianchi simili, che si fa più chiaro sulle spalle e sugli arti anteriori.[12]

Un maschio con evidenti striature nel Kruger National Park
Femmina e piccolo nel Kruger National Park

Distribuzione e habitat

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Il tragelafo meridionale occupa un areale molto esteso, che dal Capo di Buona Speranza, in Sudafrica, arriva fino all'Angola e allo Zambia, per poi risalire lungo la parte orientale dell'Africa fino all'Etiopia e alla Somalia.[13] Vive nelle foreste aperte, nelle steppe arbustive e nelle zone di miombo, in prossimità di fonti d'acqua permanente. In Etiopia la sottospecie meneliki si spinge anche al di sopra della linea degli alberi, fino a 4000 metri di quota.

I tragelafi si alimentano brucando da alberi e arbusti; solo raramente si nutrono di erba. Gli studi su esemplari in libertà in varie parti dell'Africa sud-orientale mostrano che si nutrono soprattutto di acacie (Senegalia, Vachellia) e altre leguminose, assieme a malvacee (Grewia, Hibiscus), combretacee (Combretum), ramnacee (Berchemia, Ziziphus) e varie altre piante.[14][15] Sono attivi tutto il giorno, ma tendono ad assumere abitudini notturne vicino agli insediamenti umani.

I tragelafi sono animali solitari, ma non sono del tutto asociali e più individui talvolta si alimentano nelle immediate vicinanze.[16] Ogni esemplare occupa un'area vitale, dalla quale in genere non si allontana mai, che misura circa 50000 m² nelle aree di savana e un'estensione molto più grande in quelle di foresta. Queste aree di solito si sovrappongono alle aree vitali di altri tragelafi.

Alcuni allevatori di grossa selvaggina dell'Africa australe hanno scoperto che il tragelafo può entrare in competizione con un suo stretto parente più grande, il nyala, quando hanno cercato di introdurre le due specie nello stesso recinto. Tuttavia, in natura, le due specie spesso vivono a stretto contatto tra loro (ad esempio nel parco nazionale di Gorongosa, in Mozambico).[17]

  1. ^ (EN) IUCN SSC Antelope Specialist Group. 2016, Tragelaphus scriptus, su IUCN Red List of Threatened Species, Versione 2020.2, IUCN, 2020.
  2. ^ T. Wronski e Y. Moodley, Bushbuck, harnessed antelope or both? (PDF), in Gnusletter, vol. 28, n. 1, 2009, pp. 18-19. URL consultato il 23 maggio 2024 (archiviato dall'url originale l'8 luglio 2011).
  3. ^ a b c Y. Moodley et al., Analysis of mitochondrial DNA data reveals non-monophyly in the bushbuck (Tragelaphus scriptus) complex, in Mammalian Biology, vol. 74, n. 5, settembre 2009, pp. 418-422, DOI:10.1016/j.mambio.2008.05.003. URL consultato il 7 aprile 2021.
  4. ^ Colin Groves e Peter Grubb, Ungulate Taxonomy, JHU Press, 15 novembre 2011-11-15, ISBN 978-1-4214-0093-8.
  5. ^ C. Groves e P. Grubb, Ungulate Taxonomy, The Johns Hopkins University Press, 2011.
  6. ^ R. Heller, P. Frandsen, E. D. Lorenzen e H. R. Siegismund, Are there really twice as many bovid species as we thought?, in Systematic Biology, vol. 62, n. 3, 2013, pp. 490-493, DOI:10.1093/sysbio/syt004, PMID 23362112.
  7. ^ Alexandre Hassanin, Marlys L. Houck, Didier Tshikung, Blaise Kadjo, Heidi Davis e Anne Ropiquet, Multi-locus phylogeny of the tribe Tragelaphini (Mammalia, Bovidae) and species delimitation in bushbuck: Evidence for chromosomal speciation mediated by interspecific hybridization, in Molecular Phylogenetics and Evolution, vol. 129, 1º dicembre 2018, pp. 96-105, DOI:10.1016/j.ympev.2018.08.006, ISSN 1055-7903 (WC · ACNP), PMID 30121341.
  8. ^ J. R. Castelló, Eastern Coastal Bushbuck, in Bovids of the Word, Princeton University Press, 2016, pp. 590-591.
  9. ^ J. R. Castelló, Menelik's Bushbuck, in Bovids of the Word, Princeton University Press, 2016, pp. 592-593.
  10. ^ J. R. Castelló, Chobe Bushbuck, in Bovids of the Word, Princeton University Press, 2016, pp. 586-587.
  11. ^ a b c J. R. Castelló, Cape Bushbuck, in Bovids of the Word, Princeton University Press, 2016, pp. 588-589.
  12. ^ Bushbuck, su African Wildlife Foundation. URL consultato il 28 giugno 2008.
  13. ^ Y. Moodley e M. W. Bruford, Molecular biogeography: Towards an integrated framework for conserving pan-African biodiversity, su PLoS ONE, 2007, p. 2:e454.
  14. ^ Justine L. Atkins, Ryan A. Long, Johan Pansu, Joshua H. Daskin, Arjun B. Potter, Marc E. Stalmans, Corina E. Tarnita e Robert M. Pringle, Cascading impacts of large-carnivore extirpation in an African ecosystem, in Science, vol. 364, n. 6436, 12 aprile 2019, pp. 173-177, Bibcode:2019Sci...364..173A, DOI:10.1126/science.aau3561, ISSN 0036-8075 (WC · ACNP), PMID 30846612.
  15. ^ Johan Pansu, Matthew C. Hutchinson, T. Michael Anderson, Mariska te Beest, Colleen M. Begg, Keith S. Begg, Aurelie Bonin, Lackson Chama, Simon Chamaillé-Jammes, Eric Coissac, Joris P. G. M. Cromsigt, Margaret Y. Demmel, Jason E. Donaldson, Jennifer A. Guyton e Christina B. Hansen, The generality of cryptic dietary niche differences in diverse large-herbivore assemblages, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 119, n. 35, 30 agosto 2022, pp. e2204400119, Bibcode:2022PNAS..11904400P, DOI:10.1073/pnas.2204400119, ISSN 0027-8424 (WC · ACNP), PMC 9436339, PMID 35994662.
  16. ^ Richard Estes, The Behavior Guide to African Mammals: Including Hoofed Mammals, Carnivores, Primates, University of California Press, 1991, ISBN 978-0-520-08085-0.
  17. ^ Joshua H. Daskin, Justine A. Becker, Tyler R. Kartzinel, Arjun B. Potter, Reena H. Walker, Fredrik A. A. Eriksson, Courtney Buoncore, Alexander Getraer, Ryan A. Long e Robert M. Pringle, Allometry of behavior and niche differentiation among congeneric African antelopes, in Ecological Monographs, vol. 93, 22 settembre 2022, DOI:10.1002/ecm.1549, ISSN 0012-9615 (WC · ACNP).

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