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Alruna di Cham

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Beata Alruna di Cham

Religiosa

 
NascitaVohburg an der Donau, 990 circa
MorteNiederalteich, 27 gennaio 1045
Venerata daChiesa cattolica
Ricorrenza27 gennaio (27 dicembre su alcuni calendari)[1][2]

Alruna di Cham (Vohburg an der Donau, 990 circa – Niederalteich, 27 gennaio 1045) è stata una religiosa tedesca, venerata come beata dalla Chiesa cattolica[1][2].

Statua della beata Alruna (a destra) su un altare laterale della chiesa di San Giacomo a Cham

Alruna nacque nel castello di Vohburg, in Baviera, all'interno della famiglia nobiliare dei margravi di Cham[1]; secondo alcune biografie era figlia di un certo Berchtold, e aveva tre fratelli di nome Alram, Albert e Walsham[3]; andò in sposa al conte Mazalin (o Marzelin) von Portis, da cui ebbe un figlio[1]. Era nota per la carità verso i poveri, a cui donava cibo e vestiti, e per la mortificazione del corpo, e aveva inoltre due servitori personali, un maggiordomo di nome Wilhelm e una domestica di nome Mechtildis, anch'essi di simile fama[3].

Dopo essere rimasta vedova, convertì il proprio castello in un ospedale per poveri, e andò a vivere nell'abbazia benedettina di San Maurizio a Niederalteich, dove prese i voti come reclusa[1][3]; qui acquisì fama di saggezza e conoscenza spirituale e venne molto cercata per avere consiglio[1].

Morta nel 1045 a seguito di una febbre molto violenta, venne sepolta sotto l'altare di sant'Osvaldo all'interno dell'abbazia[1][3].

Una breve Vita di Alruna venne scritta da un monaco del monastero di Nederaltaich nel XIII secolo[2]. Le sue reliquie furono traslate nell'altare dei santi Enrico e Cunegonda, sempre nella chiesa abbaziale, il 16 settembre 1731; nel 1800, a seguito di un incendio, vennero ulteriormente spostate in un reliquiario di vetro[1].

La beata è considerata patrona delle donne incinte, ed invocata per guarire dalla febbre[1].

  1. ^ a b c d e f g h i (EN) Blessed Alruna of Cham, su CatholicSaints.Info. URL consultato il 29 dicembre 2019.
  2. ^ a b c Beata Alruna, su Santi, beati e testimoni. URL consultato il 29 dicembre 2019.
  3. ^ a b c d Klämpfl, pp. 67-68.