sabato 9 novembre 2024

I grandi emergono anche da dietro le quinte

Ci sono grandi artisti che sanno di essere tali e non hanno bisogno di sottolinearlo.



Spesso cantanti, attori, scrittori, pittori ecc., non perdono l’occasione di sottolineare, a parole o con determinati comportamenti, quanto siano bravi, belli, eccezionali, fino a volerci convincere che sono una sorta di divinità.

In questo caso mi riferisco ai musicisti nel corso di un evento live, ad un concerto di Tizio, Caio o Sempronio, capita che venga annunciato un ospite particolare, in quasi la totalità dei casi l’ospite viene accolto con grande (anche se non sempre) enfasi, ma durante l’esibizione non deve mai mettersi “davanti” alla divinità titolare della manifestazione, la può affiancare, se l’ospite è di fama internazionale, altrimenti deve stare mezzo passo indietro.

L’eccezione, perché deve sempre esserci l’eccezione se vogliamo confermare tutto ciò, è Eric Clapton. Più volte ho notato, guardando moltissimi video che lo ritraggono dal vivo, il grande musicista britannico fare un passo indietro rispetto a chi lo ospita ad un concerto ma soprattutto agli ospiti che lui stesso invita alle sue esibizioni.

Nel video che vi propongo Clapton, siamo nel 1999, invita sul palco Tracy Chapman dove, in un delizioso duetto, propongono Give one reason, brano della stessa cantautrice americana.

La Chapman è già famosissima, da anni è entrata nel club delle stelle mondiali della musica ma Eric Clapton è qualcosa di estremamente più grande, se non altro per la carriera più lunga.

Nonostante tutto questo Eric sta sempre un passo dietro Tracy, la affianca solo quando anche lui deve cantare tornado però nelle retrovie subito dopo, lasciando la scena all’ospite.

Questo mio scritto può sembrare di poco conto (e probabilmente lo è) ma volevo sottolineare che la grandezza di un artista emerge indipendentemente dal fatto che ce lo faccia sempre presente, infatti in questo video Clapton non ha bisogno di offuscare la Chapman per mettersi in luce, la sua esibizione con la chitarra è immensa, il suo compito è quello di fare da cornice alla cantante nel modo migliore, un compito che solo i grandi sanno portare a termine senza necessariamente essere, fisicamente, al centro della scena.

mercoledì 30 ottobre 2024

Cornici, esaltazione o prigione dell'arte?

Cornici si, cornici no, cornici … dipende.

Al di là dei gusti personali che indirizzano da una parte o dall’altra è necessaria la cornice per un dipinto o per una stampa fotografica? Qual è il confine che divide la cornice che “completa il quadro” e quella che lo sovrasta, finendo per sminuirne il valore estetico e artistico?


Vincent Van Gogh - Autoritratto, 1889 – Olio su tela cm 65 x 54 – Museo d’Orsay, Parigi 


Nella maggior parte dei casi trovo che le cornici siano più un intralcio che un completamento, naturalmente in un ambiente privato è il gusto del proprietario ad avere la precedenza, ma in una pinacoteca certe cornici, in particolare quelle antiche di un certo valore storico e di eccelsa fattura, non vanno d’accordo con il dipinto a cui sono abbinate.

Qui subentra in effetti il gusto personale, trovo che cornici lignee “importanti” soffochino il dipinto, la loro pesantezza (e non mi riferisco al peso specifico) impedisce la libertà espressiva dell’opera d’arte che viene rinchiusa in un recinto troppo stretto impedendone anche il minimo “movimento”.

Un quadro senza cornice però non sempre riesce ad esprimersi interamente, le tele contemporanee riescono a farne a meno, quelle più “datate” fanno più fatica, le fotografie ne hanno bisogno, a patto che non prendano il sopravvento.

Mi è capitato di osservare dei dipinti (o meglio la loro riproduzione fotografica) in rete o, meglio ancora, stampati su volumi, normalmente li vediamo senza cornici e questo ci porta ad intraprendere un percorso visivo specifico, quando le stesse opere le vediamo dal vivo con tanto di cornice la percezione cambia completamente.

Mentre il passaggio dalla riproduzione alla visione “live” è, nella maggiorana dei casi, un passo avanti, spesso succede il contrario (almeno è quello che succede a me) quando cornici eccessive sovrastano il dipinto, in questo caso può sopraggiungere quella sensazione di delusione nonostante il quadro sia tutt’altro che deludente.

Ho provato ad accennare questo mio pensiero ad un curatore di un piccolo museo ma mi sono trovato davanti a un muro, alla mia domanda: “le cornici possono modificare la percezione dei dipinti?” la risposta è stata: “se il dipinto di una determinata epoca ha quella cornice noi dobbiamo prenderlo in considerazione cosi com’è”. A nulla è servito sottolineare che spesso la cornice è stata aggiunta a posteriori senza che l’artista abbia avuto voce in capitolo (e questo ribalta completamente il concetto del suddetto esperto) va detto, in tutta onestà, davanti ad un’opera di Monet (si trattava di una mostra temporanea) che il curatore ha ammesso che la cornice nulla aveva in comune con il dipinto, in effetti ne era soffocato, ma che andava esposto cosi perché la cornice aveva la stessa età della tela.

Altra cosa che mi piace prendere in considerazione è la moda che ha preso piede negli ultimi anni, quella di appendere alle pareti cornici vuote, in questo caso si tratta di pura decorazione, il concetto iniziale, tutt'altro che banale, emerso da una cornice senza quadro si è consumato nella ripetizione, ha perso ogni valenza artistica, la moltiplicazione di questi manufatti ha cancellato l’aspetto visionario trasformandolo in una banale consuetudine.

Riassumendo, le cornici incidono non poco sulla percezione di un dipinto (fotografia) sia essa positiva o negativa, un quadro senza cornice è libero di esprimersi senza "barriere", anche se spesso la giusta cornice lo completa, la cornice senza quadro ...


mercoledì 23 ottobre 2024

Scortesia, maleducazione e altri problemi, i musei italiani e la svolta che non arriva.

Se vi capita di leggere le recensioni di un qualsiasi museo italiano non vi sfuggiranno le molteplici critiche riferite alla scortesia degli addetti, alla cassa, nelle sale e al bookshop.

Harry Rutherford -The Custodian

È innegabile che lo stesso potrebbero dire gli impiegati riguardo ai visitatori ma forse sarebbe il caso di saper distinguere il cafone dalla persona educata.

Le recensioni sopracitate sono solo lo spunto del mio ragionamento, la mancanza di cortesia e spesso la maleducazione, le ho verificate personalmente e non si limitano a poche eccezioni.

Nel mio caso più che alla cassa o nella “libreria” è nelle sale che si riscontra il problema, tra i vari musei che ho recentemente visitato l’esempio più lampante è alla pinacoteca dell’Accademia Carrara a Bergamo, le sale sono sorvegliate da giovani provenienti dall’accademia stessa, spocchiosi, arroganti, presuntuosi, che guardano tutti dall’alto in basso pensando che il solo fatto di studiare all’accademia li renda superiori a chiunque, se poi qualcuno si azzarda a fare una semplice domanda ti guardano infastiditi e sgarbatamente di rispondono che hanno altro a cui pensare (se li si osserva attentamente ignorando il fastidio della loro maleducazione si capisce che non rispondono perché di tutto ciò che è esposto non capiscono alcunché).

Il problema è lo stesso per tutti musei, chi più chi meno, la vigilanza nelle sale è assegnata a studenti impreparati, poco competenti e, soprattutto, malpagati (spesso nemmeno quel poco) inoltre sotto organico con orari assurdi, questo porta i giovani a svolgere le mansioni assegnate senza lo stimolo giusto, di malavoglia.

Non va dimenticato però il pessimo comportamento di alcuni visitatori, non sono a favore dei musei ultra silenziosi, non siamo in un luogo di culto, ma trovo fastidiosi gli schiamazzi, gente che parla ad alta voce al cellulare, davanti alle opere persone con lo smartphone alzato per improbabili fotografie e gli immancabili selfie, fino al problema più grave dato dal visitatore poco interessato (non si capisce perché ci sia andato) che si avvicina troppo alle opere, non per studiarle da vicino ma rischia di urtarle perché sta “giocando” con gli amici. Vanno aggiunte le devastanti code, spesso non regolamentate, all’entrata dei musei più celebri.

Il sistema museale italiano ha non pochi problemi, prezzi in continua ascesa, sale strapiene, in particolare nel caso di mostre dedicate agli artisti più noti (dove la metà della gente non si sa come ci sia finita) personale non preparato e un’isteria collettiva che sfocia nella maleducazione.

Per completare l’opera ultimamente ha preso piede l’abitudine di mettere il grande nome sulla locandina per poi esporre nelle sale altri artisti che “si ispirano a …”.

Questo non significa che tra i lavoratori nei musei e tra il pubblico non vi siano persone educate e in grado di fare il proprio lavoro anzi, si tratta della maggioranza, ma la tendenza è al peggioramento (come in ogni settore) ed è questa tendenza che andrebbe invertita.


martedì 15 ottobre 2024

"Tu sei quella che paga di più"

Artemisia Gentileschi – Susanna e i vecchioni (part.), 1610 – Olio su tela cm 170 x 119 – Collezione Graf von Schönbom, Pommersfelden


 

Siamo nel 1977, Edoardo Bennato pubblica l’album che l’ha reso celebre, Burattino senza fili è  un concept album che parte da un soggetto di fantasia per raccontare le tematiche di quegli anni.

L’album riprende Le avventure di Pinocchio e le utilizza metaforicamente per mettere in luce alcuni aspetti dell’epoca, le problematiche del mercato discografico (Il gatto e la volpe) l’impatto della cultura sulla società (Dotti, medici e sapienti) la coscienza (Tu grillo parlante) la condizione femminile (La fata).

Ed è proprio di quest’ultimo brano che voglio parlarvi, probabilmente uno dei più belli dell’intera discografia del cantautore napoletano, una poesia amara che, partendo dal dolce sapore musicale, ci mette in guardia (o meglio mette in guardia le donne) dalla falsità delle percezioni maschili di quegli anni, che poi non sono diverse da quelle di oggi a quasi cinquant’anni di distanza.

Il testo parte da un ribaltamento dei personaggi, Pinocchio diventa il maschio adulto “dominante”, la Fata si trasforma nella giovane e ingenua fanciulla ammaliata dal “principe azzurro”, mito che inizia a sgretolarsi proprio negli anni settanta con la presa di coscienza femminista ma che è ancora inconsapevolmente forte.

Ci sono vari modi di ascoltare questo pezzo, lasciarsi cullare dalla melodia dando poco peso alle parole, anche se il ritornello ci “sveglia” e tenta di metterci sulla giusta via, o concentrarci sul testo poeticamente tragico, dove la musica rende il tutto tristemente malinconico.

Possiamo prendere ogni strofa ed interpretarla, non credo che le “letture” di ognuno di noi possano differire se non per piccole sfumature che la sensibilità soggettiva ci porta a cogliere o, al contrario, ci possono sfuggire, il senso penso non si possa travisare, anche nella sua ammaliante vena poetica il messaggio è chiarissimo.

Alcuni passaggi sono apparentemente contrastanti ma tutto fila alla perfezione, lui “Farà per te qualunque cosa” ma tutto ha un prezzo, la freschezza, la bellezza della gioventù sono destinate a cedere il passo, l’inizio è passione dove la “fata” può chiedere e ottenere ciò che vuole ma poi …

Lascio a voi la lettura di questa poesia ma soprattutto vi lascio all’ascolto di un brano meraviglioso, ognuno coglierà ciò che “sente”.  

La fata

C'è solo un fiore in quella stanza
E tu ti muovi con pazienza
La medicina è amara ma
Tu già lo sai che la berrà

Se non si arrende tu lo tenti
E sciogli il nodo dei tuoi fianchi
Che quel vestito scopre già
Chi coglie il fiore impazzirà

Farà per te qualunque cosa
E tu sorella madre e sposa
E tu regina o fata tu
Non puoi pretendere di più

E forse è per vendetta
E forse è per paura
O solo per pazzia
Ma da sempre
Tu sei quella che paga di più
Se vuoi volare ti tirano giù
E se comincia la caccia alle streghe
La strega sei tu

E insegui sogni da bambina
E chiedi amore e sei sincera
Non fai magie, né trucchi, ma
Nessuno ormai ci crederà

C'è chi ti urla che sei bella
Che sei una fata, sei una stella
Poi ti fa schiava, però no
Chiamarlo amore non si può

E forse è per vendetta
E forse è per paura
O solo per pazzia
Ma da sempre
Tu sei quella che paga di più
Se vuoi volare ti tirano giù
E se comincia la caccia alle streghe
La strega sei tu

C'è chi ti esalta, chi ti adula
C'è chi ti espone anche in vetrina
Si dice amore, però no
Chiamarlo amore non si può

Si dice amore, però no
Chiamarlo amore non si può

martedì 8 ottobre 2024

Lo spirito della terra

 

Henri Rousseau – L’incantatrice di serpenti, 1907 - Olio su tela cm 196 x 189,5 - Musée d’Orsay, Parigi


Rousseau era particolarmente legato a Robert Delaunay, anch’gli pittore, di cinquant’anni più giovane e grande ammiratore dell’arte del “doganiere”.

Questo dipinto è la testimonianza di questo legame, la madre del giovane artista parigino intratteneva gli ospiti circondata da numerose piante dalle grandi foglie, sovente raccontava del suo viaggio in India con dovizia di particolari sulla fauna e sulla flora locale, la donna, esortata dal figlio, commissionò questo dipinto a Rousseau che nel frattempo era diventato amico della famiglia, i racconti della signora Delaunay e le piante che riempivano la casa hanno senza dubbio influenzato la visione di Rousseau.

L’opera non ci mostra una giungla infida, pericolosa, al contrario, nonostante i toni cupi, sembra la rappresentazione di un luogo magico, di pace, dove ad emergere è l’aspetto spirituale.

Nella parte sinistra vediamo un corso d’acqua leggermente increspato sulla cui riva troviamo un volatile dall’aria serena, nulla sembra turbarlo.

Nella parte destra c’è la giungla, scura intricata mentre in primo piano, con toni più chiari, troviamo quelle piante a foglia larga che ornavano il salotto dei Delaunay.

Fuori dalla fitta vegetazione ma a stretto contatto con gli alberi ecco la protagonista del dipinto, una figura in ombra, con un serpente sulle spalle, suona un flauto, unica cosa distinguibile assieme agli occhi che fissano l'osservatore, la cui melodia ammansisce e chiama a sé i serpenti, anche questi ultimi in ombra.

È proprio questo tipo di  rappresentazione della donna e dei serpenti che rende tutto magico, incorporeo, spirituale appunto.

L’incantatrice non è un demone, una strega, è una presenza benigna, legata alla madre terra, un’entità “alta” che custodisce gli spiriti della foresta.

Il quadro fu particolarmente ammirato dai surrealisti, Max Ernst realizzo un dipinto dove è innegabile il legame con quest’opera.

Una delle figure più importanti del movimento surrealista, André Breton, negoziò personalmente la vendita del dipinto quindici anni dopo la sua realizzazione.

lunedì 30 settembre 2024

Premonizione o/e provocazione

 

Paul Cézanne - Una moderna Olympia, 1873-74 - Olio su tela cm 46 x 55 - Musée d’Orsay, Parigi


Realizzato una decina di anni dopo la celebre Olympia di Manet ha come obbiettivo la rivisitazione, velatamente polemica, dell’opera “originale”, Cezanne diede vita al dipinto, secondo Paul-Louis Gachet, dopo una discussione che il pittore ebbe con l’amico Paul Gachet, padre di Paul-Luis.

Davanti alla venerazione provata da Gachet di fronte all’opera di Manet, Cézanne polemicamente ribadì di essere in grado di rifarla in modo più irriverente.

Rispetto al dipinto di Manet quello di Cezanne appare più etereo, Olympia sembra fluttuare su una nuvola, impressione accentuata dalla posizione del letto della giovane donna, decisamente più in alto rispetto al cliente seduto in attesa.

La domestica scopre il velo che celava la ragazza enfatizzando l’apparizione quasi celestiale, l’uomo, evidentemente un autoritratto, è seduto sul sofà in dignitosa ma trepidante attesa, investito dalla manifestazione quasi incorporea.

Un incontro-scontro tra la materia e lo spirito, un soggetto che non poteva essere esente da discussioni.

Al contrario della protagonista del quadro di Manet L’Olympia di Cézanne sembra più insicura quasi timorosa, forse più “umana”, particolare che, più di altri, rende la scena decisamente realistica, in contraddizione con l’effetto evanescente.

Nel 1874 il pittore provenzale decide di esporre il quadro alla prima mostra impressionista nello studio del fotografo Nadar, il risultato è quello che si aspettava.

Il celebre critico Leroy, che divenne famoso, suo malgrado, per la recensione di “Impressione solei levant” di Monet (ne ho perlato qui) ci tiene a farsi riconoscere e stronca, deridendo e non argomentando, l’opera: “… una donna piegata in due cui una negra toglie l’ultimo volo per offrirla in tutta la sua bruttezza agli occhi incantati un fantoccio di un fantoccio […] Vi ricordate dell’Olympia di Manet? Ebbene era un capolavoro di disegno a paragone di quella di Cézanne”.

Le stroncature di Leroy sono la conferma che si è sulla strada giusta, quest’opera di Cézanne ne traccia una fondamentale, spesso si dice che il tempo confermerà o smentirà ciò che viene fatto, in questo caso il verdetto è inequivocabile (nonostante o per merito, di certi critici).

domenica 22 settembre 2024

E se ...

Cercando qualcosa da vedere sulla piattaforma streaming di Amazon, scorrendo tra le pellicole catalogate nella categoria “Shi-fi”, mi sono imbattuto, casualmente, in un film del 2007 il cui titolo “L’uomo venuto dalla terra” non invogliava certo alla visione.


Sarà il destino, sarà il caso, fatto sta che ho iniziato a guardarlo e posso dire di dover ringraziare suddetta scelta.

Di fantascientifico ha poco, niente alieni, niente astronavi, nessun viaggio spaziale, assenza totale di effetti speciali.

Con un budget di soli 200 000 dollari il regista newyorkese Richard Schenkman da vita ad un viaggio nel tempo, nella storia, nella filosofia.

Praticamente tutto il film è girato in una stanza, solo alcune scene iniziali e finali sono all’esterno, otto i personaggi che dividono lo spazio, null’altro.

Il film inizia con il protagonista, John Oldman, che si appresta a caricare degli scatoloni su un pik-up, pronto evidentemente a lasciare l’abitazione alle sue spalle, in quel frangente arrivano alcuni amici, docenti accademici come John, che giungono per un ultimo saluto, un biologo, una teologa, Sandy una dottoressa innamorata del protagonista e un antropologo.

Mentre gli amici, che hanno portato cibo e bevande per celebrare la partenza, stanno aiutando John a caricare i bagagli a Edith non sfugge un quadro che ricorda lo stile di Van Gogh ma il cui soggetto è sconosciuto, dietro il dipinto una dedica: “Al mio amico Jaques Borne”. Il dottor Oldman sostiene di averlo acquistato da un rigattiere.

Il gruppo entra in casa per consumare le vettovaglie e brindare alla partenza del collega, poco dopo vengono raggiunti da Art, un archeologo accompagnato da una giovane studentessa.

Tra una battuta ed un’altra gli amici di John insistono per sapere il motivo di questa sua partenza improvvisa, inizialmente nega che ci siano problema particolari che lo portano ad andarsene in fretta ma dopo una pressante insistenza John svela il motivo che lo induce ad andarsene e lo fa con una domanda: “e se supponessimo che un uomo del paleolitico fosse sopravvissuto fino ai giorni nostri?”.

Pensando che l’amico si stia divertendo, magari impostando una futura scrittura di un romanzo di fantascienza, il gruppo inizia ad avanzare alcune tesi, più o meno plausibili, quando però John sostiene che quell’uomo è lui …

Come dicevo niente effetti speciali, solo un dialogo serrato tra i membri della compagnia, discussioni accese, qualche litigio al punto che Art, in un momento di distrazione di John, chiama al telefono un altro insegnate loro amico, uno psicologo che a breve, si unirà alla compagnia.

Ottanta minuti dove le più svariate teorie, confutate o avvalorate dall’uomo millenario, scorrono davanti allo spettatore che viene catturato dall’impostazione filosofica del viaggio, dove il tempo diviene relativo e la concezione della storia e del presente perdono alcune delle certezze che sembravano assodate.

La pellicola certamente è tutt’altro che perfetta, se la sceneggiatura è superba non si può dire lo stesso della fotografia e anche la scenografia non è eccelsa.

La recitazione è buona, in caso contrario il film sarebbe stato inguardabile, con punte più elevate di altre, probabilmente il doppiaggio italiano ha abbassato leggermente il livello anche se è comunque accettabile.

Il concetto alla base del film è il vero punto di forza, certo era difficile portare questa storia sullo schermo senza rischiare la noia, pericolo scongiurato proprio grazie agli attori.

La storia nasce dalla mente di Jerome Bixiby, che pensò a questo racconto fin dagli anni sessanta e che dettò al figlio nel 1998 poco prima di morire, Bixiby è anche l’autore della serie “Ai confini della realtà”, scrisse quattro episodi della serie originale “Star Treek” (citata nel finale del film) e a quattro mani l’opera che diede vita al film cult del 1966 “Fantastic voyage” (conosciuto da noi con il nome di “Viaggio allucinante”).

Questa è la copertina del film nel formato DVD (non è mai stato proiettato in sala) non rispecchia minimante ciò che la pellicola vuole raccontare, ma forse la legge del marketing impone queste scelte …



domenica 15 settembre 2024

La forza dello spirito

Caspar David Fiedrich – Monaco in riva al mare, 1808-10 - Olio su tela cm 110 x 171,5 - Alte Nationlgalerie, Berlino


Se Viandante sul mare di nebbia è l’opera simbolo dell’arte di Friedrich, Monaco in riva al mare è sicuramente quella che ha tracciato un percorso fondamentale per l’arte del pittore tedesco e per tutta quella che è venuta in seguito.

Il dipinto è la svolta pittorica, una pietra miliare della concezione moderna di arte.

Nessuno aveva mai osato mettere in scena l’essere insignificante dell’umanità di fronte all’infinito, l’uomo era da sempre rappresentato al centro del mondo, con quest’opera gli viene assegnata una parte marginale, alla pari di moltissimi altri “personaggi” che altro non sono che delle comparse.

Il dipinto è occupato per cinque sesti dal cielo cupo, plumbeo, il resto è composto da una striscia di mare nera e minacciosa ed un lembo di terra, più chiaro, dove è adagiata la minuscola figura del monaco, l’uomo appare insignificante di fronte al mare, il cielo addirittura lo sovrasta quasi annullandolo.

La forza sprigionata da questo dipinto è immensa, cosi come è grande il senso di smarrimento provato da chi si pone dinnanzi al quadro.

La grandezza della natura, del mondo al di fuori dell’uomo, per come percepisce sé stesso, i limiti, ogni parvenza di confine, sono annullati, questo ha portato alcuni storici a definire il quadro “una delle basi da cui parte l’astrattismo”.

Le fasce orizzontali, che costituiscono la struttura dell’opera, ci possono condurre ad un confronto con Mark Rothko, questo accostamento ci aiuta a comprendere l’intensità spirituale del pittore americano, spiritualità che trova la sua forza proprio nel raffronto con quella, ormai palese, delle opere di Friedrich.