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Francesco Flora

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Francesco Flora (1891 – 1962), critico letterario e scrittore italiano.

Citazioni di Francesco Flora

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  • I poeti prediletti dell'età nostra e gli scrittori più penetranti, furono ricercati assai meno per la lor poesia ed arte, che non per il diffuso immoralismo in cui la mente dei lettori prendeva agevolmente le sue vacanze morali. Rimbaud, più che per la sua poesia talvolta eterea, fu amato per la sua morale discola; per quel «tempo degli assassini», per quel tanto di rovinoso e disperato ch'è nella sua retorica contro gli uomini e contro Dio.[1]
  • Pensate a Nietzsche, il puro: il cui destino fu di nutrire l'arbitrio di criminali mediocri, che nel suo verbo trovavano una promessa di gloria e una giustificazione eroica. La teoria del superuomo, riflesso dalla follia da cui fu colto l'autore, restato sempre a mezzo tra la metafora e la speculazione filosofica, rappresenta la malattia letale e non la sana riscossa dello spirito moderno. Certo, in molti punti, Nietzsche fu frainteso; ma gli scrittori hanno i lettori che meritano, e nella sua opera bisogna coraggiosamente riconoscere una torbidezza fondamentale, che dell'uomo accarezzò piuttosto la bestia che l'angelo. Nietzsche, il puro, che osò chiamar morale da schiavi la morale cristiana e civile, non s'accorse di predicar lui, veramente, la sola morale di schiavi che esista al mondo, quella della servitù all'istinto e all'inconscio. Né s'accorse che il superuomo, quel suo turgido Zaratustra, retore e vanitoso, non è ancor giunto allo stadio umano, perché non ha senso sociale.[2]

Citato in Walter Binni e Riccardo Scrivano, Antologia della critica letteraria

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  • L'opera del Vico è una narrazione mitologica e poetica, informata alla fantasia divinamente fanciullesca ch'egli ebbe, in un rapimento che assomiglia l'heroico furore bruniano. Mentre egli ricerca religiosamente il vero, e col rito più grave, la fantasia gli traduce in forme viventi d'uomini e di terre quelle nude concezioni. I tempi e gli spazi della storia si fan suono e lume: e quel che di corporeo porta in noi ogni più assottigliata idea, ai confini ultimi in cui la mente chiude tutti i sensi e fino i sogni della memoria per pensare il puro essere e il puro nulla, e sempre trova un'immagine e un segno, ombra di vuoto, numero matematico, il Vico sentì in grado sovrumano. La verità gli si traduce in una metafora, che, talvolta, amata per se medesima, gli farà quasi dimenticare l'idea donde nacque.[3] (p. 652)
  • Disgustato e deluso dalla società troppo presto, Moravia ha in sé, quasi confessato, un angelico volto di utopista che teme di costruire il suo sogno, in una società ove lo scetticismo e il facile riso, e il proprio stesso atteggiarsi a supreme certezze ciniche, bruciano i bruchi prima che diventino farfalle.[4] (p. 1162)
  • [La parola] [...] prima e universale poesia di ogni Adamo [...].[5] (p. 1181)
  • Perché la poesia e la filosofia propriamente dette, che altro sono se non le custodi sacre di una comune facoltà degli uomini, anzi della facoltà che li fa uomini? essere uomini significa essere poeti, dar nome alle cose e alle azioni: ma poeti, nel senso eccellente di questa voce, chiamiamo coloro che hanno l'ufficio sacrale di custodire la purezza della parola e perciò dell'umano e difenderla dall'inerzia e dall'abitudine, e finalmente dalla menzogna, che non è parola ma antiparola, e vale per la verità che vuol celare e non per il falso che proclama, traendoci assai spesso in inganno. E tutte le colpe degli uomini sono sempre una menzogna: l'antiparola, l'antipoesia, l'anticreazione.[5] (p. 1181)
  • Nella vita reale di un poeta il sentimento delle cose, e la volontà di tradurlo in una forma che lo costruisca e lo renda oggettivo, sono un medesimo processo vitale. Questa sintesi può essere analiticamente distinta in una materia del sentimento e in una forma che lo rende parola universale; ma nel fatto esse sono un solo moto drammatico che si volge tra chiarezze e oscurità, tra l'umano e l'animale.[5] (p. 1182)
  • Non si chiede la politezza puramente esteriore, contro la quale ha reagito l'età post-dannunziana; si chiede la necessità tonale, in cui si attua la più intima verità di uno stile.[5] (p. 1183)
  • La classicità non è la serie dei nostri grandi libri, che certo aiutano a meglio intender l'uomo: è un modo di sentire e di pensare, mutando la meraviglia in forma oggettiva.[5] (p. 1183)

Storia della letteratura italiana

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  • Con Pico penetra nel mondo umanistico, spiegatamente, come un lievito, e un profumo, e un veleno, il senso delle scienze occulte, portando all'estremo tutto il meraviglioso allucinante ch'ebbe in passato i suoi sbocchi nell'astrologia e magari negromanzia e magari alchimia; ma penetra con la dignità di una severa dottrina, che iscrive in termini esatti una specie di sublime follia. Pico crede di tramutar le favole nascoste in verità scoperte, e crea spesso nuove e più arcane favole. (da Pico della Mirandola., vol II, p. 38)
  • [...] il sentimento di Monteverdi, pesando sulle parole, sembra toglier loro la virtù metaforica e il senso figurato originarii e inchiodarli al significato reale, per trarne una terza e diversa metafora: quella della propria lirica in un nuovo verbalismo melodico. Egli disfa perfino quella musica aerea che il Tasso, liberando le sillabe da ogni peso, e quasi direi da ogni residuo di pratica comunicazione, era riuscito a spirare nei suoi versi. (da Madrigali del Cinquecento, vol. II, p. 123)
  • [...] chi dica Palestrina, dice la sintesi del gran travaglio dal canto gregoriano alla musica fiamminga, sintesi compiuta con quell'animo con cui Masaccio dipinse la cappella del Carmine o, anzi, con quella duttile potenza di assorbimenti inventivi che Raffaello portò a dipingere le Stanze e le Logge.
    Nella Forma si fanno armonia il divino e il terrestre, con una consapevolezza di suprema serenità. (da Apologia del cinquecento, vol. II, p. 205)
  • Anche nella prosa Leonardo è inventore. Non diremo più il Boccaccio padre della prosa italiana, se mai a simili metafore familiari ci piacesse ricorrere. Certo anche in lui si trovano momenti di prosa, lavorata con animo di storico e di filosofo, ma nel suo insieme la prosa del Boccaccio tende alla sintassi lirica, come rappresentazione e numero poetico. Prosa fu quella del Convivio di Dante e di alcune cronache e trattati; ma la prosa grande, la prima prosa grande d'Italia, è da trovare negli scritti di Leonardo: la prosa più alta del primo Rinascimento, sebbene in tutto aliena dal modello umanistico, e liberamente esemplata sul comune discorso. (da La prima grande prosa delle nostre lettere., vol. II, pp. 376-377)
  • Chi svelerà le attrazioni riposte, le affinità elettive che ci guidano nell'amore per certi poeti, e dico l'amicizia confidente, non l'ammirazione strappata dalla tirannia del loro genio?
    Perché molti, e tra i più grandi, noi ammiriamo con la mente, sentendoli gelidi e sereni, come certe notti che Torquato Tasso evocò: altri ammiriamo con tanto maggiore giustizia, quanta è la certezza in noi di sentirli nemici. Ma verso alcuni l'ammirazione è anche un'intesa del cuore. (da Il Tasso e i posteri, vol III, p. 63)
  • Se una genuina attenzione ai madrigali del Cinquecento s'è risvegliata nel tempo nostro, la ragione è da riporre nella natura formale di questo brevissimo tra i carmi lirici, che nei suoi più illustri esemplari addensa la stessa virtù di concentrazione (specie di radium lirico), il medesimo sforzo di una poesia senz'altro oggetto che la fluida virtualità della poesia stessa, innanzi che la sua «idea platonica» prenda corpo nel sentimento di un verbo; la stessa esigenza, vera o presunta, di una espressione assoluta, ridotta e serrata all'unico nucleo, senza poter contare sull'appoggio allusivo di lontani versi antecedenti o susseguenti che la rafforzino e la approfondiscano: quei caratteri, insomma, che i moderni lungamente predilessero nelle lettere contemporanee. (da Madrigali del Cinquecento, vol. III, p. 121)
  • [Giovanni Francesco Lottini] Uno dei più cordiali avvedimenti tocca dell'ozio buono e dell'ozio cattivo.
    L'ozio buono è «convenevol quiete, la quale non pure ha le sue operazioni, ma le ha tali che sono direttamente in maggior pregio di quelle del giusto travaglio», poiché mentre «il traffico ovver l'esercizio» e cioè l'azione «sempre ha intenzione più oltre di quello che egli opera», le operazioni dell'ozio «hanno il fine in lor medesime, siccome hanno lo speculare e l'esercitare le virtù morali, le quali si speculano ed esercitano per cagione di se stesse». Quest'ozio «virtuoso», «per esser fondato sopra la grandezza dell'animo, rende l'uomo che lo gode confidente in se stesso, e l'orna d'una virilità così fatta che non fuggirebbe, ogni volta che l'occasione si porgesse, né pericolo, né fatica».
    Ecco una massima che contrasta con la morale da schiavi del materialismo e del superomismo. (da Giovan Francesco Lottini, vol. III, p. 138)
  • Il mondo moderno è illuminato dal bagliore del suo rogo. Bruno asserì con la morte che la verità della mente non può essere sottoposta a nessun giogo, perché è la luce stessa della divinità che in noi si svolge: non può essere sacrificata all'esistenza terrena, senza che ciò sia il peccato supremo dell'uomo contro l'universo, contro Dio. Perciò egli fu intrepido innanzi alla morte: e ai giudici poté dire minaccioso quelle parole severe: «Forse più grande è il timor vostro nel pronunziare la sentenza contro di me, che non il mio nell'udirla». La filosofia che già credette porre la verità fuori dell'uomo era colpita al cuore. (da Giordano Bruno, vol. III, p. 160)
  • La tessitura d'ogni suo libro è così estrosa, ora pindarica di volo ed ora soltanto arbitraria, ora limpida nel suo calore, ora aggirata come un veloce arcolaio, ora d'ispirazione subitanea ed ora mulinata e direi scelta parola per parola, che in ogni scritto, per l'insofferenza d'un ordine comunque servile ad un metodo, si trova ammassata tutta la sua filosofia e poesia: e tuttavia le contraddizioni e le bizzarrie e le evasioni non fiaccano il fondamentale eroico furore verso la divina verità, che è ad un tempo la divina poesia dell'universo. E il titolo Degli eroici furori dato dal Bruno a quei suoi dialoghi abbacinanti e scombuiati, nei quali si accende un calore di ditirambo e di epinicio, è forse il meglio adatto a definire l'anima bruniana, perché esprime quell'ardore cruciante e lirico in cui si dispiegano idee e immagini, e dà una delle norme del tono in cui bisogna leggere i libri di lui. (da Ombra delle idee, vol. III, p. 169)
  • Bruno sorpassa la sua stessa foga predicatoria in moltissimi punti, con un tono lieve di ironia che è ad un tempo la giustificazione di quello stile e la sua trasfigurazione. È questo un modo tutto meridionale di espressione, il calcare solennemente le parole e subito velarle d'ironia: la quale è appunto una raccolta gioia che quasi per pudicizia vuol celare la sua fede, e mostrarsi di fronte a questa con volto di diffidente sorriso, mentre ne è interamente domata: ironia simile a quella di Cervantes di fronte a Chisciotte che è la creatura più cara al poeta, perché essa solo vede giusto, scoprendo i mostri dove la piatta visione non trova che molini al vento: eppure Cervantes proietta su questa sua creatura l'ironia di tutti, e perfino il facile buon senso di Sancio. (da Ombra delle idee, vol. III, p. 171)
  • La poesia di Galileo non ha bisogno di uscire dal vero scoperto dalla scienza per alimentare l'eterna virtù di miti e di favole che consola la vita.
    L'immaginazione è come sopraffatta dalla materia osservata, che già per se stessa è una materia poetica, anzi la poesia per eccellenza, il poema di Dio. Lo stupore della fantasia, in un religioso ricercatore del vero, accompagna ogni scoperta. Perché la materia scientifica di Galileo è l'epica, la drammatica e la lirica dell'universo, nei suoi arcani, nel cuore stesso della perenne creazione: ove si formano le cose e le parole: spazio, tempo, vuoto, abisso, sfere, etere, vento, fuoco, flusso e riflusso; il moto e la forza; le oscillazioni e le vibrazioni; il peso dell'aria; la luce e le ombre e le prospettive; luce d'astri, di specchi, di metalli; monti lunari, trasparenze di astrali meduse; eclissi: «la luna immersa nell'ombra della terra»; colori, suoni, odori, sapori, tatti; fluidi; calamite; moti di cieli, di acque, di gravi; moti dell'aria sulla terra scabrosa ed aspra o sui mari lisci; le macchine che armano i sensi e l'intelletto; la geometria con circoli triangoli e linee iscritta nelle cose, i numeri diventati oggetti drammatici. Questa materia scientifica è amata come la divina poesia: e la scienza astronomica è una operosa scoperta di immagini e ritmi che sono le espressioni corporee dell'universo. I riti del sole, della luna e degli altri pianeti nel coro dei mondi, la liturgia delle maree e dei venti, dei suoni e dei colori e delle tempere, sono le strofe del divino poema che egli apprende; perciò il suo racconto ha il tono stupito e talvolta sfavillante dell'interna gioia di chi assiste alla creazione del mondo.
    E qui è il segreto dello stile olimpico, tanto concreto e tanto favoloso, di Galileo. (da Stile di Galieo, vol. III, p. 217)
  • [...] la versione [della Bibbia] del Diodati è di tal vigore stilistico da collocarsi tra le più belle prose artistiche dell'estremo Cinquecento e del principio del Seicento. Stile denso e numeroso, sul quale la polemica religiosa ben rare volte poté avere influsso, perché la parte incomparabilmente più vasta della Bibbia non offre materia di contese dottrinali: e la virtù stilistica del Diodati si avviva principalmente negli episodi e nei passi che nell'originale hanno sostanza di poesia. (vol. III, p. 225)
  • In Claudio Monteverdi e in quanti altri la musica sentirono come un accrescimento della parola, si aduna veramente la poesia maggiore degl'Italiani nel Seicento. Quando una storia letteraria, pur restando nella classificazione che distingue praticamente le arti, potrà meglio contare su una diffusa preparazione musicale, un assunto come il nostro non parrà affatto paradossale: perché qui il prevalere del fatto verbale nella sintesi ultima riconduce un Monteverdi alla storia della parola. (da La musica, vol. III, p. 247)
  • Alla prosa d'arte si ascrivono prevalentemente le opere di Daniello Bartoli, che pur trattano argomenti storici, speculativi, scientifici, religiosi, perché tra le facoltà dello scrittore sormonta il piacere descrittivo della parola, e, si potrebbe dire, la stremata e rotta poesia del dizionario. (da Poesia del dizionario, vol. III, p. 441)
  • Il Caloprese precorre il senso moderno di una vaghezza poetica che suggerisce più di quanto non dica, svelando in anticipo che non soltanto la poesia venuta dopo Mallarmé ha questo potere, ma ogni vera poesia: «il lettore è sforzato a comprendere assai più di quel che importano le nude parole»: la fantasia e la giacitura di parole fan concepire le cose «con una certa lontananza, che fa acquistare al concetto un non so che di maggior profondità e di più lucido splendore». (da Precorrimenti di Vico, Gravina, Conti[6], vol. III, p. 502)
  • La poesia si lavora e si libra su se stessa. L'intensità espressiva tocca i vertici. Per un processo di purificazione piena, l'autobiografia si fa oggetto. La tendenza è nuova, e sormonta di tanto il proprio tempo da rimanere un po' incerta nel Foscolo stesso. La lirica pura, quale i moderni più avvertono e alla quale più tendono con concentrati richiami, dopo le estreme esperienze romantiche fino al surrealismo, questa lirica supremamente oggettiva, è colta dal Foscolo prima d'ogni altro, è raggiunta con acutezza profetica: e ciò che nella cosiddetta poesia della decadenza era sincero moto poetico e non mistura o filtro è già attuato nelle Grazie in forma classica; ed è pur vero che di questa acerba bellezza, partendo dalle Grazie, si troveranno i primi moti anche nella precedente poesia foscoliana: per questa parte non v'è poesia di domani, neppure quella del Leopardi, che la raggiunga. E anzi, soltanto oggi, stimolati dalle esperienze analogiste, possiamo intendere il miglior segreto di quella poesia, e riconoscere nel Foscolo la più scaltra coscienza lirica dell'ottocento italiano. (da Le Grazie, vol. IV, p. 278)
  • Un poeta ridarà alle parole, alle frasi, ai costrutti un significato sorgivo e un suono e un diverso peso: ne attenuerà la metafora o la farà più densa, chiudendo in essa la tradizione di alcuni secoli o risalendo alla primissima età, quando la voce era ancora mimetica, grumosa della materia su cui nacque.
    Perché soltanto in una nuova «pronuncia» i nomi e i verbi hanno una ragione vitale. (da Storia della parola leopardiana, vol. IV, p. 361)
  • Tutte le volte che gli uomini, parlando delle loro sofferenze, negano la vita, son sempre intimamente contraddittorii, giacché almeno in forme larvali uscirono dal dolore per comporne il simulacro e credere in quello. A colui che dice il suo dolore, non più il dolore è presente, ma la parola e l'immagine e il suono in cui quel dolore si consacra e si sublima. Or questo processo di magica liberazione dal male, questo tramutare in un fatto positivo di fede la negazione che esprime, hanno gradi vari di efficienza e di purificazione secondo l'intensità poetica, che è a dire la positività vitale che contraddice al negativo. (da Arrigo Boito, vol. V, pp. 147-148)
  • L'autunno darà i suoi colori d'addio all'ultimo dei più puri canti di Salvatore Di Giacomo: la piccola ode al grillo «animaluccio cantatore» la cui voce va mutando d'attimo in attimo il suo spazio vocale. Un'altra malinconia – dice il poeta –, quella di autunno, cade nell'anima. E certo questa caduta è il senso digiacomiano della morte. Dove canta il grillo? nell'erba bagnata sotto la fonte? in una fenditura allo spigolo di un muro? o forse tra una «testa d'aruta» e un'altra «testa» di fiori?
    Sera 'e settembre — luna settembrina, | ca 'int' 'e nnuvole nere | t'arravuoglie e te sbruoglie |e 'a parte d' 'a marina | mo faie luce e mo no — | silenzio, nfuso | quase 'a ll’ummedità — | strata addurmuta, | (ca cchiù scura e sulagna | quase s'è fatta mo, | e ca sento addurà | comm'addorano 'e sera | cierti strate 'e campagna) — | arillo, | ca stu strillo, | mme faie dint' 'o silenzio | n'ata vota sentì... | Zicrì! Zicrì! | Zicrì!
    Quanto alta si è levata questa musica dimessa e sottovoce! una mestizia panica è ora nel canto, e l'arte affina il metro a tal nuova pronunzia che le sillabe si iscrivono in un ideal pentagramma: e sempre più la voce s'è fatta pura, come incavandosi nella sostanza del silenzio. Gli strumenti di Piedigrotta son dunque sonati dagli angeli-musici del Beato Angelico? e le Muse del Parnaso raffaellesco cantano gioiose la canzone e l'arietta napoletana di Salvatore Di Giacomo. (da La musica delle Ariette, vol. V, p. 355)
  • Coloro che immaginano un Croce che ha svalutato la scienza, soltanto perché dalla logica l'ha trasferita nella pratica, dimenticano che teoria e pratica sono presso il Croce un rapporto, sicché né la teoria è superiore all'azione né l'azione alla teoria; ma l'una e l'altra sono la perenne e dialettica sintesi della realtà. (da Storicismo assoluto: umanesimo totale, vol. V, p. 581)
  • Una delle parole tematiche del Rinascimento è la parola «gioia». La parola tematica, dal Romanticismo in poi, sarà «noia». (da L'angoscia moderna, senza Dio, vol. V, p. 612)
  • Valéry vien considerato e si considerava l'assertore della intelligenza critica nella poesia; ma nel fatto, negando egli la ragione e la storia e la capacità di intenderla, negava qualsiasi fondamento all'intelligenza critica, e non salvava la poesia. E come esisterebbe una intelligenza critica, se la ragione umana non intende il mondo? perché dovrebbe intendere la poesia? e che cosa sarebbe poi la poesia dinanzi a una intelligenza non garentita dalla ragione? E ancora una volta, per la parte che ci riguarda come italiani educati all'umanesimo storico, o meglio per quella che riguarda la poesia, la ragione e la storia, la nostra necessaria polemica contro uno scrittore di tanta autorità qual è il Valéry, assomiglia a quella che il Vico conduceva contro Cartesio per rivendicare la poesia e la storia contro la filosofia matematica e astratta. (da L'angoscia moderna, senza Dio., vol. V, pp. 614-615)
  • La sincerità è un fatto della mente, che ha la purità della luce. E chi nell'arte giungesse alla sincerità morale che è richiesta nella confessione religiosa, che è un modo di avviarsi a una piena purificazione, avrebbe torto nel credere che ciò basti a far poesia: perché in tal caso i più grandi poeti sarebbero stati coloro che vergognosi confessarono i loro delitti al confessore. La «franchise absolue»[7] dell'arte è di ben diversa natura. (da La poesia come ricerca dell'ignoto., vol. V, p. 625)
  • [...] quanto alla concentrazione che i moderni osservano, dovrebbe esser chiaro ch'essa non può essere un fatto di maggiore o minore brevità: alla resa – per valerci di una parola oggi corrente – la lirica amplissima dell'Orlando Furioso, essendo quella necessaria, è altrettanto concentrata di quella che si può trovare in una poesia moderna (quando è tale) racchiusa in poche sillabe. E nella proporzione necessaria di ogni particolare motivo lirico, un componimento odierno di cinque versi potrà magari essere prolisso, se il suo nucleo poetico era presto esaurito in una immagine, e se l'autore ha voluto sovrapporle un motivo ch'esso non comportava. Il tempo della poesia non è meccanico, è spirituale. (da Decadentismo europeo e italiano., vol. V, p. 634)
  • Nietzsche era un puro, e talvolta il puro folle; ma il mondo contro il quale egli anima la turgida protesta di Zaratustra è proprio fatto, in ogni classe sociale, di esseri come Zaratustra e la sua matta bestialità. Il superuomo non è un personaggio da venire, è una miserabile presenza che tutti gli uomini scoprono nella parte più abbietta di se stessi. Compito della vera civiltà è liberarsi da questo atroce «stato di natura» rappresentato dal perenne Zaratustra. E il Nietzsche migliore è quello appunto che s'indigna contro la viltà del mondo, e non sa di avvalersi delle negate categorie cristiane. (da Decadentismo europeo e italiano, vol. V, pp. 627-628)
  • Tommaso Landolfi è forse definito da quel titolo di un suo libro La pietra lunare, che dice le sue visioni surrealistiche pur nella prosa lucida e ironica che è delle vicende reali. E soltanto un vero dono d'arte può domare l'ingrata materia di certo suo confessarsi: una superiore innocenza della elaborata scrittura. (da «Realismo magico e altre tendenze», vol. V, p. 752)
  • [...] una pietà che è tutta nelle cose e non ha bisogno di manifestarsi con dirette parole: questa è la materia del romanzo di Giorgio Bassani[8]. E su una materia così ardente lo stile è sempre limpidamente dominato. Pensavo al desiderio di Bonaparte, quando chiese al pittore David, come narrano, d'esser ritratto calmo su un cavallo furioso; mentre oggi assai spesso la letteratura ci dà piuttosto uomini furiosi su brocchi estremamente calmi. (da Dopo la prima guerra atomica, vol. V, p. 764)
  • D'Annunzio un alto familiare che arricchì la nostra vita di miti poetici e alate illusioni. E se il Dannunzianesimo fu un nemico da vincere, noi, per una poesia che ci aiutò a vivere, dimentichiamo tutto quel che è terrestre: diciamo gloria a D'Annunzio e alla innocenza poetica che riscattò il limo di Adamo.[9]

Note

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  1. Da Le lettere. Responsabilità degli scrittori, in L'Illustrazione italiana, numero 4-5, 12-19 agosto 1945, p. 74.
  2. Da Le lettere. Responsabilità degli scrittori, in L'Illustrazione italiana, numero 4-5, 12-19 agosto 1945, p. 74.
  3. Dall'Introduzione a G. B. Vico, Opere, a cura di Francesco Flora, Mondadori, Milano, 1957, pp. XLVII-XLIX; LIII-LV.
  4. Da A. Moravia, in Scrittori italiani contemporanei, Nistri-Lischi, Pisa, 1952, pp. 197-201.
  5. a b c d e Da Vasco Pratolini, in Scrittori italiani contemporanei, Nistri-Lischi, Pisa, 1952, pp. 269-272.
  6. Antonio Conti, (Padova 1677 – 1749), filosofo, matematico, fisico, poeta. Cfr. Il Flora, Storia della letteratura italiana, vol. III, p. 504.
  7. «La franchise absolue, moyen d'originalité.» (La franchezza assoluta, mezzo d'originalità.) (Baudelaire), citato da Francesco Flora a p. 625 della Storia della letteratura italiana, volume quinto.
  8. Il Giardino dei Finzi-Contini.
  9. Da Storia della letteratura italiana, IV, Mondadori, Milano, 1947, p. 466.

Bibliografia

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  • Francesco Flora, Il Flora, Storia della letteratura italiana, cinque volumi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1972.
  • Walter Binni e Riccardo Scrivano, Antologia della critica letteraria, Principato Editore, Milano, 19813.

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