Sono tornata da poco dal mio primo giorno dell'anno al mare. Ho addosso il sole caldo, nello stendino il costume da bagno, su divano la borsa frigo e nel lavandino i contenitori dell'insalata di riso da lavare. Dovrei stendere i panni, preparare il pranzo per domani, guardare l'agenda della settimana, ordinare i vestiti ammonticchiati sul letto.
E invece perdo tempo su Facebook. Mi ritrovo a leggere un post di Memorie di una Vagina, un blog che seguo sempre. Parla dei weekend da soli, di quella malinconia e di quella solitudine concentrata in quei giorni alla fine di ogni settimana, di quella voglia di famiglia, di motivi che ti portino ad alzarti dal letto prima di mezzogiorno.
Mi è tornato in mente questo spazio, quegli anni universitari grigi che con tanta pazienza e forza ho cercato di colorare un po'. Di quando qui scrivevo che i weekend erano fatti per le persone felici e io, anche se non lo dicevo, non lo ero. Sentivo la solitudine anche io, tra le mura di casa. Sentivo il vuoto, che mancava troppo qualcosa che desse un senso alla vita extra-universitaria, extra dovere.
Il blog mi aiutava tanto allora: scrivere, aprirmi ad un mondo virtuale fatto di persone che in un modo o nell'altro sentivo vicine. Condividere quelle inquietudini che si leggevano tra le righe e non si spiegavano mai troppo bene.
L'ultimo post risale a quasi due anni fa, anche se ho smesso di pubblicare con la frequenza di un tempo già molto prima.
Le cose, per fortuna, sono cambiate di molto.
Adesso che sola non mi sento mai, che se lo sono è solo per scelta, perché - si sa - un po' di solitudine serve sempre, soprattutto alla gente come me. Adesso che ho dato una svolta alla mia vita, cambiato lavoro perché la mattina voglio svegliarmi col sorriso e fare qualcosa in cui credo davvero. Adesso che in testa ho dei progetti, che tra un po' condividerò casa e abitudini con quello che è l'amore più grande che la vita mi ha dato fino ad adesso. Adesso che i fine settimana sono pieni di amici, di cene, pranzi, palestre, persone da vedere e da abbracciare, famiglie nuove, risvegli insieme, colazioni con la torta fatta la sera prima.
Adesso che forse il mare si è calmato.
Adesso guardo indietro, al tempo perso che mi ha fatto diventare grande. Alle domande senza risposta di un tempo, agli affetti mancanti e che mancano tutt'ora, alla Chiara bambina che si chiudeva.
Stasera mi mancava scrivere, condividere con voi o con chi è rimasto di voi.
Non lo so se sono tornata, certo è che questo spazio mi ha attratto a sé come una calamita.
Sarà stato il sole, il mare (anche se diverso) di cui vi ho parlato tanto negli anni...
Il soffitto di casa mia
"Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel. Parte piano, bisogna insistere. Ma quando va in corsa, è un'avventura ricostruire se stesse. La più grande.
Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia. Per chi la incontra e per se stessa.
È la primavera a novembre, quando meno te l'aspetti."
(Donne in Rinascita - D. Cugia)
domenica 4 giugno 2017
sabato 5 settembre 2015
Ho ricominciato
Ho ricominciato a scrivere qui, nei fogli, nella mente. Così come ho ripreso a leggere i settimanali, i libri.
Avevo abbandonato il mio rito del sabato mattina, accantonato da più di un anno ormai. L'ho ripreso oggi. Sono uscita di casa senza pensare troppo a cosa avevo addosso, anzi vestendomi senza accorgermene neanche totalmente di nero. La direzione era una: la biblioteca.
Il rifugio per chi ha voglia di leggere, ma non sa poi tanto bene cosa. Per chi è in conflitto tra la speranza di non affezionarsi troppo a libri che dovrà presto restituire alla collettività e la voglia di innamorarsi di una storia di inchiostro da consigliare agli amici lettori.
Ho fatto un giro tra scaffali che sanno a tratti di vecchio, finendo però sempre allo stesso: narrativa italiana. Così come i film, le canzoni, i libri: in questo sono patriottica.
Senza troppe idee precise, senza schemi, ho iniziato a sfogliarne qualcuno a caso.
E' finito tra le mie mani un libro di Concita De Gregorio, "Io vi maledico". Ho letto la trama distrattamente, l'ho preso in prestito insieme ad altri due.
A casa, da sola, nel silenzio rotto dalle fusa del gatto, ho iniziato a leggerlo arrivando a pagina cinquanta senza neanche accorgermene. Un libro sulla rabbia, storie di gente arrabbiata.
Ho ricominciato a scrivere, a leggere i settimanali, i libri, a girare in biblioteca il sabato mattina.
Ho ricominciato ad arrabbiarmi.
Per cretinate, per cose che mi danno fastidio e che - pensandoci dopo - forse non sono neanche così "gravi".
Io mi arrabbio smettendo di parlare, sigillando la bocca. Labbra attaccate una sopra l'altra, sto così per ore. Sopracciglio destro leggermente più in alto del sinistro, sguardo inconfondibilmente diversamente tranquillo. Sono questi i segnali.
Sono arrabbiata anche oggi, da qualcosa come ventiquattro ore.
Labbra sigillate, se non per rispondere scocciata all'interrogatorio settimanale della parente di turno o per ringraziare la cassiera del supermercato che mi porge il resto.
Quando mi arrabbio lo faccio per un motivo certo, mentre la conseguenza - ovvero il silenzio - rende da sempre incerte sul mio umore le persone che mi stanno accanto.
Ogni tanto, tipo oggi, penso a quante cose cambierei del mio carattere e in che ordine.
Cambierei sicuramente la caratteristica dell'arrabbiarmi in silenzio.
Così come la timidezza, l'incapacità di essere una di quelle persone che hanno sempre qualcosa di brillante ed entusiasmante da esternare alla folla occasionale con cui per caso sei finita a passare la serata.
Così come la mania di programmare le cose, dell'ordine. Eviterei di arrabbiarmi, quando appunto i programmi vanno a farsi a benedire.
Così come il mio essere lunatica.
Ecco, mi piacerebbe arrabbiarmi e dire il perché parlando. Raccontando subito come mai, per quale motivo, invece di chiudermi nei miei silenzi...
Avevo abbandonato il mio rito del sabato mattina, accantonato da più di un anno ormai. L'ho ripreso oggi. Sono uscita di casa senza pensare troppo a cosa avevo addosso, anzi vestendomi senza accorgermene neanche totalmente di nero. La direzione era una: la biblioteca.
Il rifugio per chi ha voglia di leggere, ma non sa poi tanto bene cosa. Per chi è in conflitto tra la speranza di non affezionarsi troppo a libri che dovrà presto restituire alla collettività e la voglia di innamorarsi di una storia di inchiostro da consigliare agli amici lettori.
Ho fatto un giro tra scaffali che sanno a tratti di vecchio, finendo però sempre allo stesso: narrativa italiana. Così come i film, le canzoni, i libri: in questo sono patriottica.
Senza troppe idee precise, senza schemi, ho iniziato a sfogliarne qualcuno a caso.
E' finito tra le mie mani un libro di Concita De Gregorio, "Io vi maledico". Ho letto la trama distrattamente, l'ho preso in prestito insieme ad altri due.
A casa, da sola, nel silenzio rotto dalle fusa del gatto, ho iniziato a leggerlo arrivando a pagina cinquanta senza neanche accorgermene. Un libro sulla rabbia, storie di gente arrabbiata.
Ho ricominciato a scrivere, a leggere i settimanali, i libri, a girare in biblioteca il sabato mattina.
Ho ricominciato ad arrabbiarmi.
Per cretinate, per cose che mi danno fastidio e che - pensandoci dopo - forse non sono neanche così "gravi".
Io mi arrabbio smettendo di parlare, sigillando la bocca. Labbra attaccate una sopra l'altra, sto così per ore. Sopracciglio destro leggermente più in alto del sinistro, sguardo inconfondibilmente diversamente tranquillo. Sono questi i segnali.
Sono arrabbiata anche oggi, da qualcosa come ventiquattro ore.
Labbra sigillate, se non per rispondere scocciata all'interrogatorio settimanale della parente di turno o per ringraziare la cassiera del supermercato che mi porge il resto.
Quando mi arrabbio lo faccio per un motivo certo, mentre la conseguenza - ovvero il silenzio - rende da sempre incerte sul mio umore le persone che mi stanno accanto.
Ogni tanto, tipo oggi, penso a quante cose cambierei del mio carattere e in che ordine.
Cambierei sicuramente la caratteristica dell'arrabbiarmi in silenzio.
Così come la timidezza, l'incapacità di essere una di quelle persone che hanno sempre qualcosa di brillante ed entusiasmante da esternare alla folla occasionale con cui per caso sei finita a passare la serata.
Così come la mania di programmare le cose, dell'ordine. Eviterei di arrabbiarmi, quando appunto i programmi vanno a farsi a benedire.
Così come il mio essere lunatica.
Ecco, mi piacerebbe arrabbiarmi e dire il perché parlando. Raccontando subito come mai, per quale motivo, invece di chiudermi nei miei silenzi...
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martedì 1 settembre 2015
"Io speriamo che me la cavo"
Mi ero quasi dimenticata di che rumore facesse la sveglia quando doveva buttarmi giù dal letto. Avevo mandato in ferie anche lei, salvo richiamarla ogni tanto e sempre ad orari più umani rispetto a quelli ai quali l'avevo abituata.
Ieri sera l'ho puntata alle otto, minuti in più, minuto in meno. Quando l'ho impostata ero affetta dalla più classica sindrome di depressione da rientro, quella che ti coglie inesorabilmente in un ampio arco di ore successive al rientro.
Stamattina, quando ha suonato, è stato come essere colti da uno scossone. Nell'immediata incoscienza di chissà quale esatta fase del sonno, ho pensato fosse un incubo. Quando ho iniziato a realizzare, mi sono chiesta per prima cosa dove mi trovassi.
" A casa su, per forza. Qui c'è silenzio. Giù c'è sempre qualcuno che urla".
E infatti...
Alzarsi dal letto, per chi odia in particolar modo le sveglie, è sempre un piccolo trauma. Riesco a staccarmi dal cuscino solo se penso che fare le cose di fretta non mi è mai piaciuto.
E quindi su, in piedi. A realizzare un'altra semi-catastrofe.
Oggi è uno. UNO SETTEMBRE.
La data più odiata ed amata insieme da chissà quante persone. Nuovi inizi, nuovi propositi che neanche a Capodanno. La palestra, la dieta, il fumo. L'ordine, le amicizie, la vita regolata.
Non posso dire di essere diversa dal resto del mondo.
Ho pensato anche io intensamente a dieta e attività fisica, considerando gli innumerevoli chili accumulati nel giro di due anni. La colazione, infatti, è stata ben diversa da quelle a cui purtroppo mi ero abituata. Il cornetto pieno di crema è stato sostituito con il pane integrale e miele ed i biscotti con un tristissimo yogurt magro.
Ho tirato fuori dall'armadio il vestito che di solito mettevo la sera per uscire. Ho inforcato la mia bicicletta e sono partita.
Stesso percorso, stesse fermate. Stesso rumore di bicicletta. Uguali i negozi, le facce, le persone. In un mese non è cambiato niente qua.
Gesti meccanici, uno dietro l'altro. L'arrivo, le chiavi nella toppa, il parcheggio, la catena. E poi le scale, i saluti.
A spezzare la routine la mia scelta.
Ci ho pensato tanto. Mesi, settimane. Scelte ponderate, ragionate. Frutto di bilanciamenti tra pro e contro, tra istinto e ragione.
Il risultato è stato uno.
Mollare.
Detto così, suona male. Sembra una sconfitta, la deposizione delle armi.
Ci ho pensato veramente tanto prima di decidere. O forse, ripensandoci, neanche così tanto.
E' stata una decisione presa in parte d'istinto, in parte no.
Dicono che alla mia età abbiamo tutta la vita davanti.
Io, nella mia di vita, ho sempre dovuto correre tanto. Correre a laurearmi, a dare risultati, soddisfazioni a quei genitori che a volte mi pensano e a volte no.
Ce l'ho sempre fatta, potrei dirmi soddisfatta. O meglio, potrei dire che gli altri (alcuni) siano soddisfatti di me.
Ma io lo sono?
A diciotto anni ho accantonato i miei sogni nel tentativo che si realizzassero quelli che gli altri avevano scelto per me. Era un modo insolito per conquistarmi l'affetto delle persone care.
Ho imparato però che prima o poi la vita ti presenta il conto. Sotto forma di noia, di insofferenza, di chissà quale altro malessere, ma te lo presenta. Voce per voce.
Il mio è arrivato nel giro di qualche mese, unito ad altre ben chiare ragioni che mi hanno spinto a mollare.
E così è stato.
Ho iniziato il mio settembre, il mio "anno nuovo" chiudendo un capitolo, nel giorno in cui - al contrario -se ne dovrebbero aprire di nuovi.
Ci pensavo al ritorno, dopo aver salutato quelle facce che per mesi e mesi avevo visto mille ore al giorno, adesso un po' sconcertate dal mio annuncio inatteso.
Pedalavo, osservavo la strada che ho percorso con i più svariati stati d'animo negli ultimi mesi. Mi sono sentita più leggera.
Ho iniziato l'anno nuovo chiudendo un capitolo.
Ma finché ad ogni capitolo che si chiude corrisponde uno che si apre, allora forse va tutto bene.
Ho una nuova avventura che mi aspetta dietro l'angolo. Non so dove mi porterà, ma se mi conosco un pochino so che mi darà soddisfazioni.
So che un giorno mi ringrazierò semplicemente per il fatto di aver seguito il mio cuore.
Ieri sera l'ho puntata alle otto, minuti in più, minuto in meno. Quando l'ho impostata ero affetta dalla più classica sindrome di depressione da rientro, quella che ti coglie inesorabilmente in un ampio arco di ore successive al rientro.
Stamattina, quando ha suonato, è stato come essere colti da uno scossone. Nell'immediata incoscienza di chissà quale esatta fase del sonno, ho pensato fosse un incubo. Quando ho iniziato a realizzare, mi sono chiesta per prima cosa dove mi trovassi.
" A casa su, per forza. Qui c'è silenzio. Giù c'è sempre qualcuno che urla".
E infatti...
Alzarsi dal letto, per chi odia in particolar modo le sveglie, è sempre un piccolo trauma. Riesco a staccarmi dal cuscino solo se penso che fare le cose di fretta non mi è mai piaciuto.
E quindi su, in piedi. A realizzare un'altra semi-catastrofe.
Oggi è uno. UNO SETTEMBRE.
La data più odiata ed amata insieme da chissà quante persone. Nuovi inizi, nuovi propositi che neanche a Capodanno. La palestra, la dieta, il fumo. L'ordine, le amicizie, la vita regolata.
Non posso dire di essere diversa dal resto del mondo.
Ho pensato anche io intensamente a dieta e attività fisica, considerando gli innumerevoli chili accumulati nel giro di due anni. La colazione, infatti, è stata ben diversa da quelle a cui purtroppo mi ero abituata. Il cornetto pieno di crema è stato sostituito con il pane integrale e miele ed i biscotti con un tristissimo yogurt magro.
Ho tirato fuori dall'armadio il vestito che di solito mettevo la sera per uscire. Ho inforcato la mia bicicletta e sono partita.
Stesso percorso, stesse fermate. Stesso rumore di bicicletta. Uguali i negozi, le facce, le persone. In un mese non è cambiato niente qua.
Gesti meccanici, uno dietro l'altro. L'arrivo, le chiavi nella toppa, il parcheggio, la catena. E poi le scale, i saluti.
A spezzare la routine la mia scelta.
Ci ho pensato tanto. Mesi, settimane. Scelte ponderate, ragionate. Frutto di bilanciamenti tra pro e contro, tra istinto e ragione.
Il risultato è stato uno.
Mollare.
Detto così, suona male. Sembra una sconfitta, la deposizione delle armi.
Ci ho pensato veramente tanto prima di decidere. O forse, ripensandoci, neanche così tanto.
E' stata una decisione presa in parte d'istinto, in parte no.
Dicono che alla mia età abbiamo tutta la vita davanti.
Io, nella mia di vita, ho sempre dovuto correre tanto. Correre a laurearmi, a dare risultati, soddisfazioni a quei genitori che a volte mi pensano e a volte no.
Ce l'ho sempre fatta, potrei dirmi soddisfatta. O meglio, potrei dire che gli altri (alcuni) siano soddisfatti di me.
Ma io lo sono?
A diciotto anni ho accantonato i miei sogni nel tentativo che si realizzassero quelli che gli altri avevano scelto per me. Era un modo insolito per conquistarmi l'affetto delle persone care.
Ho imparato però che prima o poi la vita ti presenta il conto. Sotto forma di noia, di insofferenza, di chissà quale altro malessere, ma te lo presenta. Voce per voce.
Il mio è arrivato nel giro di qualche mese, unito ad altre ben chiare ragioni che mi hanno spinto a mollare.
E così è stato.
Ho iniziato il mio settembre, il mio "anno nuovo" chiudendo un capitolo, nel giorno in cui - al contrario -se ne dovrebbero aprire di nuovi.
Ci pensavo al ritorno, dopo aver salutato quelle facce che per mesi e mesi avevo visto mille ore al giorno, adesso un po' sconcertate dal mio annuncio inatteso.
Pedalavo, osservavo la strada che ho percorso con i più svariati stati d'animo negli ultimi mesi. Mi sono sentita più leggera.
Ho iniziato l'anno nuovo chiudendo un capitolo.
Ma finché ad ogni capitolo che si chiude corrisponde uno che si apre, allora forse va tutto bene.
Ho una nuova avventura che mi aspetta dietro l'angolo. Non so dove mi porterà, ma se mi conosco un pochino so che mi darà soddisfazioni.
So che un giorno mi ringrazierò semplicemente per il fatto di aver seguito il mio cuore.
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lunedì 31 agosto 2015
Il mare, il mio miracolo
Quando raggiungi i fatidici diciotto anni e fai la valigia per andare via a studiare - risorse economiche e tutto il resto permettendo - non sai mai cosa ti attende, a quale vita andrai incontro. Cosa ti mancherà, cosa meno.
Quando sono andata via da casa, io avevo una paura che ancora ricordo come se fosse stato ieri, quel giorno. Lasciare tutti era difficile, indubbiamente. Affetti, persone, animali.
Non pensavo, però, che a mancarmi tantissimo sarebbe stato il mare, forse più di ogni altra cosa.
Le persone le senti, sai tutto di tutti anche se ci metti di mezzo mille chilometri. Il gatto te lo passano al telefono, ti dicono se muove le orecchie o se struscia la sua testolina contro l'apparecchio.
Il mare, quello no.
Possono raccontarti, dirti se è calmo, agitato, liscio come l'olio, se sembra un lago o l'inferno delle onde. Se fa danni con la sua potenza, se è pulito e cristallino.
Le parole però non saranno mai abbastanza, così come le foto che ti faranno sentire ancora più sola, orfana delle sue onde quando a luglio, la domenica, tutti se lo stanno gustando e tu hai davanti agli occhi una pozza verde indegna di essere chiamata allo stesso modo.
Ogni anno aspetto agosto come un miracolo.
Si, vanno bene le ferie, le vacanze. La lontananza dalla routine, dalle facce che vedi tutti i giorni per un anno intero.
Io, però, attendo agosto per lui, per il mare.
Come lui, nessuno mai.
Con cosa potrei mai sostituire la sensazione dei piedi che affondano sulla sabbia? Il freddo dell'acqua, i brividi dietro la schiena ogni volta che ti ci immergi? E il sapore, l'odore di quel sale che ti rimane attaccato alla pelle scottata dal sole?
Cura di ogni male, ricchezza per chi vive grazie a lui. Estasi, relax. Amore. Musica.
E' un miracolo il mare. Il mio. E per me lo è sempre stato.
Quando sono andata via da casa, io avevo una paura che ancora ricordo come se fosse stato ieri, quel giorno. Lasciare tutti era difficile, indubbiamente. Affetti, persone, animali.
Non pensavo, però, che a mancarmi tantissimo sarebbe stato il mare, forse più di ogni altra cosa.
Le persone le senti, sai tutto di tutti anche se ci metti di mezzo mille chilometri. Il gatto te lo passano al telefono, ti dicono se muove le orecchie o se struscia la sua testolina contro l'apparecchio.
Il mare, quello no.
Possono raccontarti, dirti se è calmo, agitato, liscio come l'olio, se sembra un lago o l'inferno delle onde. Se fa danni con la sua potenza, se è pulito e cristallino.
Le parole però non saranno mai abbastanza, così come le foto che ti faranno sentire ancora più sola, orfana delle sue onde quando a luglio, la domenica, tutti se lo stanno gustando e tu hai davanti agli occhi una pozza verde indegna di essere chiamata allo stesso modo.
Ogni anno aspetto agosto come un miracolo.
Si, vanno bene le ferie, le vacanze. La lontananza dalla routine, dalle facce che vedi tutti i giorni per un anno intero.
Io, però, attendo agosto per lui, per il mare.
Come lui, nessuno mai.
Con cosa potrei mai sostituire la sensazione dei piedi che affondano sulla sabbia? Il freddo dell'acqua, i brividi dietro la schiena ogni volta che ti ci immergi? E il sapore, l'odore di quel sale che ti rimane attaccato alla pelle scottata dal sole?
Cura di ogni male, ricchezza per chi vive grazie a lui. Estasi, relax. Amore. Musica.
E' un miracolo il mare. Il mio. E per me lo è sempre stato.
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domenica 24 agosto 2014
Il tempo vola
Il tempo vola.
Ma vola in un modo che non riesco a spiegare.
Ieri mi preparavo alle vacanze, fantasticavo sulle mie giornate al mare, pianificavo itinerari e cose da fare. Ponderavo con quale protezione solare stringere un rapporto di sincera amicizia e con quale libro trascorrere le ore sotto al sole.
Oggi mi ritrovo a guardare nauseata una valigia già troppo piena, a poche ore da un’ennesima partenza. La guardo con leggero disgusto, perché so dove mi porterà.
Il problema, comunque, non è la destinazione in sé. Il problema è che trascinarla ancora una volta su per tre quarti d’Italia significa, adesso, la conclusione ufficiale delle vacanze. Significa tornare a pianificare spese, pulizie, interessi, uscite, bollette, beghe. Incastrare tutto con il lavoro e cercare di uscirne viva.
Lo scopo delle mie vacanze era prendere tempo per me. Isolarmi un poco dentro alla stanza più solitaria della casa e pensare a quello che voglio fare, l’anno “nuovo”. Ho un paio dei nuovi obiettivi, tanti. Se li conto non mi basta una mano per ricordarmeli tutti. Vogliono sopperire all’apatia dell’anno conclusosi a luglio, all’incapacità di fare qualsiasi altra cosa che non fosse legata a quello che alcuni definiscono il mio strano lavoro.
E io mi auguro da sola, dal profondo del mio cuore, di avere tutta la serenità che serve per fare tutto. La stessa che non ho avuto l’anno scorso.
Da queste vacanze mi porto dietro l’affetto delle persone care.
Dopo un anno di volti nuovi, avevo bisogno di un po’ di stasi. Necessitavo di girare per le mie vie, per i miei mari, guardarmi attorno e vedere espressioni rassicuranti, fiduciose. Mi serviva guardare dentro agli occhi delle persone che conosco, di quelle che so cosa pensano e tirare un piccolo sospiro di sollievo.
Mi serviva passeggiare a mare, sui sassi roventi dal sole. Mi serviva stare ferma a fissare le onde e gettarci dentro dei sassolini, ogni tanto.
Avevo bisogno di ritrovarmi, come dicevo nel post precedente.
Penso di esserci riuscita, prendendo un pezzettino di me dentro agli occhi delle persone con cui sono cresciuta.
Ho ripreso possesso della mia dolcezza: l’ho trovata nello sguardo di C.
La zia invece mi ha ridato la determinazione. Mia sorella quel menefreghismo che serve per non prendere tutto troppo pesantemente. Mia madre la fermezza delle idee; mio fratello l’ironia.
Il mio Gatto la bellezza del riposo; I. la voglia di divertirsi.
E poi il bisogno di sognare, quello l’ho preso ancora da C.
La bellezza di una famiglia, di bambini che fanno casino per casa: me l’hanno data i miei cugini, con le loro famiglie belle.
E ancora: la saggezza, i valori di un tempo … per quelli mi è bastato andare a trovare i nonni al cimitero.
La pacatezza dei modi di fare della gente di qua, perché c’è tempo per tutto, anche per un caffè con chi non vedi da tanto.
E ora che ci ho pensato, che ho riflettuto, adesso che tutti o quasi i pezzi della Chiara di un tempo sono stati messi a posto, forse posso dire di essere pronta.
Forse ci sono, è il momento giusto.
Quello di prendere di nuovo la valigia, pesante come sempre, e ricominciare.
Ma vola in un modo che non riesco a spiegare.
Ieri mi preparavo alle vacanze, fantasticavo sulle mie giornate al mare, pianificavo itinerari e cose da fare. Ponderavo con quale protezione solare stringere un rapporto di sincera amicizia e con quale libro trascorrere le ore sotto al sole.
Oggi mi ritrovo a guardare nauseata una valigia già troppo piena, a poche ore da un’ennesima partenza. La guardo con leggero disgusto, perché so dove mi porterà.
Il problema, comunque, non è la destinazione in sé. Il problema è che trascinarla ancora una volta su per tre quarti d’Italia significa, adesso, la conclusione ufficiale delle vacanze. Significa tornare a pianificare spese, pulizie, interessi, uscite, bollette, beghe. Incastrare tutto con il lavoro e cercare di uscirne viva.
Lo scopo delle mie vacanze era prendere tempo per me. Isolarmi un poco dentro alla stanza più solitaria della casa e pensare a quello che voglio fare, l’anno “nuovo”. Ho un paio dei nuovi obiettivi, tanti. Se li conto non mi basta una mano per ricordarmeli tutti. Vogliono sopperire all’apatia dell’anno conclusosi a luglio, all’incapacità di fare qualsiasi altra cosa che non fosse legata a quello che alcuni definiscono il mio strano lavoro.
E io mi auguro da sola, dal profondo del mio cuore, di avere tutta la serenità che serve per fare tutto. La stessa che non ho avuto l’anno scorso.
Da queste vacanze mi porto dietro l’affetto delle persone care.
Dopo un anno di volti nuovi, avevo bisogno di un po’ di stasi. Necessitavo di girare per le mie vie, per i miei mari, guardarmi attorno e vedere espressioni rassicuranti, fiduciose. Mi serviva guardare dentro agli occhi delle persone che conosco, di quelle che so cosa pensano e tirare un piccolo sospiro di sollievo.
Mi serviva passeggiare a mare, sui sassi roventi dal sole. Mi serviva stare ferma a fissare le onde e gettarci dentro dei sassolini, ogni tanto.
Avevo bisogno di ritrovarmi, come dicevo nel post precedente.
Penso di esserci riuscita, prendendo un pezzettino di me dentro agli occhi delle persone con cui sono cresciuta.
Ho ripreso possesso della mia dolcezza: l’ho trovata nello sguardo di C.
La zia invece mi ha ridato la determinazione. Mia sorella quel menefreghismo che serve per non prendere tutto troppo pesantemente. Mia madre la fermezza delle idee; mio fratello l’ironia.
Il mio Gatto la bellezza del riposo; I. la voglia di divertirsi.
E poi il bisogno di sognare, quello l’ho preso ancora da C.
La bellezza di una famiglia, di bambini che fanno casino per casa: me l’hanno data i miei cugini, con le loro famiglie belle.
E ancora: la saggezza, i valori di un tempo … per quelli mi è bastato andare a trovare i nonni al cimitero.
La pacatezza dei modi di fare della gente di qua, perché c’è tempo per tutto, anche per un caffè con chi non vedi da tanto.
E ora che ci ho pensato, che ho riflettuto, adesso che tutti o quasi i pezzi della Chiara di un tempo sono stati messi a posto, forse posso dire di essere pronta.
Forse ci sono, è il momento giusto.
Quello di prendere di nuovo la valigia, pesante come sempre, e ricominciare.
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giovedì 14 agosto 2014
Estate
Sono tornata al punto di partenza, alle origini, alle radici, a quella terra in cui sono cresciuta.
Ho fatto la valigia, l’ho caricata a più non posso con la scusa che sarei rimasta via un mese intero, riempiendola dell’utile e del meno utile con l’illusione che tutto lì dentro sarebbe stato indispensabile. Mi ci sono seduta sopra, alla fine, per chiuderla.
Il peso non mi spaventava: ho braccia abbastanza forti e un’esperienza di carichi e scarichi da annotare su qualche improbabile cv. E poi questa volta non ero sola a dover portare quel carico enorme da un treno all’altro. Questa volta c’era lui.
L’ho portato con me, al mio punto di partenza, alle origini, alle radici, a quella terra in cui sono cresciuta.
L’ho portato con me perché ad un certo punto – tra le altre cose – ho pensato che le parole non bastassero più. Che non fosse più sufficiente spiegargli a voce quanto fosse bello il mio mare, quante emozioni potesse regalarmi un tramonto o quanto chiassosa e battagliera fosse la mia famiglia, quanto dolci i miei amici.
C’era bisogno di qualcosa in più, c’era bisogno di vedere tutto questo: di fermarsi a sentire il rumore del mare o vederci i propri piedi dentro senza sforzo alcuno. C’era bisogno di alzare il naso all’insù e lasciarsi confondere dalle troppe bellezze del mio paese. C’era bisogno di sentire i miei racconti, i miei ricordi, la storia della mia famiglia, come sottofondo di tutto quello che lo avrebbe circondato.
E così è stato.
Gli ho fatto conoscere tutti: la mia famiglia chiassosa insieme ai suoi silenzi, ai suoi vuoti o alle troppe parole. I miei amici, nessuno escluso. Qualche professore, qualche maestra d’asilo, qualche vicino di casa, qualcuno che nel bene o nel male ha incrociato la mia vita negli anni passati.
Li incontravo, così per caso nelle vie, li salutavo, glieli presentavo e quando andavano via gli raccontavo i miei ricordi legati a quelle persone.
Adesso, forse, mi conosce di più.
E adesso, forse, mi conosco meglio anche io.
E la particolarità di tutto ciò è stato il fatto che vederlo qui, tra la mia gente, non mi è sembrata affatto una novità. Mi è sembrato che lui qui ci fosse sempre stato.
Adesso le mie giornate nascono e muoiono al mare. Ho preso i chili che avevo perso, con sommo dispiacere. Sono diventata nera, come ogni anno. Ho lasciato l’orologio in valigia, lo stesso che qualche settimana fa ritenevo fosse per me indispensabile. Cammino senza correre, mi fermo a guardare i tramonti e a fotografare tutto quello che mi piace. Faccio colazione sul terrazzo, mi sveglio quando capita e dormo nove ore a notte.
Sono in vacanza e non capitava da un po’.
Mi sono ritrovata, ma non ancora del tutto.
È che io di solito mi perdo, in inverno, tra la pioggia e il tempo grigio.
Quest’anno mi sono persa più del solito e così non è andato per niente bene.
Adesso bisogna che ricomponga i tasselli, li metta tutti al loro posto.
Un po’ ci sono riuscita, ma il quadro non è ancora completo.
Mi serve il mare, ancora per un po’.
Ho fatto la valigia, l’ho caricata a più non posso con la scusa che sarei rimasta via un mese intero, riempiendola dell’utile e del meno utile con l’illusione che tutto lì dentro sarebbe stato indispensabile. Mi ci sono seduta sopra, alla fine, per chiuderla.
Il peso non mi spaventava: ho braccia abbastanza forti e un’esperienza di carichi e scarichi da annotare su qualche improbabile cv. E poi questa volta non ero sola a dover portare quel carico enorme da un treno all’altro. Questa volta c’era lui.
L’ho portato con me, al mio punto di partenza, alle origini, alle radici, a quella terra in cui sono cresciuta.
L’ho portato con me perché ad un certo punto – tra le altre cose – ho pensato che le parole non bastassero più. Che non fosse più sufficiente spiegargli a voce quanto fosse bello il mio mare, quante emozioni potesse regalarmi un tramonto o quanto chiassosa e battagliera fosse la mia famiglia, quanto dolci i miei amici.
C’era bisogno di qualcosa in più, c’era bisogno di vedere tutto questo: di fermarsi a sentire il rumore del mare o vederci i propri piedi dentro senza sforzo alcuno. C’era bisogno di alzare il naso all’insù e lasciarsi confondere dalle troppe bellezze del mio paese. C’era bisogno di sentire i miei racconti, i miei ricordi, la storia della mia famiglia, come sottofondo di tutto quello che lo avrebbe circondato.
E così è stato.
Gli ho fatto conoscere tutti: la mia famiglia chiassosa insieme ai suoi silenzi, ai suoi vuoti o alle troppe parole. I miei amici, nessuno escluso. Qualche professore, qualche maestra d’asilo, qualche vicino di casa, qualcuno che nel bene o nel male ha incrociato la mia vita negli anni passati.
Li incontravo, così per caso nelle vie, li salutavo, glieli presentavo e quando andavano via gli raccontavo i miei ricordi legati a quelle persone.
Adesso, forse, mi conosce di più.
E adesso, forse, mi conosco meglio anche io.
E la particolarità di tutto ciò è stato il fatto che vederlo qui, tra la mia gente, non mi è sembrata affatto una novità. Mi è sembrato che lui qui ci fosse sempre stato.
Adesso le mie giornate nascono e muoiono al mare. Ho preso i chili che avevo perso, con sommo dispiacere. Sono diventata nera, come ogni anno. Ho lasciato l’orologio in valigia, lo stesso che qualche settimana fa ritenevo fosse per me indispensabile. Cammino senza correre, mi fermo a guardare i tramonti e a fotografare tutto quello che mi piace. Faccio colazione sul terrazzo, mi sveglio quando capita e dormo nove ore a notte.
Sono in vacanza e non capitava da un po’.
Mi sono ritrovata, ma non ancora del tutto.
È che io di solito mi perdo, in inverno, tra la pioggia e il tempo grigio.
Quest’anno mi sono persa più del solito e così non è andato per niente bene.
Adesso bisogna che ricomponga i tasselli, li metta tutti al loro posto.
Un po’ ci sono riuscita, ma il quadro non è ancora completo.
Mi serve il mare, ancora per un po’.
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mercoledì 16 luglio 2014
Battiti
Sere di inizio estate, sere di caldo quasi assente e di zanzare in agguato.
Sere che sanno di zampirone, di partite di calcio. Di solitudine casalinga, di libertà da chi per tanti mesi ha abitato dentro queste quattro mura.
Sere passate su un divano vecchio e polveroso, con la testa poggiata sul suo petto a guardare la televisione di traverso, a dimostrare vago interesse per undici persone che seguono un pallone su un campo di erba verde. Eppure a stare così, con la testa poggiata sul suo petto, mi sento la persona più fortunata di questo mondo.
Rigorosamente a sinistra, mi piace tenere l’orecchio proprio sul suo cuore, sentirne i battiti forti.
Musica per le mie orecchie, senso di sicurezza. Di pace, di serenità.
Tra le braccia forti, tra l’amore più bello che la vita mi ha fino ad ora regalato, io mi sento come mai prima di adesso tranquilla, appagata, serena, rilassata.
Non so se tutti i cuori facciano lo stesso rumore, se battano tutti allo stesso modo. Ci pensavo, l’altra sera.
Oggi un cliente vecchio e ormai sordo, giustificandosi per non riuscire a capire subito le cose che gli dicevo, mi ha confessato che da piccolo il suo udito era talmente infallibile da riuscire a sentire i battiti dei cuori dei suoi compagni d’infanzia, quando insieme giocavano a nascondino, mille anni fa.
Avrei potuto chiederlo a lui, se i cuori quando battono fanno tutti lo stesso rumore.
Sere che sanno di zampirone, di partite di calcio. Di solitudine casalinga, di libertà da chi per tanti mesi ha abitato dentro queste quattro mura.
Sere passate su un divano vecchio e polveroso, con la testa poggiata sul suo petto a guardare la televisione di traverso, a dimostrare vago interesse per undici persone che seguono un pallone su un campo di erba verde. Eppure a stare così, con la testa poggiata sul suo petto, mi sento la persona più fortunata di questo mondo.
Rigorosamente a sinistra, mi piace tenere l’orecchio proprio sul suo cuore, sentirne i battiti forti.
Musica per le mie orecchie, senso di sicurezza. Di pace, di serenità.
Tra le braccia forti, tra l’amore più bello che la vita mi ha fino ad ora regalato, io mi sento come mai prima di adesso tranquilla, appagata, serena, rilassata.
Non so se tutti i cuori facciano lo stesso rumore, se battano tutti allo stesso modo. Ci pensavo, l’altra sera.
Oggi un cliente vecchio e ormai sordo, giustificandosi per non riuscire a capire subito le cose che gli dicevo, mi ha confessato che da piccolo il suo udito era talmente infallibile da riuscire a sentire i battiti dei cuori dei suoi compagni d’infanzia, quando insieme giocavano a nascondino, mille anni fa.
Avrei potuto chiederlo a lui, se i cuori quando battono fanno tutti lo stesso rumore.
mercoledì 16 aprile 2014
Ho il blocco dello scrittore
Ho il blocco dello scrittore.
Ho che il mio computer conta decine di files word recanti l’anonimo titolo “Nuovo documento di Microsoft office word”, seguito da due parentesi tonde racchiudenti una serie crescente di numeri. Dentro ci sono scritte parole, una dietro le altre. Solo inizi, incipit, come gravidanze che non vanno in porto.
Inizio a scrivere, cerco di parlare di qualcosa di sensato, di raccontare stati d’animo, situazioni. Provo a farlo nel modo migliore possibile, cercando di seguire un filo logico. Arrivo ad un certo punto e mi fermo, non so andare avanti.
Metto punto, o a volte neanche quello. Fisso lo schermo qualche istante e poi vado in alto a destra, sulla X.
Quando il mio fedele amico mi chiede se intendo salvare le modifiche apportate esito un po’. Indecisa, penso un attimo. Alla fine salvo sempre, nella speranza di riprendere tutto, di dargli una vita nuova e migliore.
Oggi la serata è fresca, sono reduce da tre giorni sereni di auguri pasquali. Tra colleghi, tra coinquilini, tra famiglie ed amici. Ho dispensato e ricevuto sorrisi come non succedeva da un po’, abbracciato, dato pacche sulle spalle. Ho riso del collega universitario al quale sono passata davanti di corsa, distratta, senza ricambiare il suo caloroso saluto. Ho riso quando poco dopo, al telefono, mi ha detto scherzosamente che sono diventata snob.
Ho spacchettato un regalo, ho ricevuto un peluche. Un pensiero che mi ha fatto passare il pomeriggio con un sorriso enorme stampato in faccia. Erano anni che non ricevevo regali di questo tipo. Da bambina amavo i peluche, la mia camera ne contava forse un centinaio tra grandi e piccoli. Finiti tutti in un sacco grande e nero, in un angolo nascosto di casa.
Ho passato il pomeriggio con gli occhi che ridevano di gioia come un pargolo cinquenne, a dare un bacio ogni mezz’ora a quel tesoro che ho accanto. Ho fatto la valigia, ‘chè c’è da prendere il treno e partire.
E in quest’esplosione di felicità semplice e bella mi è arrivata una telefonata. Tre minuti soli sono bastati a fare crollare tutto di nuovo. Le parole, in fila, da non ascoltare. Fare i conti di nuovo con quella fragilità che cerco di nascondere con tutte le mie forze.
Le parole prima; i pensieri, dopo.
Le riflessioni.
Faccia a faccia con le mie debolezze. Con la consapevolezza che gli affetti, nella vita di ognuno, sono diversi. Che se ti è mancato qualcosa, te lo ricorderai a vita.
Che se quel qualcosa che ti è mancato è un affetto per così dire fondamentale, non c’è niente da fare. Nessuno, per quanto amore ti possa dare, potrà sostituirlo mai.
L’affetto di una madre è l’affetto di una madre.
L’affetto di un padre è l’affetto di un padre.
Così come quello di un’amica, di una sorella, di un fratello, di un fidanzato è l’affetto di un’amica, di una sorella, di un fratello di un fidanzato.
E basta.
Nessuno sostituisce nessuno in toto.
Ecco, a me è mancato qualcosa. Manca tutt’ora. Manca anche adesso che ho accanto qualcuno che amo e che mi ama. Si impara a convivere con queste assenze, forse ci si fa l’abitudine. Si finge che tutto sia normale. Si va avanti, a fatica, con i pugni stretti.
E così, ancora una volta, scrivere penso mi faccia bene. Rende le cose più sopportabili.
Nulla importa se sotto la doccia l’acqua si confonde con le lacrime.
Basta uscire ed asciugarsi.
Ho che il mio computer conta decine di files word recanti l’anonimo titolo “Nuovo documento di Microsoft office word”, seguito da due parentesi tonde racchiudenti una serie crescente di numeri. Dentro ci sono scritte parole, una dietro le altre. Solo inizi, incipit, come gravidanze che non vanno in porto.
Inizio a scrivere, cerco di parlare di qualcosa di sensato, di raccontare stati d’animo, situazioni. Provo a farlo nel modo migliore possibile, cercando di seguire un filo logico. Arrivo ad un certo punto e mi fermo, non so andare avanti.
Metto punto, o a volte neanche quello. Fisso lo schermo qualche istante e poi vado in alto a destra, sulla X.
Quando il mio fedele amico mi chiede se intendo salvare le modifiche apportate esito un po’. Indecisa, penso un attimo. Alla fine salvo sempre, nella speranza di riprendere tutto, di dargli una vita nuova e migliore.
Oggi la serata è fresca, sono reduce da tre giorni sereni di auguri pasquali. Tra colleghi, tra coinquilini, tra famiglie ed amici. Ho dispensato e ricevuto sorrisi come non succedeva da un po’, abbracciato, dato pacche sulle spalle. Ho riso del collega universitario al quale sono passata davanti di corsa, distratta, senza ricambiare il suo caloroso saluto. Ho riso quando poco dopo, al telefono, mi ha detto scherzosamente che sono diventata snob.
Ho spacchettato un regalo, ho ricevuto un peluche. Un pensiero che mi ha fatto passare il pomeriggio con un sorriso enorme stampato in faccia. Erano anni che non ricevevo regali di questo tipo. Da bambina amavo i peluche, la mia camera ne contava forse un centinaio tra grandi e piccoli. Finiti tutti in un sacco grande e nero, in un angolo nascosto di casa.
Ho passato il pomeriggio con gli occhi che ridevano di gioia come un pargolo cinquenne, a dare un bacio ogni mezz’ora a quel tesoro che ho accanto. Ho fatto la valigia, ‘chè c’è da prendere il treno e partire.
E in quest’esplosione di felicità semplice e bella mi è arrivata una telefonata. Tre minuti soli sono bastati a fare crollare tutto di nuovo. Le parole, in fila, da non ascoltare. Fare i conti di nuovo con quella fragilità che cerco di nascondere con tutte le mie forze.
Le parole prima; i pensieri, dopo.
Le riflessioni.
Faccia a faccia con le mie debolezze. Con la consapevolezza che gli affetti, nella vita di ognuno, sono diversi. Che se ti è mancato qualcosa, te lo ricorderai a vita.
Che se quel qualcosa che ti è mancato è un affetto per così dire fondamentale, non c’è niente da fare. Nessuno, per quanto amore ti possa dare, potrà sostituirlo mai.
L’affetto di una madre è l’affetto di una madre.
L’affetto di un padre è l’affetto di un padre.
Così come quello di un’amica, di una sorella, di un fratello, di un fidanzato è l’affetto di un’amica, di una sorella, di un fratello di un fidanzato.
E basta.
Nessuno sostituisce nessuno in toto.
Ecco, a me è mancato qualcosa. Manca tutt’ora. Manca anche adesso che ho accanto qualcuno che amo e che mi ama. Si impara a convivere con queste assenze, forse ci si fa l’abitudine. Si finge che tutto sia normale. Si va avanti, a fatica, con i pugni stretti.
E così, ancora una volta, scrivere penso mi faccia bene. Rende le cose più sopportabili.
Nulla importa se sotto la doccia l’acqua si confonde con le lacrime.
Basta uscire ed asciugarsi.
domenica 9 marzo 2014
Mercatini dell'usato
Ci sono delle mattine di sabato in cui mi sveglio con l’umore indefinito ed esco di casa senza rifare il letto, senza fare colazione, senza neanche truccarmi. Per strada incontro una ragazza che non vedevo da anni. Mi ferma, scambiamo due chiacchiere e poi torniamo a dedicarci alle nostre vie.
Vie che mi portano al mercatino dell’usato, così, senza un sufficiente valido motivo.
In realtà ogni tanto mi piace andarci e farmi intossicare dalla polvere di quel capannone. Mi piace uscirci solo quando sento sulle dite una patina fastidiosa che mi porta a lavarmi le mani appena varcata la soglia di casa.
Lì dentro si trova roba di ogni tipo: vestiario, biancheria, oggetti per la casa, elettrodomestici, mobili …
C’è un bell’angolo invaso da libri di ogni genere. Una libreria che vanta innumerevoli copie di Moccia e Volo, in primis. Per il resto, si trovano anche titoli interessanti, a prezzi bassissimi.
Mi piace curiosare soprattutto tra la roba per la casa. Ci sono servizi di piatti e bicchieri, porcellane, oggetti strani che probabilmente un tempo appartenevano alla categoria di quelle oscene bomboniere che si rifilano agli invitati dopo i matrimoni. Ecco, il mercatino dell’usato forse è il loro posto adatto.
Guardare quegli oggetti mi mette in testa un paio di interrogativi. Mi porta a scavare nelle vite degli altri, dei vecchi proprietari, di cosa li ha spinti a disfarsi delle proprie cose.
Se quel posto fosse il mio, passerei le giornate a chiedere ai clienti la storia di ogni cianfrusaglia che portano. Magari proprio per questo, andrei in fallimento.
Anche io ho venduto lì qualcosa, in occasione di un trasloco: regali non fatti col cuore, provenienti da persone che senza ombra di dubbio mi odiano. Ho portato anche dei libri che non mi sono piaciuti, dei vestiti e delle borse che non mettevo mai. Anche se volevo disfarmene, quelle cose avevano dietro un racconto, un aneddoto più o meno simpatico su una storia passata.
Il volermi intrufolare nelle vite degli altri è un mio difetto. La regola è la discrezione, è il passare sempre inosservati, cercare di nascondere agli occhi della gente di fretta la mia curiosità. Una regola che rispetto sempre in modo eccellente, per fortuna.
Ci sono dei sabati in cui torno a casa con l’umore un po’ più definito rispetto al momento precedente in cui sono uscita. Sabati che … la prima cosa che faccio appena varco la soglia di casa è fiondarmi in bagno a lavarmi le dita piene di quella patina fastidiosa.
E poi mi ritrovo seduta alla scrivania della mia camera profumata ed appena lavata da cima a fondo, con le finestre spalancate ed il sole caldo che batte proprio lì dove sono, a scrivere di questa mattinata.
Che di particolare non ha niente.
O forse tutto.
Vie che mi portano al mercatino dell’usato, così, senza un sufficiente valido motivo.
In realtà ogni tanto mi piace andarci e farmi intossicare dalla polvere di quel capannone. Mi piace uscirci solo quando sento sulle dite una patina fastidiosa che mi porta a lavarmi le mani appena varcata la soglia di casa.
Lì dentro si trova roba di ogni tipo: vestiario, biancheria, oggetti per la casa, elettrodomestici, mobili …
C’è un bell’angolo invaso da libri di ogni genere. Una libreria che vanta innumerevoli copie di Moccia e Volo, in primis. Per il resto, si trovano anche titoli interessanti, a prezzi bassissimi.
Mi piace curiosare soprattutto tra la roba per la casa. Ci sono servizi di piatti e bicchieri, porcellane, oggetti strani che probabilmente un tempo appartenevano alla categoria di quelle oscene bomboniere che si rifilano agli invitati dopo i matrimoni. Ecco, il mercatino dell’usato forse è il loro posto adatto.
Guardare quegli oggetti mi mette in testa un paio di interrogativi. Mi porta a scavare nelle vite degli altri, dei vecchi proprietari, di cosa li ha spinti a disfarsi delle proprie cose.
Se quel posto fosse il mio, passerei le giornate a chiedere ai clienti la storia di ogni cianfrusaglia che portano. Magari proprio per questo, andrei in fallimento.
Anche io ho venduto lì qualcosa, in occasione di un trasloco: regali non fatti col cuore, provenienti da persone che senza ombra di dubbio mi odiano. Ho portato anche dei libri che non mi sono piaciuti, dei vestiti e delle borse che non mettevo mai. Anche se volevo disfarmene, quelle cose avevano dietro un racconto, un aneddoto più o meno simpatico su una storia passata.
Il volermi intrufolare nelle vite degli altri è un mio difetto. La regola è la discrezione, è il passare sempre inosservati, cercare di nascondere agli occhi della gente di fretta la mia curiosità. Una regola che rispetto sempre in modo eccellente, per fortuna.
Ci sono dei sabati in cui torno a casa con l’umore un po’ più definito rispetto al momento precedente in cui sono uscita. Sabati che … la prima cosa che faccio appena varco la soglia di casa è fiondarmi in bagno a lavarmi le dita piene di quella patina fastidiosa.
E poi mi ritrovo seduta alla scrivania della mia camera profumata ed appena lavata da cima a fondo, con le finestre spalancate ed il sole caldo che batte proprio lì dove sono, a scrivere di questa mattinata.
Che di particolare non ha niente.
O forse tutto.
sabato 15 febbraio 2014
"Sento il mare dentro una conchiglia"*
Ci sono momenti in cui mi odio.
Odio il carattere che mi ritrovo, o alcune parti di esso. Quando sembro scontrosa, imbronciata, scocciata, insofferente. Quando quello che mi circonda mi dà fastidio, quando non riesco ad apprezzare le persone che mi stanno accanto.
E così mi piace stare da sola, rintanarmi nella mia camera e non fare niente. Isolarmi un po’ dal mondo, sola con quei pensieri da risolvere, senza sapere da dove cominciare. Oppure mi piace camminare, senza nessuno accanto, senza meta. Vagare per la città, evitando possibilmente i posti dove so di poter incontrare qualcuno che mi conosce. Dimenticarmi volutamente il cellulare in borsa, silenzioso. Prelevarlo solo ogni tanto, per evitare che qualcuno si preoccupi ingiustificatamente della mia assenza.
Oggi mi sono ritrovata in un negozio di quelli enormi, dove vendono solo prodotti per l’igiene della casa e della persona. Mi piace coccolarmi la sera, dopo giornatacce di lavoro intenso, buttandomi di corsa sotto una doccia bollente con un bagnoschiuma profumato.
Oggi sono andata a cercarne un altro, di bagnoschiuma. Ho ponderato la mia scelta per un quarto d’ora abbondante, annusando furtivamente tutte le confezioni, cercando di non essere beccata in flagrante da qualche commessa più acida di me. Alla fine la mia scelta è ricaduta su uno alla vaniglia, con la confezione di un giallo un po’ spento.
Nel tragitto verso la cassa ho adocchiato un espositore di creme solari, le ho guardate distrattamente pensando a quanto fossero fuori luogo, in pieno febbraio. Potrebbero essere l’acquisto perfetto di quella strana gente che va in vacanza nelle località esotiche in pieno inverno e se ne vanta apertamente con amici e colleghi. Odio anche quella gente, sempre. O forse la invidio, perché loro possono ed io no.
E mentre formulo pensieri acidi, verso persone che neanche conosco, alla radio sento una canzone che mi ricorda l’estate. Così, a tradimento. O forse a sorpresa.
Leggermente divertita dalla cosa, decido di fare dietro front. Vado di nuovo verso l’espositore delle creme solari, ne afferro una blu, quella che di solito uso in estate. L’apro, ne sento l’odore ad occhi chiusi, per un attimo, quello che basta ad accendere i ricordi. Poi poso tutto, torno alla realtà, pago ed esco.
Torno a casa e mi odio un po’ meno.
Odio un po’ meno sia me che gli altri.
E decido che l’unico modo per stare meglio è andare al mare più vicino domani, fregandomene degli innumerevoli chilometri da fare, non curandomi del fatto che sia totalmente diverso dal mio.
Con la speranza che sia possibile, con l’augurio che il suo odore, la sua brezza, possano in qualche modo riconciliarmi con il mondo.
*Estate - Jovanotti
Odio il carattere che mi ritrovo, o alcune parti di esso. Quando sembro scontrosa, imbronciata, scocciata, insofferente. Quando quello che mi circonda mi dà fastidio, quando non riesco ad apprezzare le persone che mi stanno accanto.
E così mi piace stare da sola, rintanarmi nella mia camera e non fare niente. Isolarmi un po’ dal mondo, sola con quei pensieri da risolvere, senza sapere da dove cominciare. Oppure mi piace camminare, senza nessuno accanto, senza meta. Vagare per la città, evitando possibilmente i posti dove so di poter incontrare qualcuno che mi conosce. Dimenticarmi volutamente il cellulare in borsa, silenzioso. Prelevarlo solo ogni tanto, per evitare che qualcuno si preoccupi ingiustificatamente della mia assenza.
Oggi mi sono ritrovata in un negozio di quelli enormi, dove vendono solo prodotti per l’igiene della casa e della persona. Mi piace coccolarmi la sera, dopo giornatacce di lavoro intenso, buttandomi di corsa sotto una doccia bollente con un bagnoschiuma profumato.
Oggi sono andata a cercarne un altro, di bagnoschiuma. Ho ponderato la mia scelta per un quarto d’ora abbondante, annusando furtivamente tutte le confezioni, cercando di non essere beccata in flagrante da qualche commessa più acida di me. Alla fine la mia scelta è ricaduta su uno alla vaniglia, con la confezione di un giallo un po’ spento.
Nel tragitto verso la cassa ho adocchiato un espositore di creme solari, le ho guardate distrattamente pensando a quanto fossero fuori luogo, in pieno febbraio. Potrebbero essere l’acquisto perfetto di quella strana gente che va in vacanza nelle località esotiche in pieno inverno e se ne vanta apertamente con amici e colleghi. Odio anche quella gente, sempre. O forse la invidio, perché loro possono ed io no.
E mentre formulo pensieri acidi, verso persone che neanche conosco, alla radio sento una canzone che mi ricorda l’estate. Così, a tradimento. O forse a sorpresa.
Leggermente divertita dalla cosa, decido di fare dietro front. Vado di nuovo verso l’espositore delle creme solari, ne afferro una blu, quella che di solito uso in estate. L’apro, ne sento l’odore ad occhi chiusi, per un attimo, quello che basta ad accendere i ricordi. Poi poso tutto, torno alla realtà, pago ed esco.
Torno a casa e mi odio un po’ meno.
Odio un po’ meno sia me che gli altri.
E decido che l’unico modo per stare meglio è andare al mare più vicino domani, fregandomene degli innumerevoli chilometri da fare, non curandomi del fatto che sia totalmente diverso dal mio.
Con la speranza che sia possibile, con l’augurio che il suo odore, la sua brezza, possano in qualche modo riconciliarmi con il mondo.
*Estate - Jovanotti
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