Il sodalizio moda e musica va alla grande e da molto, molto tempo. Prendiamo, per dirne una, Rihanna: dopo aver conquistato le attenzioni dei brand più fighi in circolazione, grazie anche a uno styling che ogni donna vorrebbe provare almeno una volta nella vita, Riri in parallelo alla sua carriera come artista si è fatta un nome anche nel mondo della moda, prima come direttrice creativa di FENTY by Puma, successivamente lanciando l’omonimo brand di beauty e poi Savage, linea di lingerie super inclusive. Adesso, secondo quanto riportato dalla rivista WWD, starebbe trattando col gruppo LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton per lanciare un nuovo marchio nell’abbigliamento di lusso – evento che non accadeva dal 1987, quando Bernard Arnault, proprietario del gruppo, ha lanciato lo stilista Christian Lacroix.
Negli ultimi anni questo rapporto amoroso ha fatto perdere la testa soprattutto alla scena hip-hop. Chi dei due è stato il primo a fare gli occhi dolci all’altro non possiamo saperlo ma è ormai chiaro che moda e rap sono due realtà che vanno molto, molto d’accordo. Lo stesso Business of Fashion, che è un po’ il Financial Times dell’industria della moda, ne ha attestato longevità e rilevanza culturale in questo dettagliato articolo in cui ripercorre la storia che ha portato il rap a diventare un elemento imprescindibile del fashion contemporaneo. Nell’articolo si ricordano momenti storici come l’apertura della boutique di Dapper Dan nel 1982 ad Harlem, quella volta che i Run-DMC lanciarono il singolo “My Adidas” nel 1986 (guadagnando un endorsement del brand per un valore di 1 milione di dollari), quando Missy Elliott e Madonna divennero testimonial di Gap nel 2003, i suoi “Millionaire Sunglasses” di Pharrell per Louis Vuitton nel 2005.
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Sul perché moda e rapper vadano così a braccetto, la stylist e fashion consultant Aleali May, già collaboratrice di Kendrick Lamar, Lil Yachty e 21 Savage, ci dà un ottimo spunto, dicendo a Bof: “Gli artisti hip-hop raccontano storie e riportano notizie dei loro tempi, e il fatto che l’hip-hop sia il primo genere musicale al mondo dimostra che è lì che si direziona la cultura. E la moda sta dando più attenzione che mai ai suoi consumatori”. Insomma, la moda asseconda il bisogno del consumatore e il rap diventa così il suo alter ego, un Super Saiyan di massimo livello che riesce a parlare alle nuove generazioni e a conquistare una fetta di mercato sempre più vasta.
Tutto questo è un bel casino, lo so. I rapper ormai sfilano durante le Fashion Week: vedi Skepta per Nasir Mazhar SS15 o Young Thug per Philipp Plein a New York. Altri, invece, si improvvisano direttori creativi di brand altamente di tendenza – sto pensando a Kanye West col suo brand YEEZY, ma anche a Tyler, The Creator con Golf Wang, a Skepta con Mains. Intanto il merch si fa sempre più curato e accattivante, e diventa così un punto di riferimento nello streetwear globale – qua Highsnobiety cita alcuni dei capi più fighi nel 2018, come quello di Teyana Taylor per il suo album K.T.S.E o quello dei BROCKHAMPTON, presentato con un vero lookbook.
Molti di voi mi diranno che non è una novità. So anche questo. Basti pensare che già nel 1996 un certo Tupac sfilò per Versace, per non parlare delle varie connessioni tra rapper e abbigliamento che, tra gli anni Novanta e Duemila, sono spuntate come le lentiggini sul mio viso in primavera – ad esempio, nel 1995 il Wu-Tang Clan lancia il proprio brand di streetwear Wu-Wear, mentre nel 2003 Eminem lancia la sua linea Slim Shady.
Oggi, però, qualcosa è cambiato. Non è più la moda che copia la strada, o i rapper che vogliono essere alla moda: dobbiamo parlare di una nuova realtà produttiva di cui è difficile definire i contorni. Il recente boom del fenomeno dello streetwear, che banalmente possiamo definire come tutto ciò che riguarda l’abbigliamento che nasce dalla strada, è stato il Vinavil tra le due realtà—una sorta di Mezzaluna Fertile 2.0 dove moda e rap hanno iniziato a prosperare, creare e vivere in armonia.
Anche l’Italia si è buttata nella mischia. Già da qualche anno anche la moda italiana ha iniziato a corteggiare lo streetwear e ha deciso di stringere forte la mano alla nuova generazione di rapper. Tutto molto bello: abbiamo visto la Dark Polo Gang e Sfera Ebbasta sfilare per Marcelo Burlon (mentre Marracash gli urla “cornuto”), Tedua calcare la passerella di Dolce & Gabbana e Ghali quella di Damir Doma. Anche il merch si è fatto più curato: Noyz Narcos ha la sua Propaganda, con tanto di store in Porta Ticinese a Milano, e ha collaborato col brand milanese Iuter per alcune capsule collection. Sempre con loro anche Gué Pequeno ha stretto amicizia, realizzando insieme una collezione in edizione limitata per omaggiare la data del rapper al Forum di Milano.
Insomma, anche la scena rap italiana ha iniziato a giocare con i vestiti, e sembra cavarsela molto bene, come nel caso di Doomsday. A Salmo, Francesco “Fr3nk” Liori e Andrè Suergiu della moda frega poco: hanno lanciato il loro brand nel 2012, molto prima che i trapper trasformassero il loro merch in linee d’abbigliamento. Lo hanno fatto quasi per scherzo, come una delle tante cazzate che si dicono tra amici, al bar, ma poi ci prendi gusto, e quello che all’inizio sembrava un gioco, alla fine diventa un progetto in cui credere.
Doomsday è un brand in tutti i sensi—quindi attenzione a scambiarlo per il merch di Salmo—ma ai tre amici non interessano i piani studiati al tavolino, le analisi delle tendenze e quant’altro. Ne sono un esempio le grafiche dei loro capi, che richiamano i vecchi B-Movies horror, ma anche lo stile metal e punk-hardcore. È vero che negli ultimi anni i merch dei musicisti hanno attinto molto dall’immaginario metal (vedi quello del “Purpose Tour” di Justin Bieber, ma anche brand di alta moda come Vetements), ma per Doomsday questa scelta stilistica non è dettata dai trend del momento. Si tratta invece di una vera passione che i tre amici nutrono per questo genere, ancora prima di diventare quello che sono oggi. Una linea estetica coerente con tutto l’immaginario, visivamente aggressivo e “hardcore”, che Salmo e Machete in generale propongono e che li contraddistingue da sempre.
È forse questo il vero elemento di rottura di Doomsday rispetto agli altri brand: fare roba punk per lo streetwear. È vero, ci sono tutti i capisaldi del genere, come le felpe oversize, i bomber e i calzettoni in spugna, ma il tutto armato da influenze e contaminazioni lontane da ciò che ti aspetteresti oggi da un brand di streetwear. Non solo, è punk anche nell’attitudine, nel supportarsi tra amici e fare le cose con la propria testa, rischiando di fare qualche cazzata, e fregandosene delle regole del mercato – e, perché no, sfidando un po’ i pezzi grossi della moda.
Noisey: Domanda di rito: come avete iniziato a collaborare insieme? E quali sono le vostre esperienze con lo streetwear o con la moda in generale?
Andrè: Un sacco di tempo fa. Fr3nk, il nostro grafico, lavorava già con Mauri [Salmo, nda] per le sue band precedenti. Abbiamo stretto un rapporto ai tempi del suo primo disco, quando lavorammo insieme al merch. Dopo un anno abbiamo deciso di tirare su un brand a cui ci siamo dedicati un po’ per gioco ma, ridendo e scherzando, siamo arrivati fino ad oggi.
Perché lanciare un brand?
Salmo: Perché viviamo in Italia. Io sto a Milano da 7-8 anni e anche se non me ne è mai fregato un cazzo mi sono accorto che la moda qui è una cosa grossa. Alla fine in America se parlano dell’Italia non lo fanno per il rap, che ti piaccia o meno finiscono sempre per parlare di spaghetti e di moda. Quindi secondo me provare a fare un proprio brand, soprattutto se di streetwear, è una cosa molto intelligente da fare. E poi, come un disco, diventa qualcosa di tuo. Qualcosa che ti rappresenta, che puoi coltivare e far diventare enorme.
Doomsday è nato nel 2012. Secondo me avete anticipato un po’ la tendenza nella scena rap di lanciare brand di moda che è esplosa negli ultimi anni in italia.
Salmo: Dici? [ride] Più che altro, se posso dirlo, siamo stati forse i primi a farlo con questa qualità.
Andrè: C’è molta confusione tra “linea d’abbigliamento” e “merchandising”. Noi abbiamo fatto una separazione netta fin dal principio: il merch dell’artista Salmo è rimasto tale dall’inizio, il brand ha una valenza “da brand”. Nella musica spesso i brand si riducono all’immagine di chi l’ha creato, addirittura spesso si usano solo foto dello stesso artista per venderlo. Ecco, quello è il merch. Si prendono dei blanks di altri brand, dei premade, ci si stampa la serigrafia sopra. Chiamarlo “brand” è un po’ riduttivo, a mio avviso.
Doomsday spicca proprio per questo. È un brand nel vero senso della parola.
Salmo: Diciamo, che all’inizio eravamo un po’ merch anche noi, più o meno. Facevamo le classiche maglie…
Andrè: Sì, però il merch è bello pronto, ci stampi sopra e basta. Un capo di un brand invece viene cucito, tagliato da zero, con i propri cotoni, i propri tagli, che è una roba che noi abbiamo fatto praticamente dal principio.
Quanto è rilevante il nome di Salmo per il brand?
Andrè: Tanto! [Risate, nda] È un’idea nostra, collettiva, e va detto che fare un brand senza una persona importante che lo spinge è chiaramente molto difficile. Poi abbiamo avuto la fortuna di avere amici del circuito rap che ci hanno sempre supportato.
Salmo: Però è stata una cosa naturale. Non abbiamo detto ai rapper di mettersi roba nostra per spingerci, alla fine ci siamo sempre fatti i cazzi nostri. Comunque l’immaginario Doomsday è molto legato al modo in cui siamo cresciuti, alla musica che abbiamo ascoltato. Per molti versi ci avviciniamo più alla roba skate-punk che alla roba rappusa, no?
Andrè: Diciamo di rifarci all’idea di “hardcore” nel senso in cui il termine rimanda a una “famiglia” che si aiuta. Non ci siamo mai messi a fare riunioni o piani quinquennali.
Fr3nk: Siamo sempre stati degli scappati di casa!
Andrè: La cosa più innovativa di Doomsday è che è nato durante un’ondata di “no-logo” ovunque. Intorno al 2012 tutti i brand avevano grafiche minimali che strizzavano un po’ l’occhio all’America. Noi siamo venuti subito fuori con l’immaginario aggressivo che continuiamo a tenere da allora: le mega stampe, l’all-over… è stato un vantaggio e un rischio allo stesso tempo.
Salmo: Volevamo anticipare anche i giubbotti da motocross ma ce li hanno inculati, ha!
Le stampe della collezione SS2019 attingono sia da un immaginario horror da b-movie sia dalle grafiche metal e hardcore. A cosa vi ispirate per le collezioni e che mood volete dare al brand?
Fr3nk: Siamo cresciuti guardando i film dell’orrore, i vecchi film della Universal con Bela Lugosi, i primi Dracula, Frankenstein… i b-movie rimangono una sorgente di immagini da cui attingere, è sempre roba super figa e super trash. “Doomsday” significa “apocalisse”, e quindi restiamo in tema con il mood del marchio. Poi io sono un nerd appassionato di vecchi film horror, Salmo è appassionato di copertine di vinili. Attingiamo sempre a fonti “nostre”, ecco.
Quindi l’elemento “visivo”, la forza dell’immagine, è fondamentale per il brand.
Fr3nk: Certo. Anche Mauri ha sempre tenuto tantissimo all’aspetto visivo, anche prima del brand. Pensa al palco del suo ultimo tour: è una roba mind-blowing. E poi, anche la sua fanbase è una figata, è un pubblico di piccoli mostri. Tutti disegnano a manetta, tutti presi strabene, è una figata.
Salmo: Hanno seguito l’onda, noi abbiamo dato l’input. Vedere delle persone che riescono a seguirci così, che riescono a capire il nostro linguaggio, è importante. Abbiamo tirato fuori un sacco di mostriciattoli che si danno alla grafica, alla fotografia. Abbiamo anche fatto un concorso per trovare nuovi talenti nelle univeristà e scoperto un sacco di fenomeni.
Fr3nk: Lui non lo dice perché è modesto, ma io posso dirlo: ha una fanbase che è diversa dalle altre perché la incoraggia…
Salmo: Se gli fai vedere in che modo sei fatto, loro poi ti seguono. Diventi una calamita, no? Sai come dice il detto, “Chi si somiglia, si piglia”. Quando hai una certa età, come l’abbiamo avuta tutti, sei malleabile. Ti innamori di qualsiasi cosa ti facciano vedere, l’importante è farlo vedere.
Ci sono rapper come Skepta, Travis Scott e alla A$AP Mob, che ha trasformato il suo merch in vere linee d’abbigliamento. Secondo voi questo fenomeno nasce da una vera necessità, da una vera richiesta da parte dei fan di avere un merch più esclusivo e curato, o è un cavalcare l’onda?
Salmo: La seconda [ridono]. Lo fanno con la musica, figurati per i vestiti. Sento molti ragazzi adesso dire “Oh, faccio musica perché voglio svoltare un po’ di soldi”, quando dovrebbe essere il contrario. Figurati con i vestiti.
Fr3nk: Alcuni dei casi che hai citato erano più collabo con dei brand, come quelle che ha fatto Kanye.
Salmo: A me fa schifo la roba di Kanye West, ha! Con quelle scarpe che piacciono solo perché le indossa lui.
Prendendo il caso di Kanye, cosa ne pensate del rapporto tra moda e rap? Per un rapper approdare in un settore come quello della moda può essere una scelta azzardata e incoerente, che rischia magari di ledere la sua immagine?
Salmo: Secondo me per certi versi è stata un po’ una rovina questa storia della moda unita alla musica. È vero che viviamo anni in cui l’apparire è importante, però purtroppo per molti l’immagine è tutto e la musica è niente. Kanye è forte nella moda come nella musica: quando immagine e musica viaggiano alla stessa velocità, hanno la stessa importanza, allora va bene. Però se sai vestirti bene ma la tua musica fa cagare allora probabilmente è meglio che tu faccia moda, ma assurdamente c’è chi ti porta in alto lo stesso. A me da fastidio che la gente non riesce a capire questo concetto e a dare il giusto peso a queste due cose.
Secondo te chi è riuscito a unire moda e musica facendo tutto in modo giusto?
Salmo: Eh, Kanye West. anche perché non mi vengono in mente altri artisti simili…
Fr3nk: Tyler, The Creator! Ha portato un certo tipo di musica, un certo tipo di immaginario, video super curati. E poi ha tirato fuori una linea pazzesca…
Salmo: Vedi, magari adesso lui musicalmente è andato giù e allora continua a fare moda. Probabilmente a un certo punto ha detto “oh la mia musica non va più, proverò coi vestiti…” [risate, nda]
Ma, quindi, questo fenomeno dei rapper che approdano alla moda potrebbe essere interpretato come un segnale che non funzionano più nella musica e allora, per provare a restare a galla, si lanciano in altri progetti, che in questi casi è l’abbigliamento?
Salmo: Sì, probabile, potrebbe succedere anche a me! Magari un giorno la mia musica farà cagare, nessuno se l’ascolterà e allora faremo un brand…
Magari ti vedremo sfilare a Milano!
Salmo: La stiamo già organizzando. Sono andato a tutte le sfilate di tutti i marchi italiani, ovviamente per copiare e capire come funzionano i meccanismi della moda italiana. E poi farla a modo nostro. [risate, nda]
Mi vengono in mente marchi di moda italiani come Dolce & Gabbana e Marcelo Burlon che hanno fatto sfilare noti rapper durante le loro sfilate: come vivete questa apertura della moda alla scena rap anche in Italia?
Fr3nk: Sono belle trovate pubblicitarie.
Salmo: La moda e il rap viaggiano di pari passo, quindi ci sta che brand importanti abbiano chiamato dei rapper… hanno chiamato anche me! Io non ho mai sfilato, e penso che non lo farò perché non ho i requisiti. Come nemmeno gli altri rapper. [risate, nda]
Secondo voi perché proprio la scena rap, che magari può sembrare quella più “lontana” da certe dinamiche di moda, è invece quella più fertile e produttiva nel lancio di brand?
Salmo: Guarda la differenza che c’è tra punk e rap. Il primo è nato in Inghilterra, negli anni Settanta, da figli di borghesi che volevano ribellarsi ai soldi. I rapper erano il contrario. La natura del rapper è avere i soldi e fare la bella vita e quindi, dopo trent’anni di immondezzaio, alla fine sono riusciti ad arrivare a quello che volevano. Infilarsi nella moda, avere bei vestiti. Bling bling, capisci?
Quindi, in un certo senso, per il rap è stata un po’ un’evoluzione naturale, ha raggiunto il suo scopo.
Salmo: Mah, è in Italia che i rapper erano vestiti come scappati di casa, in America i rapper del ghetto già andavano a cercare i marchi fighi e già erano in fissa con roba italiana, però non erano abbastanza famosi e non potevano creare un circuito di soldi. Oggi invece sì, ed ecco perché la moda si è avvicinata così tanto alla scena. È stato Kanye West a sdoganare questa cosa. Secondo me, avrà detto “fanculo qualsiasi brand, mo’ lo faccio io.”
Fr3nk: Che è quello che vuoi fare anche tu, ha!
Andrè: C’è da dire che Kanye è stato anticipato da uno molto più arrogante di lui: Liam Gallagher. Si era fatto un brand molto più stiloso, chiaramente più “inglese”, Pretty Green.
Essendo la scena italiana relativamente piccola, che succede con le sponsorship? Non si rischia di saturare il mercato con gli stessi volti? E, soprattutto, non c’è il rischio di “rovinare” la credibilità e l’immagine dei rapper?
Salmo: Mah, oggi i rapper puntano a sembrare tutti venduti. Prima il rapper voleva essere povero, adesso vuole essere ricco e, soprattutto, vuole sembrare ricco. Quindi degli sponsor non gliene frega un cazzo. Molti ragazzi stanno entrando in questa ottica del materialismo e del consumismo, mentre quando ero ragazzino io era tutto il contrario. Prima la gente diceva “non devi flexare, se flexi sei uno sfigato.”
Secondo voi citare marchi nei testi rap abbia cambiato le abitudini d’acquisto dei ragazzini?
Salmo: Assolutamente sì. Ma qualsiasi cosa, alla fine le parole hanno un peso. Dipende chi le dice, no? Mi ricordo di quando Fabri Fibra in “Applausi” disse “Questo e’ il mio passaparola, questo e’ l’anno ‘abbasso Vibra!’,” un’etichetta di Verona con cui lui era uscito e con cui avevano litigato. Bene: li ha infamati in quella canzone e Vibra è fallita, non si è più sentita. Non so se esiste ancora, ma comunque è morta. Quindi sì, se iniziassi a parlare male di qualche brand sicuramente un danno lo faccio – e poi loro cercherebbero di farlo a me. Volevo poi dire una cosa: mi è capitato di avere tanti vestiti fighissimi, però per l’ultimo live del tour Fr3nk mi ha portato un giubbotto in pelle fatto a mano con una grafica incredibile. Puoi arrivare allo stesso livello dei “veri” brand. Alla fine è solo una questione di nome.
Fr3nk: A me questa cosa dei brand non fa impazzire. È come se avessi visto magari David Bowie, Alice Cooper e Ozzy Osbourne vestiti con la stessa giacca. Secondo me Mauri si deve differenziare da tutta questa roba. È un fatto personale, e quindi mi è partita questa cosa di voler competere con queste grosse aziende e fare le cose fatte in casa. E gli ho fatto un giubbotto dipinto e borchiato da me, insieme ad André e alla nostra stylist Silvia. Però la figata è stato il gesto di Mauri, che ha deciso di indossarla.
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