Quando i fascisti condannavano gli spaghetti

Il vero passato della pastasciutta, detestata dai fascisti. C'è più America e antifascismo nella pasta col burro, che patriottismo italico negli spaghetti col pomodoro.

Quando i fascisti condannavano gli spaghetti

Buffo come l’immaginario collettivo in un paese gastronomicamente orgoglioso come l’Italia, e anche permaloso, possa essere scosso dalle fondamenta grazie a una sola frase: il fascismo condannava gli spaghetti. Ecco quanto raccontano gli audaci Alberto Grandi e Daniele Soffiati, i fondatori del podcast DOI (rispettivamente professore di Storia del Cibo presso l’Università di Parma il primo, e autore il secondo), che hanno appena pubblicato La cucina italiana non esiste bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici”. Si tratta del secondo volume che prosegue “Denominazione di Origine Inventata“, entrambi editi da Mondadori. Ogni capitolo è dedicato al vero volto di un alimento simbolico italiano. L’olio, il pomodoro, la pizza, il vino, il Parmigiano Reggiano, e persino la pasta è raccontata tramite occhi diversi e destabilizzanti: proprio a noi, che ci offendiamo se all’estero spezzano gli spaghetti in due o se mettono il pollo in quella al forno.

In questo 25 aprile prendiamo come esempio la pasta secca che, negli anni del fascismo, era addirittura vietata dal governo perché considerata estera: lo facciamo per ribadire che l’assolutismo e il nazionalismo non fanno bene alla gastronomia. Comunque, ho definito audaci i due autori perché non è affatto scontato avere una voce fuori dal coro nei confronti delle ricette tradizionali, figuriamoci creare un vero e proprio format che intende far crollare tutti i miti (falsi, romanzati e distorti) legati al nostro cibo. Miti che ormai sembrano rappresentare tutta l’esistenza dello Stivale dalla Preistoria all’attualità, reinterpretati a favor di popolarità, e che sono tanto nella testa del popolo quanto nella testa di cuochi e chef che, l’attualità, la costruiscono ogni giorno.

Il fascismo anti-spaghetti

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Parliamo di spaghetti per indicare tutta la pasta secca, alimento tra i più rappresentativi e iconici del nostro Paese sia in casa sia all’estero e che oggi sembra che faccia parte del nostro Dna, “endemica” in senso lato. Ed è proprio l’estero il fulcro del problema. Sì perché l’Italia non era tanto da pasta, agli inizi del Novecento, e addirittura durante il fascismo era mal vista. Ma andiamo per gradi, per non partire subito in quarta con concetti che di questi tempi potrebbero sul serio innescare sommosse e manifesti politici.

La pasta fresca e la pasta secca

Grandi e Soffiati, in uno dei capitoli di “La cucina italiana non esiste”, raccontano il mito della pasta in maniera un po’ differente. In Italia esistevano ricette di pasta fresca qua e là ma questa, fino al Novecento inoltrato, non era l’alimento portante dell’alimentazione degli italiani. Per capirci: la pasta secca esisteva ma in aree molto circoscritte e Napoli era una di queste zone (e gli spaghetti, li, si chiamavano “maccheroni”). Eppure, anche in queste aree (ribadiamo, a N A P O L I) questo alimento era al massimo proposto come poverissimo cibo di strada, in bianco (perché il sugo al pomodoro non era affatto usato da noi, mentre negli States era già commercializzato da tempo) e mangiata con le mani. Al contempo, la pasta secca era già prodotto industriale negli Stati Uniti e non grazie alla presenza di immigrati italiani bensì in modo indipendente.

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Su questo punto, mi risponde Alberto Grandi specificando ulteriormente un passaggio descritto nel proprio libro: “la pasta secca è degli Stati Uniti prima ancora che degli italiani. Col tempo, gli italiani e l’italianità sono stati usati per marketing – tant’è che sulle etichette della pasta americana sono comparse bandiere italiane e la figura di Garibaldi“. Quindi, gli americano hanno ufficializzato la pasta secca al punto da renderne dipendenti gli italiani in America. Questi, essendo ormai legati alla pasta secca americana, la portavano anche ai parenti italiani e fu così che iniziò a diffondersi da noi oltre a Napoli e Sicilia. Soprattutto (o meglio, in più) era questione di materia prima: il grano duro per fare la pasta secca in Italia scarseggiava, ecco perché da noi era additata come di blasfema “importazione” americana – terra che invece ne ha in abbondanza. Vi ricorda qualcosa dell’attualità?

Pasta al burro per festeggiare la caduta di Mussolini

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Pasta secca di grano duro, dicevamo: era pratica americana che gli italiani immigrati avevano portato in patria durante le visite e tramite racconti e lettere ai parenti, in più era un problema produrla per la scarsità del grano duro in Italia. Non solo: il fascismo era fondato sulla retorica della Patria Rurale ( che certamente non mangiava pasta bensì polenta e verdure) e sull’antichità romana, ovvero pane e uva. La pasta non era contemplata dal governo, di conseguenza non era “per i veri italiani”. Ecco che si arriva addirittura alla Battaglia del grano, quando “imposero dazi sul grano di importazione e venne incoraggiata la produzione interna, al fine di rendere l’Italia autosufficiente per il frumento (e di consolidare la base di sostegno del regime tra le classi possidenti della pianura Padana). Meno gli italiani mangiavano pasta, meno grano duro si doveva importare“, si legge a pagina 52.

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Addirittura, lo stesso Mussolini “intervenne in vari congressi medici per esporre le sue teorie in materia alimentare, che escludevano in maniera categorica il consumo di pasta, accusata di ottundere i sensi e quindi di rendere gli italiani meno attivi e meno combattivi“. Ecco che, invece, proprio il fascismo sancì l’irrefrenabile amore per la pasta che tanto cercava di combattere. Alla caduta di Mussolini, la reazione del popolo fu eleggere la pasta come simbolo di liberazione. Si narra (Anzi, DOI lo ha narrato) che la famiglia Cervi organizzò a Campegine, nel reggiano, una festa aperta in cui offrì “quintali di pastasciutta con burro e formaggio” bianca, ovviamente. La pasta era diventata “un piccolo, silenzioso e quotidiano gesto di resistenza nei confronti del regime“.

Fascismo, ma anche Futurismo

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Non tutti ne sono a conoscenza, e collegano il Futurismo ai rumori onomatopeici che Filippo Tommaso Marinetti riuscì a mettere nero su bianco, ma esiste un Manifesto della Cucina Futurista. Risale al 1930 ed è un continuum di quella filosofia che rifiuta il presente lento per esaltare l’industria e la tecnica. Anche la cucina, dunque, per Marinetti, deve essere agire e movimento: l’abolizione della pastasciutta è un chiaro precetto.

Gli autori di DOI riportano un passaggio del Manifesto, in cui si cita il dott. Signorelli: “a differenza del pane e del riso la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato. Ciò porta ad uno squilibrio con disturbi di questi organi. Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo“. Se per i fascisti la pasta rappresentava un estraneo da allontanare, per i futuristi essa rappresentava una “assurda religione gastronomica italiana“. Se è sconvolgente notare quanto siano cambiati usi e costumi in un secolo, lo è ancora di più immaginare cosa potrebbero fare altri cento anni di storia. E la morale di tutto ciò è solo una: il presente non è necessariamente anche passato e futuro, bensì solamente una fase di passaggio.