Piccolo mondo antico/Parte prima/Il gran passo
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CAPITOLO III.
Il gran passo.
Quella stessa sera, alle dieci in punto, l’ingegnere Ribera batteva due colpi discreti alla porta del signor Giacomo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si apriva una finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro di luna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo.»
«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza» disse egli. «Vien subito la servente a verzerghe.»
«Non occorre» rispose l’altro. «Non salgo. È ora di partire. Venga giù Lei addirittura.»
Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le palpebre.
«La mi perdoni» diss’egli nel suo linguaggio misto di tutti gl’ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatissimo. Gavaria propramente necessità...»
«Di cosa?» fece l’ingegnere seccato. La porta si aperse e comparve la gialla faccia grifagna della serva.
«Oh scior parent!» diss’ella rispettosamente. Vantava non so quale affinità con la famiglia dell’ingegnere e lo chiamava sempre così. «A sti ôr chi? L’è staa forsi a trovà la sciora parenta?»
La «sciora parenta» era la sorella dell’ingegnere, la signora Rigey.
L’ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna, vi saluto, neh?» e salì le scale seguito da Marianna col lume.
«Mia riverenza» cominciò il signor Giacomo venendogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconosco la inconvenienza grande, ma propramente...»
Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato sopra un cravattone bianco e una piccola smilza personcina chiusa in un soprabitone nero, esprimeva nei moti convulsivi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhi dolenti, la più comica inquietudine.
«Cosa c’è di nuovo?» chiese l’ingegnere alquanto brusco. Egli, l’uomo più retto e schietto che fosse al mondo, compativa poco le esitazioni del povero timido signor Giacomo.
«La permeta» cominciò il Puttini; e, voltosi alla serva, le disse aspramente:
«Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che ve ciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi! Son paron mi!»
Era la curiosità della serva, la sua noncuranza impertinente delle istruzioni superiori che accendevano nel «sior Zacomo» questo furore dispotico.
«Euh, che diavol d’on omm!» rispose colei, alzando rabbiosamente il lume in aria. «L’ha de vosà a quela manera lì? Coss’el dis, scior parent?»
«Sentite» fece l’ingegnere. «Invece di menar la lingua, non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?»
Marianna se n’andò brontolando e il signor Giacomo si fece ad informare l’ingegnere pregiatissimo con molti ma, se, digo, e propramente, degl’intimi suoi pensieri. Egli aveva promesso di assistere come testimonio alle nozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Castello, gli era venuta una gran paura di compromettersi.
Era primo deputato politico, come si chiamava allora la suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R. Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pasticcio, come la intenderebbe? E quella signora marchesa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; una donna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi. «Ghe xe anca quel maledeto toro!» Questo toro, soggetto d’una questione fra il comune d’Albogasio e l’alpador o appaltatore dell’Alpe, dei pascoli alti, era da due anni un incubo mortale per il povero signor Giacomo che, quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!» E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l’ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d’impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell’ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso «in che compagnia sono!» perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così...».
Qui l’ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «basta, basta, la scusa, son qua, vegno, no la se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, ela conosse el mondo, mi lo go conossudo ma no lo conosso più».
Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto l’ingresso di Ferdinando a Verona nel così detto «anno dell’imperatore» nel 1838.
«Credo conveniente» diss’egli «un tal qual segno di rispetto e di compiacenza.»
L’ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: cosa mai, cosa mai?» Ma l’ometto, cerimonioso nell’anima, tenne duro: «il mio dovere, il mio dovere» e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «La tasa!» sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!» e appena fuori dell’uscio si sfogò. «No ghe xe ponto de dubio, quela maledetissima servente sarà la me morte.»
«E perché non la manda via?» chiese l’ingegnere.
Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest’acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.
«Eh!» rispose sospirando.
«Ah!» fece l’ingegnere.
«Cossa vorla?» riprese l’altro dopo una breve pausa. «Questo xe quelo.»
Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guancie grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via. Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l’ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo; apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l’ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario.
«Corpo de sbrio baco!» diss’egli.
L’ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo! Per amore della Luisina!»
Il signor Giacomo s’incamminò senz’altro e guadagnate le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana, parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfida servente e l’I. R. Commissario, la marchesa vendicativa e il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmo della signorina Rigey.
«No ghe xe ponto de dubio, quando go l’onor de trovarme con so nezza, con la signorina Luisina, digo, me par giusto, la se figura, de trovarme ancora ai tempi della Baretela, delle Filipuzze, delle tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per so grazia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo dalla signora marchesa, vedo là qualchevolta ste putele del dì d’ancò. No... no... no; no gavemo propramente quel contegno che m’intendo mi; o che semo durete o che semo spuzzete. La varda invece la signorina Luisina come che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, col rico e col poareto, cola serva e col piovan. No capisso, propramente, come la marchesa...»
L’ingegnere l’interruppe.
«La marchesa ha ragione» diss’egli. «Mia nipote non è nobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a pretendere che la marchesa sia contenta?»
Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, e guardò l’ingegnere battendo i suoi occhi dolenti.
«Ma» diss’egli. «Ela no ghe darà miga rason sul serio?»
«Io?» rispose l’ingegnere. «Io non approvo mai che si vada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loro veci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo antiquato come Lei, un uomo del tempo di Carlo U, come si dice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna lasciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette e poi ho detto: adesso, fate vobis; del resto poi quando avrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che occorre fare e son qua.»
«E cossa dise la signora Teresina?»
«Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a posto non mi dispiace più di morire.»
Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando udiva quest’ultima sgradevole parola.
«Ma no semo miga a sti passi?» diss’egli.
«Eh!» fece l’ingegnere, molto serio. «Speriamo in Domeneddio.» Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell’improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna; ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perchè la scena gli paresse degna dell’attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perchè avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe.
«Bela massima» diss’egli. «Speremo in Domeneddio. Sissignor. Ma la me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentia parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, e adesso la me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà. El mondo d’adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l’ano.»
«Senta, caro signor Giacomo» osservò l’ingegnere ingegnere, impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la parrocchia da una chiesa all’altra, Domeneddio non c’entra; del resto lasciamo fare a Domenedio e camminiamo.»
Ciò detto prese un’andatura così lesta che il signor Giacomo, fatti pochi passi, si fermò soffiando come un mantice.
«La perdona» diss’egli «se obedisso tanto quanto a la natural curiosità de l’omo. Se podaria saver la Sua riverita età?»
L’ingegnere capì l’antifona e fermatosi un momento si voltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansuetudine trionfante:
«Più vecchio di Lei.»
E riprese spietatamente la via.
«Sono dell’ottantotto, sa!» gemette il Puttini.
«Ed io dell’ottantacinque!» ribatté l’altro senza fermarsi. «Avanti!»
Per fortuna del Puttini non c’erano più che pochi passi a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato della chiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all’entrata del villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoportico della canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dove l’immaginazione del signor Giacomo gli rappresentava tanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalini traditori, ch’egli si piantò sui due piedi e, incrociate le mani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini:
«Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo pregiatissimo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!»
Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d’un monologo interno sugli accessori dell’impiccio principale in cui s’era messo.
«Aspetti» fece l’ingegnere.
Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L’ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl’inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari. Potè così, fermo sull’entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinchè, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall’ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey.
A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l’aperto, tutte scure verso quell’altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l’uno all’altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un’alta muraglia senza finestre, si affaccia all’orlo del monte, spia giù i burroni ond’esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Doi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria.
Il signor Rigey, nato a Milano di padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d’uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell’ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa.
Appena l’ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell’andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!» «Oh bella!» fece patriarcalmente l’ingegnere «ho da picchiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una mano, lo tirò dentro con l’altra, fece un saluto grazioso al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando: «Padrona mia riveritissima... me consolo propramente...» «Grazie, grazie« fece Luisa «passi, La prego, devo dire una parola allo zio.»
L’ometto passò con il suo cappellone in mano, e la giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo.
«Ciao, neh» fece l’ingegnere quasi resistendo a quelle carezze perchè vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va la mamma?» Luisa non rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benchè nella sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poichè i giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sè, s’era messo ad aiutare in tutto che poteva.
«La mamma?» ripetè.
«Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agitata perchè mezz’ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c’è stata una mezza scena con la nonna...
«Oh povero me!» fece l’ingegnere, che quando udiva di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa esclamazione, se stesso.
«No, zio; Franco ha ragione.»
Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea. «Ma sì!» esclamò perchè lo zio aveva messo un lungo «hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma» soggiunse piano «dice di essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.»
«Meglio» disse lo zio, incamminandosi verso la terrazza.
La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò: «Mamma è qui».
La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona, per avere un po’ d’aria, un po’ di sollievo.
«Cosa vi pare, Piero?» disse con voce simile nel timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non serviranno a niente?»
«Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non si può dire!»
Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio.
«Dunque?» disse questi stendendogli la mano, perchè gli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è successo?»
Franco raccontò l’accaduto velando un poco le espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo, accusando quasi più la suscettibilità propria che l’insolenza della vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perchè lo avrebbe interrogato su quest’assenza, ed egli non voleva mentire, e tacere era come confessare.
«Senti!» esclamò lo zio con l’accento vibrato e con la faccia spanta del galantomone che, soffocando in un viluppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che hai avuto torto d’irritar la nonna perchè, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno. Cosa mai! L’onest’uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non ingannarla!
«Ma Piero!» esclamò la signora Teresa che, insieme ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb’essere, possedeva un senso acuto della vita com’è realmente, e data molto più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più famigliare con Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di forma.
«Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa, molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c’è posto e quand’anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio di stanze a Oria.»
«Oh povero me!» fece l’ingegnere. «Ci voglion due mesi per questo? Non par vero.»
Un soffio prolungato, nell’ombra, ricordò in quel punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo, appoggiato al muro, non osando scostarsene per l’oscurità.
La signora Teresa non l’aveva ancora salutato.
«Oh, signor Giacomo!» diss’ella con gran premura. «Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?
«La mia servitù» disse il signor Giacomo dal suo angolo. «Propramente no me movo, perchè, con la mia povera vista...»
«Luisa!» fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume. Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.»
Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattro piccoli soffi frettolosi che significavano: - ahi, questo è un'imbarazzo.
«No so» cominciò titubante, «no so, digo adesso, se trovandome a scuro...»
«Luisa!» chiamò da capo la signora Teresa.
«Eh nossignora, nossignora. M’intendo a scuro de tante cosse che no so. Vogio dir che nella mia ignoranza no me posso pronunciar. Però, digo, me par che forse se podaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo e della rispettabilissima famegia, sì ben che no me faria maravegia che l’Imperial Regio Commissario, ottima persona ma sustosèta... ben basta, no discoremo, mi son qua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avanti un pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signor don Franco podaria forse cole bone, cole molesine... Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»
Furono le proteste violente di Franco che fecero voltare così precipitosamente strada al signor Giacomo. Luisa le appoggiò e la signora Teresa che forse adesso avrebbe pure inclinato a una dilazione, non osò contraddire.
«Luisa, Franco» diss’ella. «Riconducetemi in salotto.»
I due giovani spinsero insieme, seguiti dallo zio e dal signor Giacomo, la poltrona nel salotto.
Nel passar la soglia Luisa si chinò, baciò la mamma sui capelli e le susurrò: «vedrai che tutto andrà bene». Ella credeva di trovar il curato in salotto, ma il curato se l’era svignata per la cucina.
Appena Franco e Luisa ebbero accostata la mamma al tavolo dov’era il lume, capitò il sagrestano ad avvertire che tutto era pronto. Allora la signora Teresa lo pregò di annunciare al curato che gli sposi sarebbero andati in chiesa fra mezz’ora.
«Luisa» diss’ella, fissando sua figlia con uno sguardo significante.
«Sì, mamma» rispose questa; e riprese a voce più alta volgendosi al suo fidanzato: «Franco, la mamma desidera parlarti.
Il signor Giacomo capì e uscì sulla terrazza. L’ingegnere non capì nulla e sua nipote dovette spiegargli che bisognava lasciar la mamma sola con Franco. L’uomo semplice non ne intendeva bene il perchè; allora ella gli prese sorridendo un braccio e lo condusse fuori.
La signora Teresa stese in silenzio la sua bella mano, ancora giovane, a Franco, che s’inginocchiò per baciarla.
«Povero Franco» diss’ella, dolcemente.
Lo fece alzare e sedere vicino a sè. Doveva parlargli, disse; e si sentiva tanto poca lena! Ma egli capirebbe molto, anche da poche parole: «minga vera?»
Così dicendo la voce fioca ebbe una soavità infinita.
«Sai» cominciò «questo non avevo pensato a dirtelo, ma mi è venuto in mente quando tu raccontavi del piatto che hai rotto a tavola. Ti prego di avere riguardo alla situazione dello zio Piero. Egli pensa, nel suo cuore, come te. Se tu avessi vedute le lettere che mi scriveva nel 1848! Ma è impiegato del governo. Vero che si sente tranquillo nella sua coscienza perchè occupandosi di strade e di acque, sa che serve il suo paese e non i tedeschi; ma certi riguardi vuole e deve averli. Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo.»
«I tedeschi andranno via presto, mamma» rispose Franco «ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai.»
«Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voialtri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch.» Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello.
«Ma ti devo parlare di un’altra cosa» proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto.
«Bisogna che ti parli di Luisa» diss’ella. «Bisogna che tu conosca bene tua moglie.»
«La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!»
Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell’appassionato amore per lei ch’era la vita della sua vita, l’anima dell’anima sua.
«Povero Franco!» fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. «No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco.»
Aveva bisogno di una sosta, l’emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po’ di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona.
Si rialzò presto. «Avrai inteso parlar male» disse «del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch’era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto di sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perchè potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un’anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in Paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sè; ma fino all’ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio di cuore; promettimelo, Franco.»
Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua.
L’ammalata lo guardò, triste. «Credimi, sai» soggiunse «non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria.» E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse:
«Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?»
«Ma questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire dal Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via.»
«Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l’avrà detto?»
«Sì, mamma.»
Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, riverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti.
«Povero uomo!» riprese la signora Rigey. «Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d’oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell’accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voialtri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla secondo la strada che vorrai prendere.»
«Sì, mamma.»
Si picchiò all’uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse:
«È finito!»
Franco guardò l’ammalata. «Avanti» diss’ella. «È ora di andare?»
Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S’inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo di trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte; ma le spalle la tradivano.
«No, Luisa» disse la mamma «no, cara, no» e le accarezzava il capo. «Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati, son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate, dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco.»
Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l’uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l’ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa.
«Ciao, neh, Teresa.»
«Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero.»
«Amen» rispose pacificamente l’ingegnere.
Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch’ell'avrebbe voluto accompagnar con l’orecchio quanto era possibile.
Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l’idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell’avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. «Poveri ragazzi,» pensò. «chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!» Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore.
Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro.
La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era un sogno, ch’era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l’uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto «el Carlin de Das» padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tôno naturale: «Oh sciora Teresa, la sta ben?» Ella credette di rispondere: «Oh Carlin! Bene e voi?» ma in fatto non aperse bocca. «Ghe l’hoo chi la lettra» riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. «L’hoo portada chì per lee.» E posò la lettera sul tavolo.
La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: «Grazie Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?» «Sciora no» rispose il Carlin. «Voo a Casarech dal me fioeu.»
L’ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l’idea vaga di altre allucinazioni passate, l’idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l’occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente.
Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all’emozione quel respiro affannoso. A un tratto l’ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa.
«La lettera» diss’ella.
I due giovani si voltarono e non videro niente.
«Che lettera, mamma?» disse Luisa. Nello stesso punto notò l’espressione del viso di sua madre, diede un’occhiata a Franco, per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All’udirsi domandare «che lettera?» ella capì, fece «oh!» ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze de’ suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliare qualche cosa. Si trattava d'una torta e d'una bottiglia preziosa di vino del Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione.
Il signor Giacomo, non vedendo l’ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l’ingegnere.
«Signora Luisina» diss’egli vedendo uscire la novella sposa. «La scusa, son propramente per domandar licenza...»
«No, no» lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa «aspetti un poco.»
Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori della stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo.
«Ma cosa mai!» fece l’ingegnere.
«Ma, Piero!»
«Ma cosa?»
Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perchè gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione unziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero, e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette.
«Per sempre!» mormorò dopo un momento, come parlando fra sè. «Uniti per sempre!»
«Nualtri» disse l’ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato «nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo.»
«Sempre de bon umor, ela, ingegnere pregiatissimo» rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle «buzare» peggiori.
Gli sposi non ritornavano.
«Signor Giacomo» riprese l’ingegnere «per questa notte, niente letto.»
L’infelice si contorse, soffiò e battè le palpebre senza rispondere.
E gli sposi non ritornavano.
«Piero» disse la signora «suonate il campanello.»
«Signor Giacomo» fece l’ingegnere senza scomporsi «dobbiamo suonare il campanello?»
«L’idea de la signora Teresa pare propramente questa» rispose l’omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. «Però mi no digo gnente.»
«Piero!» insistette la signora.
«Ma insomma» riprese suo fratello senza muoversi. «Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?»
«Oh Dio!» gemette il Puttini. «La me dispensa.» «Non La dispenso un corno.»
Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava:
«Ma suonate, dunque, Piero!»
Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene e non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall’insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: «mi sonaria.»
«Caro signor Giacomo» disse l’ingegnere «mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio.» Chi sa perchè, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. «Però» conchiuse «suoniamo.»
E suonò, molto discretamente.
«Sentite, Piero» disse la signora Teresa. «Ricordatevi bene che adesso quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa.»
«Oh povero me!» fece lo zio Piero. «Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? - Bene bene bene» soggiunse perchè sua sorella s'inquietava. «Fate tutto quello che volete, ecco.»
Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all’ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza.
«Adesso che viene un po’ di grazia di Dio, mi mandate fuori?» disse l’ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile.
Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. «Senti, zio» diss’ella «mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch’egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venir da te a Oria ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all’ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?»
«Hm!» fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. «Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare.»
La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che nè la spesa nè l’incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. «Oh, zio!» fece Luisa. S’ell'avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l’esilio di Franco e ad adoperarli con calore. «Basta» fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell’atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. «Fiat. Oh, e se occorre» soggiunse volgendosi a Franco «come stai a quattrini?»
Franco trasalì, s’imbarazzò.
«È il nostro papà, sai» gli disse sua moglie.
«Papà niente affatto» osservò lo zio, sempre placidamente. «Papà niente affatto ma quel ch’è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze.»
E ricevette l’abbraccio commosso de’ suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. «Sì, sì» diss’egli «andiamo a bere ch’è meglio.»
Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell’impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oidium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria.
«Est, est, non è vero, signor Giacomo?» disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. «Quì almeno non c’è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est.»
«A mi me par de resussitar» rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere.
«Allora, un brindisi agli sposi!» riprese l’altro, alzandosi. «Se non lo fa Lei, lo farò io:
Viva lü e viva lee
E nün andèm foeura d’i pee.
Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e battè molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell’animo suo mentre l’ultimo aroma e l’ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell’ingegnere pregiatissimo. E tu, Franco?» chiese subito la signora Maria.
«Vado» rispose Franco.
«Vien qua» diss’ella. «Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m’era venuto uno de’ miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore. Vi ringrazio. Mi pare d’avere messa la casa in ordine, d’avere spento il fuoco, d’aver dette un po’ di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da far loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va, figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va.»
Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza, silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un’avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza.
«Va» ripeteva mamma Teresa, tenendo anche la commozione propria: «va, va.»
Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d’affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.