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Ostjuden

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Hermann Struck, Chacham, en face (Hakham, di fronte), 1932, puntasecca, acquatinta

Nella prima metà del Novecento, in Germania e Austria erano detti Ostjuden (in tedesco, "ebrei dell'Est", singolare Ostjude, aggettivo ostjüdisch) gli ebrei dei territori centro-orientali d'Europa. L'espressione aveva spesso una connotazione spregiativa e, al pari di altri epiteti denigratori di uso più risalente nel tempo, richiamava le qualità negative che il razzismo tedesco aveva attribuito agli ebrei dell'Europa centro-orientale sin dall'Ottocento. Poiché sulla figura dello Ostjude convergevano antisemitismo, antislavismo e xenofobia, l'ostilità verso gli ebrei dell'Europa centro-orientale poteva essere condivisa sia da tedeschi non-ebrei antisemiti, sia da ebrei tedeschi assimilati. Questi ultimi a volte reagivano con paura e disprezzo all'arrivo in Germania di ebrei che parlavano yiddish, vestivano diversamente, praticavano il culto ortodosso e versavano in condizioni di povertà estrema. Altre componenti del mondo ebraico tedesco furono invece affascinate dagli ebrei dell'Est, cui guardarono con simpatia e ammirazione, scorgendovi una forma di vita e di religiosità più autentica, una resistenza ai valori della società borghese o il prototipo di una identità ebraica non ancora corrotta dall'assimilazione.

La parola Ostjude circolò ampiamente nella propaganda antisemita völkisch e nazista degli anni venti e trenta, ma fu anche usata in modo neutrale negli studi di storia ebraica a partire dagli anni ottanta del Novecento. Nel mondo ebraico di lingua tedesca e in Israele, lo Ostjude si contrappone allo Yekke (o Jecke), che è lo stereotipo dell'ebreo tedesco, borghese, largamente assimilato alla cultura europeo-occidentale.

La parola Ostjude

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Hermann Struck, L'attore Kowalsky (Vilna), litografia dal portfolio Skizzen aus Russland. Ostjuden ("Schizzi dalla Russia. Ebrei dell'Est") 1916 circa

L'origine della parola Ostjude ("ebreo dell'Est") nel discorso pubblico tedesco è difficile da tracciare[1]. La paternità del termine è stata spesso attribuita allo scrittore e giornalista ebreo Nathan Birnbaum[2], ma il punto è controverso[1]. È però certo che essa assunse presto una connotazione prevalentemente spregiativa, soprattutto negli anni della sua diffusione durante e dopo la prima guerra mondiale, affiancandosi ad altri epiteti denigratori di uso più risalente nel tempo, come Schnorrer ("scroccone"), Betteljude ("mendicante ebreo"), Pollack ("polacco", gergale) e "maiale polacco"[3].

In questa accezione spregiativa, la parola richiamava le qualità negative – pigrizia, sporcizia, promiscuità, ignoranza, meschinità, ecc. – che il razzismo tedesco aveva attribuito agli ebrei dell'Europa centro-orientale sin dall'Ottocento[4], se non già dalla fine del Settecento[5]. Sulla figura dello Ostjude convergevano e si sommavano antisemitismo, antislavismo e xenofobia, cosicché l'ostilità nei suoi confronti poteva essere condivisa sia da tedeschi non-ebrei schiettamente antisemiti, come lo storico Heinrich von Treitschke, che allertava contro il pericolo rappresentato dalla «tribù» degli ebrei polacchi, estranea alla «essenza europea e germanica»[6], sia dagli stessi ebrei tedeschi. Nel giornalista Hugo Ganz, ad esempio, la «pigrizia», il «sudiciume» e la «perpetua inclinazione all'inganno» degli ebrei orientali facevano nascere il «desiderio perverso» e «disumano» che «questa parte della popolazione polacca non esistesse proprio»[7]; l'avvocato Max Naumann scriveva che per gli ebrei tedeschi lo Ostjude era uno straniero, «straniero quanto ai sentimenti, straniero quanto allo spirito, fisicamente straniero»[8]; per il futuro ministro degli esteri tedesco Walther Rathenau, gli ebrei dell'Est erano «una tribù di persone particolarmente estranee», una «orda asiatica sulle sabbie della Marca», non «un membro vivente del popolo, ma un organismo alieno nel suo corpo»[9]. Tracce dei pregiudizi diffusi contro gli Ostjuden si trovano nell'opera dello scrittore Karl Emil Franzos[10] e nei ricordi autobiografici di Stefan Zweig[11].

Discorsi ufficiali e commenti privati pieni di ostilità e disprezzo verso gli ebrei dell'Est, già presenti nella comunicazione di Otto von Bismarck, si diffusero a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento, quando nacque in Germania l'antisemitismo politico[12]. In un discorso parlamentare del 1904 il cancelliere Bernhard von Bülow etichettava degli ebrei orientali come Schnorrers e cospiratori[13]. Negli anni venti e trenta del Novecento la propaganda völkisch e nazista si appropriò della parola e dello stereotipo razzista dello Ostjude[14], come si evince dal film L'ebreo errante (1940) e dalla retorica politica del Völkischer Beobachter, di Goebbels e di altre figure del regime che agitavano il "pericolo degli Ostjuden"[15]. In realtà, la questione degli Ostjuden era una invenzione della propaganda antisemita perché la stragrande maggioranza degli immigrati attraversava il paese per raggiungere i porti da cui imbarcarsi per l'America e altre destinazioni[16] e non aveva alcuna intenzione di fermarsi in Germania – paese inospitale, in cui un'autonoma e fiorente cultura ebraica era impossibile[17]. L'invenzione era comunque efficace e già negli anni della Repubblica di Weimar aveva provocato persecuzioni contro gli Ostjuden, soprattutto sotto forma di deportazioni, internamento nei campi e aggressioni violente[18]; anche il processo di naturalizzazione rischiava di essere particolarmente lungo e difficile quando il richiedente era un fremdstämmiger Ostjude (ebreo dell'Est di origine straniera)[19].

Musicisti klezmer a un matrimonio, Ucraina, 1925 circa

La parola Ostjude fu usata anche in modo neutrale, senza attribuirle un'accezione negativa, da intellettuali ebrei come Birnbaum e altri che, soprattutto negli anni precedenti alla prima guerra mondiale[20], cercarono di ricomporre la frattura tra le due componenti dell'ebraismo tedesco, quella autoctona e quella immigrata, presentando un'immagine positiva degli ebrei dell'Europa centro-orientale, a volte sino al punto della idealizzazione (cfr. infra Gli ebrei dell'Europa centro-orientale in Germania). Inoltre, la parola è usata in modo neutrale, quantomeno a partire dagli anni ottanta del Novecento, negli studi di storia e cultura ebraica[21].

Nel mondo ebraico di lingua tedesca e in Israele, lo Ostjude si contrappone allo Yekke (o Jecke), che è lo stereotipo dell'ebreo tedesco, borghese, largamente assimilato alla cultura europeo-occidentale. Nelle conversazioni quotidiane e nella lingua scritta, Yekke è spesso usato come sinonimo di snobismo e insensibile meticolosità, mentre la parola Ostjude evoca l'immagine dell’ebreo vittimizzato dai propri simili.[22]

Gli ebrei dell'Europa centro-orientale in Germania

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Hermann Struck, Luba (Białystok), litografia dal portfolio Skizzen aus Russland. Ostjuden ("Schizzi dalla Russia. Ebrei dell'Est") 1916 circa

Lo stereotipo dello Ostjude si sviluppò nel corso della prima metà dell'Ottocento, anche se il termine divenne popolare solo durante e dopo la prima guerra mondiale, quando in Germania si iniziò a lamentare il "pericolo degli ebrei orientali" (Ostjudengefahr) o la "questione degli ebrei orientali" (Ostjudenfrage)[23][24]. Secondo il pregiudizio diffuso tra i tedeschi, compresi gli ebrei tedeschi assimilati, gli ebrei provenienti dall'Europa centro-orientale erano sporchi, rumorosi, rozzi, culturalmente arretrati e immorali – ai loro occhi essi apparivano come una comunità etnica distinta e inferiore[23]. Inoltre, gli ebrei in generale e quelli dell'Est in particolare erano accusati di essere disonesti, truffatori, traditori della patria, agenti del nemico e rivoluzionari comunisti[25]. Steven E. Aschheim ha ricondotto l’immagine stereotipata dello Ostjude alla divaricazione tra un occidente in cui gli ebrei erano emancipati, assimilati e imborghesiti, e un oriente in cui persistevano l'esclusione politica degli ebrei e la cultura ebraica tradizionale; tale divaricazione nell'Otto e Novecento avrebbe prodotto una crisi della società ebraica europea e della sua solidarietà internazionale[26].

La differenza tra ebreo tedesco ed ebreo europeo-orientale in Germania poteva sembrare radicale. L'ebreo tedesco era già relativamente ben assimilato e quasi non parlava più lo yiddish. Questa lingua era spregiativamente chiamata "gergo" (Jargon) e il suo uso corrente era ritenuto incompatibile con l'accesso alla cultura superiore; tutti i settori della società ebraica tedesca erano chiamati, nel loro percorso verso la modernizzazione e l'acculturazione, ad abbandonare la propria lingua[27]. Oltre che per lingua e accento, gli ebrei orientali sembravano peculiari per il loro abito (caffettano e cernecchi), la stretta educazione talmudica, la diffusione del misticismo chassidico – agli antipodi dei valori illuministi e borghesi degli ebrei occidentali in via di assimilazione – e per le condizioni di povertà estrema in cui versavano, nei ghetti bui e sovraffollati delle grandi città[28], nella chiusa arretratezza degli shtetls[29], in fuga da pogrom e persecuzioni. Alla povertà economica si accompagnava la mancanza di diritti politici: se in Occidente l'emancipazione degli ebrei aveva fatto seguito alla rivoluzione francese e si era compiuta ovunque nel corso dell'Otto e Novecento, in Russia l'antisemitismo ufficiale si era manifestato con violenza ancora negli anni ottanta dell'Ottocento[30].

In fuga dai pogrom dell'Impero russo

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Pogrom a Kiev (1881). Un ebreo viene maltrattato mentre i soldati osservano

Un'ondata di pogrom nella Russia meridionale e in Ucraina negli anni 1881–1884 era stata seguita da misure repressive e politiche statali antisemite, provocando una spinta all'emigrazione di massa senza precedenti nella storia dell'ebraismo orientale[31]. Tra il 1881 e il 1914 un numero compreso tra i 2,4 e i 2,7 milioni di ebrei abbandonarono l'Europa per l'America, il Sudafrica, la Palestina e l'Oceania[32]. La maggior parte di questi emigranti passò attraverso la Germania per raggiungere i porti di Amburgo, Brema o altre città dell'Europa occidentale[33]. Flussi consistenti di ebrei orientali, spesso composti dagli strati più poveri e meno acculturati della popolazione[34], raggiunsero le comunità di ebrei emancipati dell'Europa occidentale, provocando reazioni di sgomento e ostilità nei confronti della «enorme, disordinata e interminabile armata di lontani cugini dell'Est»[35].

In Francia e Gran Bretagna si levarono proteste contro "l'invasione straniera" di lavoratori non qualificati disposti ad accettare qualsiasi salario e riemersero la xenofobia e i sentimenti antisemiti mai sopiti della popolazione autoctona[35]. In Germania, a causa della persistente rilevanza pubblicistica dell'appartenenza confessionale (alla condizione di ebreo membro di una comunità religiosa formalmente stabilita erano associati speciali diritti e doveri), l'afflusso di ebrei orientali pose un problema peculiare di integrazione con le comunità locali[36]. Gli ebrei tedeschi temevano che gli immigrati dall'Est li squalificassero agli occhi dei connazionali non ebrei, anche perché l’allarme per l'arrivo di ebrei orientali era spesso agitato dalla pubblicistica antisemita contro la minoranza ebraica nazionale[37]. Inoltre, l'ostilità degli ebrei tedeschi dipendeva anche dall'orientamento ortodosso tradizionalista degli ebrei orientali, opposto a quello liberale-riformista prevalente nell'ebraismo tedesco, che creava tensioni nelle vita delle sinagoghe e rivalità nell'ordinazione dei rabbini[38].

Il "culto degli Ostjuden"

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Copertina del libro Das ostjüdische Antlitz (1920) di Arnold Zweig, illustrazioni di Hermann Struck

L'atteggiamento degli ebrei tedeschi verso i correligionari dell'Est non fu solo segnato da ostilità o disprezzo. Già nell'Ottocento, scrittori come Leopold Kompert e Aron Bernstein avevano raffigurato «con simpatia e calore umano la vita del ghetto, stilizzandola nella Gemütlichkeit in una calda intimità»[39]. Nel Novecento, una peculiare interpretazione della frattura tra ebrei occidentali e orientali si trova nell'opera di quegli intellettuali ebrei che idealizzarono la figura dell'ebreo orientale per farne il protagonista di una forma di vita o di religiosità più autentica e di una resistenza ai valori della società borghese e della modernizzazione capitalista[40][41]. Tracce di questa ispirazione di fondo, che possono già essere colte nella corrispondenza di Heinrich Heine[42], divennero un tema significativo nell'opera di Joseph Roth, nei racconti chassidici di Martin Buber, nell'Alfred Döblin di Viaggio in Polonia[41], e nell'opera dello stesso Kafka, che sarebbe segnata, secondo l'interpretazione di Giuliano Baioni, dalla angosciosa «consapevolezza della frantumazione dell'unità ostjüdisch»[43].

Uno dei principali esponenti del "culto degli Ostjuden" fu Arnold Zweig. Influenzato dalle opere chassidiche di Buber, Arnold Zweig si sentiva estraneo all'ebraismo tedesco istituzionale e al sionismo ufficiale[44]. Il suo libro Das ostjüdische Antlitz ("Il volto ebraico orientale") del 1920 era accompagnato dalle illustrazioni di Hermann Struck: «Questo libro parla degli ebrei orientali come qualcuno che ha cercato di vederli»[45]. I ritratti di Struck, di bella fattura, invertivano lo stereotipo, perché «il volto dell'ebreo orientale non era orrendo né depravato, ma rifletteva bellezza, forza nascosta e grande sensibilità»[46].

Anche il filosofo neokantiano Hermann Cohen, uno dei principali intellettuali dell’ebraismo tedesco, celebrò la serena forza d'animo e la nobile naturalezza degli Ostjuden[47]. Soprattutto prima della Prima guerra mondiale, gli intellettuali che collaboravano con la rivista Ost und West ("Oriente e occidente") si impegnarono nel fare conoscere agli ebrei tedeschi la cultura degli ebrei orientali[4], ed esponenti del mondo ebraico tedesco, come il rabbino di orientamento liberale Felix Goldmann, espressero l'idea di una fondamentale unità di interessi e solidarietà degli ebrei tedeschi nei confronti degli ebrei dell'Est: «Oggi la marea va contro gli ebrei polacchi, domani contro gli ebrei naturalizzati, dopodomani contro i cittadini tedeschi stabiliti»[48]. La scoperta dello Ostjude nei campi di sterminio nazisti e il sentimento di fratellanza nei suoi confronti[49] sono anche il tema di una poesia di Primo Levi raccolta in Ad ora incerta[50].

L'ambivalenza[51] degli ebrei tedeschi nei confronti dei correligionari dell'Est trovò un'espressione politica nei dibattiti interni al movimento sionista. Il sionismo si propose di ricomporre la frattura tra ebrei occidentali e orientali all'insegna della comune identità nazionale del popolo ebraico: com'ebbe a dire Theodor Herzl nel 1897, il sionismo portava con sé la possibilità, prima impensabile, di una «stretta alleanza tra gli elementi dell’ebraismo ultra-moderni e ultra-conservatori [...] su una base nazionale»[52]. In concreto questa alleanza poteva essere intesa come soccorso degli ebrei orientali da parte dei loro connazionali più fortunati e ricchi, secondo il sionismo "filantropico" di Leon Pinsker, o all'opposto come riscatto dell'ebreo occidentale dalla miseria morale dell'assimilazione e riscoperta dell'autentica identità ebraica impersonata dall'ebreo orientale, secondo il comunista tedesco Moses Hess e il sionista ungherese Max Nordau[53].

L'idealizzazione dell'identità ostjüdisch fu ancora più radicale negli scritti degli esponenti del sionismo "spirituale" (o culturale) come Achad Ha'am, che accusò i leader del sionismo "politico", compreso Nardau, di essere imbevuti di una «cultura straniera», estranea alle radici profonde dell'ebraismo[54]. Anche Nathan Birnbaum rimproverava all’ebraismo occidentale di essere privo di una cultura originale e autonoma[55]. Birnbaum, cui è spesso attribuita la paternità della parola "Ostjude"[1] oltreché della parola "sionismo"[56], aveva invertito l'ordine liberale delle priorità, chiedendo l'emancipazione dell'ebraismo orientale da quello occidentale; contrapponendosi esplicitamente al tentativo del sionismo di "trascendere" l'identità ebraica-orientale, Birnbaum si fece promotore dell'uso della lingua yiddish e negli ultimi anni della sua vita si avvicinò a posizioni religiose ortodosse[56].

Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, questa idealizzazione dello Ostjude da parte degli ebrei tedeschi poteva a volte avvalersi di temi e toni dell'ormai dilagante nazionalismo völkisch – dal riferimento al sangue, al suolo, al radicamento nella comunità etnica, sino all'esaltazione della virilità e del coraggio: «Ancora una volta, gli ebrei orientali si trasformano in un mito interpretato secondo le più recenti preoccupazioni dei loro civilizzati fratelli occidentali»[57].

Joseph Roth, Ebrei erranti

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Hermann Struck, Alter Jude (Białystok), litografia dal portfolio Skizzen aus Russland. Ostjuden 1916 circa

Una testimonianza e una riflessione sulle condizioni di vita degli ebrei orientali si trovano nel saggio di Joseph Roth, Juden auf Wanderschaft ("Ebrei erranti") del 1927[58][59]. Roth, egli stesso ebreo orientale trapiantato a Vienna, afferma di voler trattare il «problema ebraico orientale» offrendo un ritratto degli uomini che lo costituiscono e delle situazioni che lo determinano, nella «folle speranza che esistano ancora lettori davanti ai quali non sia necessario difendere gli ebrei orientali»[60]:

«lettori che abbiano rispetto del dolore, della grandezza umana e di quella sporcizia che ovunque si accompagna alla sofferenza; europei occidentali che non siano fieri dei propri materassi puliti, sentano che dall'Oriente ci sarebbe molto da ricevere e magari sappiano anche che dalla Galizia, dalla Russia, dalla Lituania arrivano grandi uomini e grandi idee»

Roth offre una descrizione simpatetica delle sofferenze sopportate dagli ebrei dell'Europa orientale («L'ebreo orientale non vede la bellezza dell'Oriente. Gli hanno vietato di vivere nei villaggi, ma anche nelle grandi città. È in strade luride e case cadenti che dimorano gli ebrei. Il vicino cristiano li minaccia. Il padrone li bastona. Il funzionario li fa arrestare. L'ufficiale gli spara addosso impunemente») e della loro spinta all'emigrazione verso occidente («Dai giornali, dai libri e dagli emigranti ottimisti egli sente dire che l'Occidente sarebbe un paradiso»)[61].

Le pagine sulla vita nello shtetl, il villaggio ebraico dell'Europa orientale, sono volte a far emergere, oltre alla miseria e alla chiusura patriarcale autoritaria, anche «la sconfinata vastità dell'orizzonte, la ricchezza del materiale umano, l'umanità autentica e intatta», cioè i valori dello shtetl come utopia della comunità da contrapporre al disagio della società occidentale[62]. Ebrei erranti è anche un grido di allarme contro le illusioni dell'assimilazione, che racconta il declino dell'ebraismo orientale e la sua dissoluzione in Occidente[63][64]: «Rinunciarono a se stessi. Si smarrirono. La loro malinconica bellezza li abbandonò e sulle schiene ricurve si depositò, grigio strato di polvere, una mestizia senza senso e un cruccio meschino e privo di ogni tragicità»[65][66].

Nella prefazione alla seconda edizione del 1937, Roth osserva che il titolo del libro non si riferisce più solo al profugo ebreo dell'Europa dell'Est, ma anche all’ebreo tedesco autoctono, che è ormai «ancora più senza patria e ancora più indifeso di quanto non lo fosse, solo pochi anni addietro, il suo cugino di Łódź»[67]. Quando il libro fu scritto «si trattava semplicemente di indurre ebrei e non ebrei dell'Europa occidentale a un po' di comprensione per la triste situazione degli ebrei orientali», perché «[è] un fatto – spesso ignorato – che anche gli ebrei possono avere istinti antisemiti». Ora si tratta di affrontare il nuovo problema degli ebrei occidentali in fuga dalle persecuzioni naziste, privi di passaporto o di visto di ingresso: «E cos'è un uomo senza documenti? Meno di un documento senza l’uomo!»[68] Roth, che nel 1933 aveva abbandonato Berlino per rifugiarsi a Parigi, lamenta la mancanza di «un'associazione per la protezione degli uomini che sia disposta a portare i nostri compagni senza passaporto e senza visto nel paesi da questi agognato?»[69].

  1. ^ a b c Kałczewiak 2021, p. 294.
  2. ^ Maksymiak 2019, p. 437: «La forma aggettivale ostjüdisch compare negli scritti di Birnbaum nel 1897 e poco dopo, nel 1904, egli utilizza per la prima volta il sostantivo Ostjude».
  3. ^ Wertheimer 1987, p. 6; Aschheim 1982a, p. 21.
  4. ^ a b Kałczewiak 2021, p. 288.
  5. ^ Maksymiak 2019, p. 436.
  6. ^ Kałczewiak 2021, p. 292; Aschheim 1982b, p. 83; Wertheimer 1987, pp. 27-29.
  7. ^ Bauman 1991, 147/343; Wertheimer 1987, p. 148; Aschheim 1982b, p. 84.
  8. ^ Wertheimer 1987, p. 148.
  9. ^ Brenner 2019, 28-29/139, cita da un articolo in "Höre Israel!" del 1897: ein abgesondert fremdartiger Menschenstamm [...] Auf märkischem Sand eine asiatische Horde [...] kein lebendes Glied des Volkes, sondern ein fremder Organismus in seinem Leibe.
  10. ^ Aschheim 2008, p. 65: «Franzos elenca tutti i difetti del ghetto galiziano e dei suoi abitanti: il fanatismo religioso, il trattamento delle donne, la sporcizia, la superstizione»; Maksymiak 2019, p. 438, ricorda il giudizio negativo del leader sionista Adolf Stand, «K. E. Franzos ci ha presentato l'ebreo come un imbroglione, uno che farebbe commercio di qualsiasi cosa, fisicamente sporco, moralmente degenerato, un nano spirituale. E le sue osservazioni superficiali e triviali, i suoi scherzi deboli e dubbi sono arrivate in Europa e hanno fornito una finestra sull'anima dell'ebreo polacco».
  11. ^ Ne Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Stefan Zweig scrive: «Mio padre proveniva dalla Moravia. In quei piccoli centri rurali le comunità ebraiche vivevano in ottimo accordo con i contadini e coi piccoli borghesi, così che ignoravano totalmente il senso di oppressione e d'altra parte l'impazienza di avanzare insinuandosi, caratteristiche degli ebrei galiziani ed orientali». Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1994, ISBN 88-04-38112-4, OCLC 797843679, citato da Beck 2022, p. 95.
  12. ^ Wertheimer 1987, pp. 24, 31.
  13. ^ Wertheimer 1987, p. 25.
  14. ^ Kałczewiak 2021, pp. 288 e 297.
  15. ^ Kałczewiak 2021, p. 297; Kliymuk 2018.
  16. ^ Kliymuk 2018,  p. 104; Aschheim 1982a, p. 37.
  17. ^ Wertheimer 1987, p. 179.
  18. ^ Beck 2022, pp. 77-85; Aschheim 1982b, p. 95.
  19. ^ Beck 2022, p. 87.
  20. ^ Kałczewiak 2021, pp. 288.
  21. ^ Kałczewiak 2021, pp. 287 e 290.
  22. ^ Wertheimer 1987, p. 3.
  23. ^ a b Aschheim 1982a, p. 3.
  24. ^ Wertheimer 1987, p. 6.
  25. ^ Beck 2022, pp. 73-78.
  26. ^ Aschheim 1982a, pp. 4-9.
  27. ^ Aschheim 1982a, pp. 9-11.
  28. ^ Aschheim 1982a, pp. 10-14.
  29. ^ Magris 1989, cap. I.
  30. ^ Vital 1999, pp. 291-297, 310.
  31. ^ Vital 1999, cap IV.
  32. ^ Vital 1999, pp. 298; il dato è notevole se si considera che nel 1840-1880 solo 200.000 ebrei europei erano emigrati oltremare, e che a fine Ottocento la popolazione mondiale ebraica ammontava a circa 11 milioni di persone, di cui più di cinque stanziate nei territori dell'Impero russo.
  33. ^ Aschheim 1982a, p. 37.
  34. ^ Vital 1999, p. 302-304.
  35. ^ a b Vital 1999, p. 317.
  36. ^ Vital 1999, pp. 331-332.
  37. ^ Beck 2022, pp. 98-99.
  38. ^ Vital 1999, p. 333.
  39. ^ Sonino 1998, pp. 27-28.
  40. ^ Aschheim 1982a, cap. VIII.
  41. ^ a b Magris 1989, cap. II.
  42. ^ Aschheim 1982a, pp. 185: già nel 1822, una lettera di Heine esprime, assieme al disgusto, anche l'essenza di ciò che in seguito sarà il culto dell'Ostjuden. Dopo aver visitato uno shtetl polacco, scrive della nausea provata «alla vista di queste creature cenciose e sudice», che vivevano in «porcilaie», «chiacchieravano, pregavano e mercanteggiavano», parlando un linguaggio ripugnante, persi in una «rivoltante superstizione»; e tuttavia «nonostante il barbaro berretto di pelliccia che gli copre la testa, e le nozioni ancora più barbare che la riempiono, stimo l'ebreo polacco più della sua controparte tedesca [...] Come risultato del rigoroso isolamento, il carattere dell'ebreo polacco ha acquisito un'unicità [...] L'uomo interiore non è degenerato in un disordinato conglomerato di sentimenti». Traduzione in inglese in Frederic Ewen (a cura di), The Poetry and Prose of Heinrich Heine, New York, The Citadel Press, 1948, pp. 690-691.
  43. ^ Magris 1989, 28/369, con riferimento al libro di Giuliano Baioni, Franz Kafka. Romanzo e parabola, Milano 1962.
  44. ^ Ashheim 1982, p. 132.
  45. ^ A. Zweig 1920, p. 9 (Dieses Buch spricht über die Ostjuden als jemand, der sie zu sehen versuchte).
  46. ^ Ashheim 1982, p. 199.
  47. ^ Nell'articolo Der polnische Jude, in "Der Jude", 1916-1917, p. 153, Cohen parla della «loro forza d'animo e di spirito, serenità di fronte alle sofferenze, semplicità e natura incontaminata, che devono essere apprezzate e amate da chiunque non abbia perso il senso della nobile naturalezza» (citato da Beck 2022, p. 102).
  48. ^ Felix Goldmann, "Deutschland und die Ostjudenfrage", in "Im deutschen Reich. Zeitschrift des Centralvereins deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens", 21, novembre-dicembre 1915, pp. 200-201, citato da Beck 2022, pp. 99.
  49. ^ Ada Neiger, Itinerario d'uno scrittore ebreo. Una lettura dei saggi di Primo Levi di argomento ebraico (1981-1987), in Luigi Dei (a cura di), Voci dal mondo per Primo Levi. In memoria, per la memoria, Firenze University Press, 2007, p. 137, ISBN 978-88-8453-660-0.
  50. ^ Primo Levi, Ostjuden (7 febbraio 1946), in Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 2016 [1984], ISBN 978-88-11669-13-5.
    «Padri nostri di questa terra, / Mercanti di molteplice ingegno, / Savi arguti dalla molta prole / Che Dio seminò per il mondo / Come nei solchi Ulisse folle il sale: / Vi ho ritrovati per ogni dove, / Molti come la rena del mare, / Voi popolo di altera cervice, / Tenace povero seme umano.»
  51. ^ Un'interpretazione del rapporto tra ebrei tedeschi e ebrei dell'Europa orientale in termini di "ambivalenza" e di "trappola dell'assimilazione" in Bauman 1991, cap. IV; vedi anche Klier 1999, p. 136.
  52. ^ Ashheim 1982, p. 81.
  53. ^ Ashheim 1982, cap. IV.
  54. ^ Ashheim 1982, p. 90.
  55. ^ Ashheim 1982, p. 115.
  56. ^ a b Ashheim 1982, p. 114.
  57. ^ Bauman 1991, 147/343.
  58. ^ Roth 1927.
  59. ^ Magris 1989, 12/369.
  60. ^ Roth 1927, 4/106.
  61. ^ Roth 1927, 6/106.
  62. ^ Magris 1989, 12-14/369.
  63. ^ Aschheim 1982a, p. 247.
  64. ^ Magris 1989, 12/369: "Juden auf Wanderschaft è un grido d’allarme contro l'assimilazione degli ebrei orientali in cammino verso occidente e quindi sul punto di perdere la propria identità e di assumere tutti i vizi della borghesia occidentale, in particolare di quella ebraica liberale".
  65. ^ Roth 1927, 14/89.
  66. ^ (EN) Adam Mars-Jones, The ghetto blaster, in The Guardian, 24 dicembre 2000. URL consultato il 24 aprile 2023.
  67. ^ Roth 1927, 93/106, citato da Seelig 2016, p. 51.
  68. ^ Roth 1927, 95/106, citato da Keiron Pim, What young Ukrainians will learn from reading Joseph Roth, su The Spectator, 1º settembre 2022. URL consultato il 9 maggio 2023.
  69. ^ Roth 1927, 96/106.

Voci correlate

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