Figl’ dr’ Sciacarée

Questa storia partecipa al Blogger Contest 2021 su www.altitudini.it


Talvolta un uomo si sottomette in cuor suo,
sottomette il visibile al veggente,
e cerca di tornare alla propria origine.
Cerca, trova, torna alla propria origine.

René Daumal, Il monte Analogo

Realdo e il monte Saccarello (Foto Giampiero De Zanet)

Non ricordo la prima volta che lo vidi, ma è uno dei miei primi ricordi.
Eravamo nell’orto con mio fratello e nonno Rnéstu che lavorava la terra. Affondava il tridente, lo spingeva giù con una pedata. Poi lo scalzava, la terra si sollevava e s’apriva e come una bolla di sapone. Dalle zolle venivano fuori pomi dorati e chiari. Pensammo che avesse trovato un tesoro.
Ne prese uno, lo pulì e ce lo passò. Era grande e pesava come un sasso di fiume.
«Cosa sono nonno?», gli domandai.
«R’ patacche!» rispose, “patate”.
«Ma come facevi a sapere che erano sottoterra?».
«Ah, ah, ah – nonno si fece una bella risata, con quella strana ruga che gli veniva vicino al naso quando rideva – Sachrnùn! Uh! Rutoliche! Me l’à dit r’ Sciacarée!» e indicò qualcuno dietro di sé. Fu allora che lo guardai. La vista era ancora occupata dalla sagoma di nonno Rnéstu in maniche di camicia che alzava il forcone e lo gettava a terra, sbuffando. Ma dietro c’era lui, r’ Sciacarée.
E allora? Lo guardavo per la prima volta. Fu come quando non s’è mai udito un tuono o si vede per la prima volta la neve o il mare: tremi, ti meravigli e anche un po’ ci soffri, quando capisci che è qualcosa che esiste da sempre e tu sei solo l’ultimo degli uomini a saperlo.
Più lo guardavo e più mi stupivo: sembrava lontano e vicino, semplice e impossibile insieme, lieve e solido allo stesso tempo. Ero stordito. Per la prima volta m’accadeva che ciò che vedevo non era ciò che guardavo. Era diverso e simile a nulla di ciò che avevo guardato mai prima al mondo. Subito mi venne una voglia matta di toccarlo. E volevo correre fino alla fine dell’orto, e andare oltre lo steccato, per toccarlo. Ma cosa avrei toccato? R’ Sciacarée o quello che credevo di lui? E poi si può toccare una montagna? Come si fa? Forse solo allora, con la fede di un bambino, sarei riuscito a toccarlo davvero. Oggi, invece, una montagna non la si possiede finché non la si scala fino in cima.
Stavano arrivando alcune nubi. La loro ombra correva già sulle spalle della montagna.
Nonno Rnéstu le guardò pensieroso. S’accorse che m’ero imbambolato a guardare all’insù.
«Eh! Loch ti aguaiti? L’ àigüra?», mi chiese se avevo visto un’aquila.
«Ci voglio andare nonno. Mi ci porti?»
«Und?»
«Lassù, sur’ Sciacarée!»
«Ah… eh ben. Ëndamm. Ma dopu chë amm avü mangià!», mi rispose. Ci saremmo andati dopopranzo, come se fosse una passeggiata il duro sentiero che parte in paese e passa da Collardente. Ma quel pomeriggio arrivò un grosso temporale e restammo a casa. Nonno Rnéstu, però, sembrava non aver dimenticato la promessa di portarci sul Saccarello. Ci scherzava. « Studiai, studiai –  diceva mentre facevamo i compiti – pöi nue ëndamm sur’ Sciacarée…». E, ridendo: «Ah… R li vòo ciü mai a fàa in bon paštùu che in bon dutùu». Ci teneva che finissimo i compiti delle vacanze.

Realdo (Foto Giampiero De Zanet)

Oggi posso dirlo, c’è un mondo prima e un mondo dopo aver visto r’ Sciacarée. Ora non faccio più caso a nulla, ma allora, mi accorgevo subito di tutto. Le cose cambiavano ogni giorno. Sì: dopo aver visto r’ Sciacarée, sapevo riconoscere una ad una le cicale del nostro fazzoletto d’orto. Capii che l’acqua del rigagnolo che nasceva sulle pendici del monte era la stessa che si buttava in mare nel torrente giù a valle. E scoprii che alcuni alberi perdevano le foglie e altri no. E che ad un certo punto arrivavano le rondini. Tutte cose ch’erano così da sempre. E io ero sempre l’ultimo a saperlo. Imparai a non arrabbiarmi più. Ma chissà se quell’estate fossimo andati sur’ Sciacarée quante altre cose avrei scoperto.
Purtroppo non ci fu più tempo, vennero su i miei, tornammo in città e ricominciò la scuola. Ma ciò che avevo visto non rimase muto, mi sentivo fortunato, volevo condividerlo. Iniziai a raccontarlo agli altri. Dicevo: «Ho visto r’ Sciacarée», «Ho toccato r’ Sciacarée». Avrei anche raccontato di esserci salito, ma non era vero. Era più forte di me. Non parlavo d’altro. Lo scrissi in un tema, ma non devo essermi spiegato bene, oppure alla maestra non piacque, forse perché era mezzo scritto in brigasco: l’estate con il nonno si faceva sentire. E i miei compagni mi prendevano in giro: «Uh! Ma come parli? Ah! Non ha mai visto una montagna!». Non capivano.

Le nostre estati a Realdo col nonno cominciarono ad accorciarsi, tanto che ora mi sembrano una sola, lunga estate, durata dai 5 agli 8 anni.
Nemmeno gli anni successivi nonno riuscì a portarci sur’ Sciacarée. Ma non per colpa sua: cominciarono a manifestarsi i problemi con cui dovette convivere fino alla fine. Le sue mani cominciarono a gonfiarsi, le giunture gli dolevano, si muoveva a fatica. Era la gotta. Prese lui come aveva preso suo padre e qualche cugino in paese. Ma finché poté, non rinunciò alle sue patate e a tutto il resto. Gli venivano difficili, invece, cose banali come farsi la barba da solo. Così gli ultimi tempi l’aiutavo io. Allora abitava già con noi, non poteva più vivere da solo, lassù. Lo portammo a casa in Riviera. Ma si lamentava, non era felice.
Lo mettevo su una sedia che dava sul terrazzino, con la luce del mare che gli inondava il viso. Ma negli occhi sembrava gli si formassero delle lacrime. Pensavo fosse a causa della schiuma da barba, ma non era così.
«Perché non sei contento? Qui c’è il mare!», gli disse papà, mentre lo rasavo.
«Ah, ma chi mi en végh r’ Sciacarée nu!», rispondeva. Non poteva più vedere il Saccarello. E mi guardava. Sapeva che potevo capirlo.

Ci raccontava sempre di quella montagna. Che in cima, se vuoi, con un salto, vai in Francia e con un altro torni in Italia. Che se nasci da una parte sei piemontese e dall’altra francese; ma lui era nato di qua, e parlava brigasco. Che oggi noi siamo come le nuvole sur’ Sciacarée: possiamo decidere dove andare e spostarci di qua e di là come vogliamo, senza che nessuno blocchi la nostra ombra. Ma c’è stato un momento dopo la guerra che lui e la sua famiglia furono costretti a scegliere dove stare, da un lato o dall’altro della linea che passa sulla cima dr’ Sciacarée anche se non erano nati lì. E che i boschi, i larici, l’erba e il resto erano gli stessi da entrambe le parti, ma, se le sue pecore andavano a mangiare di là, le guardie sparavano. «Ah, povri nue Reaudée», diceva. E poi si riprendeva, ci abbracciava forte e insisteva che anche noi potevamo essere brigaschi, ma dovevamo salire sul Saccarello, per capirlo. Gli dicevamo di sì, ma allora non ci capivamo granché.


Dopo che nonno se ne andò non salimmo più a Realdo per molto tempo. A papà non è mai piaciuto andare lassù. Mise anche in vendita la vecchia casa. Non ci disse nulla. Forse sospettava che non saremmo mai stati d’accordo. E se un giorno anche noi avessimo scoperto d’essere brigaschi? Per fortuna non la comprò nessuno. Il cartello “vendesi” se lo portò via qualche nevicata. A chi volete che interessasse in quegli anni una casa in un paesino di montagna senza impianti da sci e dove non ci sono locali e discoteche? In Riviera nessuno sarebbe tornato dove i suoi vecchi erano scappati. Ma sapevo che non era vuota: l’abitavano i ghiri, le arvicole e sotto il tetto sicuro avevano fatto il nido i rüchiròi, gli uccelli che volavano tra le rocce dr’ Sciacarée.

La dorsale del Monte Saccarello da Borniga (fraz. Realdo) (foto dell’autore)

Oggi io e mio fratello abitiamo in due città lontane. Lui si è fatto una famiglia in Francia, io in Italia, non so spiegare bene com’è andata. Ma nonno Rnéstu non aveva del tutto ragione: non siamo del tutto liberi di scegliere da che parte stare dr’ Sciacarée. Alla fine è la vita che decide per te.
Ci vediamo d’estate: abbiamo ristrutturato la vecchia casa del nonno e ci passiamo insieme le vacanze. Ma sur’ Sciacarée non ci siamo ancora saliti. Chissà che aspettiamo. Quando siamo a Realdo non facciamo altro che parlare delle giornate con il nonno nell’orto sotto il Saccarello, delle serate che non finivano mai e delle mattine a contare le cicale. Non parliamo d’altro. Come un disco rotto. Le nostre mogli non ne possono più di sentire quelle storie: «Ah! Ma cosa ci troverete in un orto e due patate?»
Con mio nipote invece mi diverto tantissimo. Ha 5 anni, giochiamo insieme alle bocce quadre nei carûg in paese. Lui mi parla in francese e io gli rispondo in brigasco.
«Ti esti fürb com ina gurp», gli dico, quando usa un muro per fare una sponda.
E lui ride, ride. E ha quella rughetta, proprio lì, vicino al naso.


A Nino Lanteri, a Eduardo e a tutti gli altri brigaschi

Carûg di Realdo (foto dell’autore)

Foto:

1. Realdo e il monte Saccarello (Foto Giampiero De Zanet)

2. Realdo (Foto Giampiero De Zanet)

3. La dorsale del Monte Saccarello da Borniga (fraz. Realdo) (foto dell’autore)

4. Carûg di Realdo (foto dell’autore)

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Anniversario scomparsa Italo Calvino

Mi unisco anch’io ai post sull’anniversario della scomparsa di Italo Calvino.

Il giorno dopo, però, perché me ne ero dimenticato e ora corro ai ripari, come si fa per un parente, uno zio, di cui hai dimenticato l’anniversario. (Menomale ora c’è Facebook).

Caro zio Italo, in tanti anni che non ci sei, sono cambiate molte cose.

A ponente ci sono molti meno alberi, un po’ bruciano un po’ li tagliano: a Sanremo hanno tagliato pure i pini sul porto, non saprei dove potresti saltare di ramo in ramo per scendere al mare dalla Madonna della Costa.

La floricoltura, ahinoi, non se la passa granché bene: delle serre che tuo padre guardava orgoglioso non rimarrà presto soltanto l’effetto che ne porta il nome.

La speculazione edilizia, quella, invece, fiorisce rigogliosa e spinosa come i bougainville, tanto più ora che aspettiamo la manna del Recovery Fund (per spiegarti, hai presente il piano Marshall?)

La Resistenza? Qualcuno ne parla ancora, ma da troppo dura questa gran bonaccia, altro che le Antille, e quelli là già stanno tornando: speriamo di non dover andare a cercare di nuovo tra i nidi di ragno per uscirne fuori.

Più di tutto, oggi, ci manca un po’ di leggerezza. E speriamo che questa notte d’inverno passi in fretta…

E poi c’è questa cosa che rende le città invivibili più che invisibili, un virus per cui non bastano mascherine o distanze sociali: l’egotismo esasperato, il nascisismo col fiato corto, l’individualismo pret-à-porter, per cui si vive dimezzati tra una vita insipida e l’armatura vuota che ci costruiamo online per cercare qualche secondo di celebrità sui social.

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Salviamo il leviatano

Da Repubblica di sabato 22 agosto 2020

Taggia, avvistata una balenottera. “E’ Codamozza”

Una balenottera mutilata, con parte della coda mancante, è stata avvistata dai ricercatori dell’Istituto Tethys, a circa un miglio dalla costa di Arma di Taggia, in provincia di Imperia. Potrebbe trattarsi di Codamozza, già avvistata sul versante genovese del Santuario dei Cetacei. I segni di stress sono inequivocabili: manca, infatti, il lobo destro della coda e c’è un taglio profondo sul peduncolo caudale, dopo la pinna dorsale, che fa pensare a una ferita causata dall’elica di una nave. […]
– Era emaciata e carica di parassiti. L’abbiamo scortata per evitare che le barche si avvicinassero troppo acuendone lo stress – spiega Caterina Lanfredi, vicedirettore del Cetacean Sanctuary Research di Tethys l’associazione no profit che ha sede a Portosole a Sanremo – questo nuovo avvistamento è uno choc anche per noi.


Quando ho letto quell’annuncio di lavoro pensavo fosse uno scherzo.
“Cercasi psicologo per balene. Astenersi perditempo”. Cosa vuoi che abbia una balena in mezzo al mare, pensai, che soffra di solitudine? Poi decisi di mandare il curriculum: la laurea l’avevo, ma la specializzazione no, tantomeno in cetacei. Bisognava solo saper nuotare e aver letto cose come Pinocchio, il libro di Giona o Moby Dick. Il nuoto m’è sempre stato antipatico, ma con gli amici alla boa d’estate ci sono sempre arrivato. Sulle letture me la sono cavata scaricando un podcast poco prima del colloquio.

Capii tutto il primo giorno di lavoro. Altro che scherzi. Non siamo più ai tempi di Achab e dei balenieri: ore di attesa, vedette sui pennoni a scrutare l’orizzonte per scovare spruzzi e pinne. E Pinocchio e Giona non correrebbero nessun rischio di finire nella pancia di una povera balena. Al giorno d’oggi, trovare una balena, nel Mediterraneo, tra Sardegna e Liguria, nell’area che hanno chiamato “Santuario dei cetacei”, non è poi così difficile.

Ma, vedete, non bisogna confondere ciò che succede sopra il livello del mare con ciò che accade sotto. Giù, sotto la superficie, le cose vanno diversamente. Non c’è nulla per miglia, tutto è un muro blu. Ma poi, incontrare qualcosa o qualcuno non è così difficile. Le balene si trovano scambiandosi segnali sonori. Canti, click, suoni con cui si indicano i banchi di pesci per i mangiare e con cui dialogano o si corteggiano. Una balena è in grado di percepire questi rumori a parecchie miglia di distanza. Oggi però il fondo del mare è tutt’altro che muto. In mare c’è un po’ di tutto. Motori fuoribordo, acquascooter, sonar, eliche di portacontainer: un silenzio assordante. Per una balena dev’essere come avere un’autostrada trafficata sulla porta di casa.
E poi, loro malgrado, anche se sono mammiferi, le balene sono diventate dei veri VIF (Veri Important Fish): tutti le vogliono, tutti le cercano, tutti le fotografano. Questi poveri cetacei non hanno più un momento tranquillo. Nemmeno il tempo di venir su a respirare, che arrivano barche scoperte cariche di whale-watcher e turisti armati di macchine fotografiche e smartphone a caccia di un trofeo come in un safari. Figuriamoci se possono corteggiarsi e accoppiarsi. Potete ben capire che le balene non ne possono più. Gli effetti dello stress sono un po’ gli stessi dell’uomo, ma ventimila leghe sotto il mare. In tanti anni di attività ne ho viste di tanti tipi: orche bipolari che un momento prima fanno capriole a Marineland e un momento dopo precipitano negli abissi; delfini narcisisti; megattere anoressiche, beluga bulimici. Sono animali intelligenti e sensibilissimi, spesso come e più dei loro antenati sulla terra.

Io come curarle non so. Non esistere un lettino abbastanza grande su cui ascoltarli e nessuno ha ancora inventato il whalium. Noi ricercatori ci limitiamo, tuttalpiù, a qualche carezzina e a un’acciuga, quando è possibile. Ma è una goccia in mezzo al mare.

Più di tutte è Codamozza a preoccuparci. Il mare dei nostri tempi non è stato gentile con lei: le manca il lobo destro della coda e ha sulla pinna dorsale un taglio profondo provocato dal contatto con un’elica.
L’abbiamo incontrata nelle acque davanti a Genova: il suo canto era basso e lamentoso, quasi un mugugno. Sarà l’influenza della zona, ci siamo detti.
Ma dopo l’ultima volta che l’abbiamo vista ci stiamo preoccupando per lei. Era davanti ad Arma di Taggia, nemmeno troppo al largo, un miglio circa dalle coste piene di bagnanti e ombrelloni. Di certo, una cosa l’ho capita in questi anni: quando una balena si avvicina troppo alla costa, le cose non vanno molto bene. La costa, il confine tra le acque e la terra, sono per loro come il confine tra la vita e la morte. Per molte la terra, la costa, sono un richiamo irresistibile, alcune non riescono a sfuggirvi e vi s’avvicinano sempre di più, finché non restano spiaggiate.
Codamozza non stava bene: magra, perdeva pezzi di pelle e aveva molti parassiti. Non abbiamo potuto far altro che scortarla al largo per evitare che qualcuno le desse fastidio.

Ma ciò che non è accaduto oggi può succedere domani. Se non è Codamozza sarà Pinnarotta o Petrodoglio. Forse esiste un Achab in ogni essere umano. Come faremo allora a evitare che da santuario dei cetacei questo mare si trasformi in cimitero?

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Ricetta per un furgaro

Per preparare un furgaro,
spegni i fornelli.
Non servono: un furgaro a fuoco spento viene meglio.

Per cucinare un bel furgaro,
fatti aiutare da Pinocchio, Francois Truffaut e Fabrizio De André.
Loro sanno la ricetta, nessuno sa perchè.

Per un furgaro con i fiocchi,
devi leggere tutti i giorni il giornale.
Perchè solo così lo stupazzo scende meglio.

Per cuocere un furgaro doc,
devi sottrarre un po’ di zolfo alla vigna,
un po’ di carbone alla befana; la potassa la gratti dal muro.

Per un buon furgaro fatto in casa,
devi metterci un po’ di paura: s’impasta lenta, ci vuole tempo.
Come quando da bambino hai imparato che cos’era il fuoco.

Se vuoi la ricetta del furgaro,
a Taggia la sanno tutti ma non te la dirà nessuno.
Chiedi a tuo padre, a tuo nonno, al nonno del tuo nonno.

Per ottimi furgari ripieni,
usa solo ingredienti di prima qualità.
No a lieviti scaduti, zuccheri o tubi per pescar cavedani.

Per fare un furgaro,
usa solo bambù, riempilo d’esperienza e fantasia.
E un po’ ci devi pure credere.

Per preparare un furgaro come si deve,
non contano le porzioni: per uno, per nessuno, per centomila.
Solo per te sparerà la tua anima con le zemìe.

Per consumare un furgaro eccellente,
aspetta che arrivi il Vescovo d’Albenga.
Che prima, non è un furgaro che farai, ma un volgare petardo.

Servi il furgaro solo in piazza Farini.
In Italia ne han già fatti troppi: a Bologna, sull’Italicus, a Milano in Piazza Fontana.
Un furgaro vanta numerosi di tentativi di imitazione.

Se il tuo furgaro vien gramo,
può darsi che non sia ancora ora.
Allora, porta pazienza e assaggia prima quelli degli altri.

Qualcuno non capirà la luce del furgaro.
Pazienza, conosco pompieri ardenti e piromani spenti.
Il furgaro o si ama o si odia.

Ma se ami una ragazza e non sai dirglielo, il furgaro
è il sistema migliore.
Una donna non si prende per la gola, ma per il cuore.

Se il tuo furgaro poi vien moscio,
beh, con il tempo te ne farai una ragione.
Perchè prima t’avrà donato tante fiamme e calore.

Un furgaro,
è da consumarsi preferibilmente entro il 12 febbraio.
La direzione, lassù, poi non risponde di peccati in pensieri, parole, omissioni.

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La ferrovia sotterranea Colson Whitehead

C’è un treno che corre sottoterra. È carico di disperati, diseredati in fuga, schiavi provenienti da zone del mondo in cui l’uomo sfrutta l’uomo e la violenza è la quotidianità. L’unica alternativa a quel treno è una vita spenta, priva della qualità unica della vita stessa: la libertà.
Ma prendere quel treno non è semplice, non è da tutti. Bisogna fuggire da sé, dal proprio orticello coltivato con fatica, dal mondo che si è sempre conosciuto. Un uccello che nasce in gabbia spesso non sa volare. È poi un viaggio in completa solitudine, attraverso deserti aridi d’umanità; c’è poi chi resta bloccato per anni alla stazione a scontare il prezzo della propria libertà con violenze e soprusi.

Non vi ricorda qualcosa? E’ la sensazione che si ha leggendo La ferrovia sotterranea, di Colson Whitehead. Per tutte le 376 pagine questa domanda ronza in mente, fino alla fine, fino all’ultimo scambio ci si chiede se questa storia è realtà o fantasia.
Il libro racconta di una ferrovia sotterranea, costruita chissà da chi e perchè, che nell’America di prima della guerra civile porta gli schiavi dal sud al nord antischiavista. Cora, una ragazza cresciuta nella piantagione dei crudeli Randall, che ha sempre avuto la piantagione come unico orizzonte, viene un giorno a contatto con la Ferrovia sotterranea. Deciderà di cambiare la sua vita attraversando una palude di pentimenti, raggiungendo un giorno una fattoria e poi da li una botola in un fienile per scendere sulla banchina e aspettare quel treno, non comodissimo certo, ma per fortuna, almeno quello c’è. Cora si lascerà dietro mercanti di esseri umani, crudeli cacciatori di schiavi, ciarlatani, politici, imbonitori. Compagni, sorelle, amici, amori che non ce la faranno. Ma anche un mondo senza un briciolo di solidarietà, dove “I bianchi di mangiano viva, ma a volte ti mangiano viva pure i neri”. E dove chi fa la guerra per liberare gli schiavi ha pure lui i suoi interessi.
Forse è anche questo che non suona nuovo. Nessuno fa nulla per nulla. Ma in un’epoca in cui si parla di infrastrutture da fare o no, di treni che attraversano valli, monti e territori, leggere un libro come questo può essere utile a riportarci sul binario giusto. E chissà se esiste una TAV che corre sotto il Mediterraneo, destinata agli esseri umani anzichè alle mozzarelle, come disse qualcuno prima di cambiare idea. L’unica TAV che s’ha davvero da fare. Un treno che unisca una Europa, un’America, che corrono sempre più veloci, (ma verso cosa?) con un’Africa un mondo che rimane indietro prigioniero del proprio enorme potenziale perennemente inespresso.

Forse è colpa della Storia? Viene in mente Eugenio Montale: La storia non è poi/la devastante ruspa che si dice./Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La Ferrovia sotterranea è uno di questi sottopassaggi. Chissà, forse ce ne saranno altri. E noi, invece, che siamo già arrivati, prima di emettere proclami e giudicare, dovremmo prendere il treno all’incontrario per vedere l’effetto che fa.

La ferrovia sotterranea

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